Il caso Augusto Blotto, una nuova opera e un’opera nuova

L’ultima opera del poeta torinese Augusto Blotto, Ragioni, a piene mani, per “l’enfin!”, è sconfinata più di quanto lo siano state le precedenti: conta attualmente 2700 cartelle ognuna delle quali riporta mediamente 28 versi componendo così un flusso di 75.600 versi.

Di questo corpus, le edizioni [dia-foria, di Viareggio hanno oggi dato alle stampe una piccola ma significativa porzione, così come lo può essere la cima di un mastodontico iceberg le cui algide luminescenze si intravedono da miglia marine di distanza e come recita opportunamente il sottotitolo, Estrazioni dai giacimenti dell’opera.  Il volume curato da Daniele Poletti è accompagnato da un apparato critico con saggi di Giacomo Cerrai, Chiara Serani, Stefano Agosti (ripreso da una precedente pubblicazione) e Philippe Di Meo. Sarà questo, prevedibilmente, un ulteriore punto di riferimento per la critica dopo la pubblicazione degli Atti della giornata di studio svoltasi nel 2009 con l’apporto di Giovanni Tesio, Giorgio Bàrberi-Squarotti, dello stesso Agosti, di chi scrive ora questa nota, accanto a Di Meo e ad altri autori e critici.

Solmi e Agosti

Parlare di Augusto Blotto nei termini consueti di una recensione, magari con il corollario e la retorica dell’autore alla macchia, sarebbe però fuorviante perché il libro voluto da Poletti è l’ultimo passo di un percorso che procede dagli anni Cinquanta,  che affaccia più di una ventina di libri editati e altrettanti inediti, e sulla cui eccezionalità formale si era già pronunciato Sergio Solmi parlando su Paragone, negli anni Settanta, di «scrittura divergente».  Solmi rilevava che  la poesia di Blotto si inscriveva nella fenomenologia  del vuoto tipica dello zen. Una lettura piuttosto semplicistica ma che a lungo è risultata

quella più frequentata. Si è così arrivati al 2004, quando un saggio di Stefano Agosti ha fornito un’interpretazione analitica e puntuale mettendo in luce il concetto di «lingua dell’evento». In Forme del testo (Cisalpino, 2004), Agosti scrive che le osservazioni di Solmi giungono a una conclusione fuori strada limitandosi a rilevare che le unità semantiche degli enunciati non intrattengono tra loro un rapporto logico.

«La scrittura divergente – scriveva Agosti – esibisce ciò che il linguista Tesnière (…) riconosceva come una delle proprietà fondamentali del linguaggio: vale a dire l’indipendenza dell’ordine semantico dall’ordine sintattico.» Per contro Agosti metteva in chiaro che il verso di Blotto faceva «corpo con l’evento» attraverso una lingua «né rimemorativa, né commemorativa, né mimetica, né narrativa, ove le parti del discorso si scambiano i ruoli, per cui l’aggettivo si scambia col nome, il nome col verbo (…) in un continuum eracliteo».

Un perenne presente

Quella di Agosti è una chiave di lettura non eludibile e gravida di sviluppi. Proprio questo continuum eracliteo sembra evidente nel momento in cui si scopre, in ogni parte dell’opera, che la prospettiva temporale scompare, cancellata da un presente incessante, proteiforme, ramificato: un ventaglio di eventi (emotivi, riflessivi, percettivi soprattutto) che sembrano procedere come un vagabondaggio all’aria aperta. Vagabondaggio che richiama la stessa abitudine dell’autore di svolgere lunghe marce esplorative (come dicono le date e i luoghi che contrassegnano in  calce gran parte dei testi poetici quasi fosse un diario di bordo)…Viaggi dove la percezione della materia procede con le immagini dell’ambiente e i pensieri in un movimento continuo, da cui sembra scaturire, almeno a un primo approccio, la scelta formale di questa scrittura.  

Di questi itinerari Augusto Blotto mi parlò fin dal nostro secondo incontro quando gli proposi una intervista e lui enumerò i suoi percorsi all’aria aperta, in Piemonte, in Francia e altrove. «Procedo come un verme» disse per sottolineare  come il mondo gli perveniva attraverso i sensi. Dunque senza filtro razionale, senza sintassi ma con una eccedenza, se così si può dire, di nuclei semantici e di “scambi” tra le parti del discorso.

Augusto Blotto

Il presente e lo sconfinato

Nel mio saggio Il presente e lo sconfinato nella poesia di Augusto Blotto (1) ho parlato di «una sensorialità acuminata di cui la lingua fa sfoggio» in tutta l’opera edita e inedita,  una fisicità che si avvale di ogni possibile sintesi e figura nella messa a fuoco degli oggetti indipendentemente dal tono e dalla materia assunta dai testi.

In Traquillità e presto atroce (anni 60-61), titolo edito da Rebellato nel ’63, si legge:

Perché la punta del giorno è una lingua

di caffè nero, torridissimo, che fra balli

di galantina luce (baltei, freddo-centauro

sui maltosi da garages (…)

Qui la metafora calata nella quotidianità non è per questo meno visionaria e straniante. Il dato prosaico  precede e collide con il lemma prezioso, “galantina”, cioè un piatto freddo coperto di gelatina che offre un’opaca lucidità; il torrido caffè e la luce pronunciata con un lemma desueto contribuiscono alla suggestione del verso restando nel campo semantico dell’enunciato (cibo e bevande)  per poi ribaltarlo con una espressione tra parentesi in un mondo altro, distante: una luce scura, baltea, fredda… che subito per associazione richiama un altro ambiente, discosto da quello detto, cioè i maltosi dei garages che ospitano lucide motociclette/centauri).

Il movimento

Nella lirica di Blotto il movimento è strettamente connesso alla percezione sensoriale. L’autore passa da un oggetto materiale a un altro mentre trascorre da un luogo fisico ad un altro, sia all’interno di un singolo testo che nel complesso dell’opera.  E’ un movimento da cui scaturisce sia la componente lirica, sia l’abbozzo, l’accenno  (e sempre solamente l’accenno) di una narrazione. Scrive in La vivente uniformità dell’animale (Manni, 2003):

«Comoda è la vista saliente in gradoni

di cuscini zeppi di grilli e erboni

glauco inchiostro arcigna rosa di nubi

alla sera sfiatata e pur cristallina:

sorprese piacevoli.»

Il linguaggio divergente (così come inteso da Solmi)  è qui assente ma il dettato mostra la folla di oggetti e il continuo trasferimento cognitivo tra di loro. Ugualmente il processo creativo è analogo quello di versi più oscuri, di cui potrebbero essere migliaia le citazioni rimarcabili. Ma per mostrare questo modo di procedere, è sufficiente coglierne alcune, o una sola. In questo ultimo, visionario, Ragioni a piene mani per “l’enfin!”, ecco l’ incipit di pagina 113 datato St. Ouen sur Morin Sablonnières, aprile 2011:

«Unghia di corno giallino, ammirevoli

vegetazioni sottostando, ha corrugato

la crema del cielo, il suo lindo silenzio

a quadri di vagoni e margini (e per crema

s’intenda quel raggrupparsi a frangia

spinaciosa appresso a un piede che entra

in bagnarsi con dita ad arco, cenere e brusco

il tratteggio della pelle): aspettarsi (…)»

Scribens

Il viaggio della persona fisica corrisponde al movimento, alla dinamica del verso dell’autore o, per essere più chiari e usando i termini di Roland Barthes inerenti i ruoli messi in campo durante la scrittura  (persona, scriptor, author, scribens), con Blotto  la persona privata sembra non solo anticipare ma corrispondere a scribens, cioè all’io che sta scrivendo, che vive nella scrittura quotidiana sulla pagina… Quella che Stefano Agosti ha chiamato “lingua dell’evento”  identifica questo processo creativo.

Il mondo si esprime in Blotto attraverso il movimento e il movimento non può vivere, non può essere (cioè esser-ci) che in un perenne qui e ora. Sotto il profilo formale questo modo di generare la scrittura sceglie quindi non tanto l’invenzione lessicale quanto l’elisione e ricombinazione dei nessi e infine lo sradicamento della parola dal suo codice abituale di contesto: storico-letterario, tecnico, regionale, discorsivo, disciplinare.

Ancora sull’evento

Ciò che accade nella lingua dell’evento è lo spostamento continuo del campo semantico ma in presenza, sempre, di una fisicità debordante e in assenza di prospettiva. Una mancanza che corrisponde alla assenza di prospettiva temporale: poche le circostanze del passato emergenti dal discorso lirico (le più cospicue forse nel secondo libro editato “Il 1950,  il civile”  e ancora in Due mansuetudini congiunte al rozzo, e mai legate a una progettualità d’insieme. La fisicità, la ridondanza, il dispiegamento dei sensi, qualificano anche qui la poesia di Blotto, dove l’energia del verso si consegna al lettore attraverso l’accumulazione.  Il dettato arriva così agli esiti opposti a quelli profilati da Solmi, cioè l’azzeramento dei significati. Viceversa con Blotto la lingua poetica non consente mai di eludere la referenzialità ma semmai la ricombinazione logica del conosciuto. Blotto rende vero ciò che ha detto il Novecento europeo: il linguaggio poetico è  reinvenzione del mondo.

Marco Conti

Augusto Blotto, Ragioni, a piene mani, per l’ “enfin!”,a cura di Daniele Poletti, Pp. 252,  [dia-foria, 2021, euro 20,00

(1)Il presente e lo sconfinato nella poesia di Augusto Blotto in «Il clamoroso non incominciar neppure», Atti della Giornata di studio in onore di Augusto Blotto, Torino, Archivio di Stato, 27 novembre 2009, a cura di Mariarosa Masoero e Gabriella Olivero, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2010.

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