La vita di Stephen Crane riletta da Paul Auster

Prima edizione, 1895

Se aprendo le pagine di Ragazzo in fiamme pensate di apprestarvi a leggere la tradizionale biografia di un scrittore di fine Ottocento, che probabilmente non conoscevate, avete sbagliato di grosso. Capita invece che, Paul Auster emerso dalle fatiche del suo romanzo più vasto, 4 3 2 1,  ancora prima dei tempi claustrali della pandemia si sia imbattuto in un romanzo di Stephen Crane, Il mostro. Un romanzo minore per la critica ma un libro che gli ha riaperto porte e varchi del tutto inediti su questo autore.  In una recente intervista Paul Auster ha spiegato  infatt che  come quasi tutti gli studenti americani aveva letto Il segno rosso del coraggio (un passaggio obbligato nelle antologie), ma che quelle pagine lo hanno condotto a risalire lungo l’intera vita e le opere di Crane. Percorso che lo ha tramutato in una sorta di filologo fino ad impossessarsi  e condividere un immaginario che, per i più, risultava ormai relegato alla storia letteraria e agli studi specialistici.

Lo stile che piaceva ad Hemingway

Auster, pur tralasciando la critica accademica, ha scritto così un migliaio di pagine in cui passa al setaccio tutta l’opera dell’autore analizzandone la scrittura, uno stile che peraltro ammaliò Hemingway,  dalla quale emergono nuove prospettive di interpretazione. Ma in sordina (e in diversi scorci in evidenza) Ragazzo in fiamme mostra anche la partecipazione di Auster alle vicende e alle domande che pone la letteratura di Stephen Crane – autore maudit come il poeta quasi omonimo Hart Crane – che nei suoi 29 anni di vita creò un modello di scrittura. Il che, finora era riconosciuto solo sul versante della letteratura bellica. Il segno rosso del coraggio, pubblicato dapprima a puntate sul “Press” di New York e Filadelfia nel 1894, è infatti una storia che coinvolge il lettore dalla prima all’ultima pagina facendo a meno di qualsiasi coordinata storica sulla guerra di cui narra. Un approccio che venne definito “impressionista” ma che porta in primo piano la coscienza e le emozioni individuali del protagonista, un sedicenne che si trova su un campo di battaglia della guerra di Secessione.

«Il romanzo di guerra più celebre della nostra letteratura non è tanto un libro sulla guerra quanto un’analisi degli effetti della guerra su una mente giovane, ancora acerba, un’opera che, col senno di poi, lo stesso Crane avrebbe definito “un ritratto psicologico della paura”».  Auster fa osservare che lo scrittore sopprime tutto quello che esula direttamente dalla storia che lo interessa, lasciando solamente ciò che vede e riflette il protagonista. «Ci sono solo tre elementi in questo libro  – annota Auster – elementi  ridotti al minimo» che indica puntualmente: il paesaggio, i commilitoni del protagonista, e i pensieri che gli passano per la testa. Ecco un brano:

«Vide anche una batteria sottile andare di fretta lungo il filo dell’orizzonte, e sottili cavalieri che frustavano sottili cavalli. Dal pendio di una collina giunsero urla ed urrà. Il fumo saliva lentamente fra le foglie. Le batterie stavano discutendo con sforzi retorici tonanti. Qua e là c’erano bandiere, dominate dalle strisce rosse, che versavano tocchi di colore caldo sulle scure linee delle truppe.»

Un classico della modernità

Può essere che l’ampio lavoro svolto da Paul Auster permetta alla letteratura americana di riconsiderare nel suo complesso l’opera di Crane che non ha avuto la fortuna riservata in genere ai classici moderni. Viceversa Auster sembra voler sottolineare la spinta modernista di questa prosa indagata anche attraverso le opere minori, dai romanzi ai racconti e ai bozzetti, agli articoli di giornale.

Nato nel 1871 a Newark «nato il Giorno dei morti e morto cinque mesi prima del suo ventinovesimo compleanno. Stephen Crane visse cinque mesi e cinque giorni nel XX secolo, stroncato dalla tubercolosi prima di aver potuto guidare un’automobile o vedere un aereo»; è l’incipit di Auster. Crane fu un talento precoce per quanto non favorito dalla classe di appartenenza. A sedici anni cominciò a pubblicare qualche articolo sui giornali e a 22 uscì il suo primo romanzo, Maggie: ragazza di strada, considerato come il primo esempio di narrativa statunitense naturalista alla Zola. Dopo il romanzo sulla guerra di Secessione che gli diede fama, scrisse La scialuppa, ispirato al naufragio da cui si salvò di ritorno da Cuba su un battello. Corrispondente di guerra non visse mai il conflitto in prima persona nonostante l’ispirazione di Il segno rosso del comando.

Della relativa trascuratezza critica intorno a questo autore è segno eloquente la nota della traduttrice di Auster, Cristiana Mennella, in calce al volume. Mennella fa rilevare infatti che spesso i dettagli commentati da Auster non trovano riscontro nelle tre opere di Crane tradotte in italiano in epoche diverse. A parte l’ultima versione di Il segno rosso del coraggio (di Michele Mari), nel 2022, tutti gli altri testi citati sono così stati tradotti dalla Mennella.

f.m.

Paul Auster, Ragazzo in fiamme. Vita e opere di Stephen Crane, pp. 1006, Einaudi, 2022; euro 24, 00

 

“Cuore”, storia tormentata e lieto fine di un long seller

L’idea era stata di Edmondo De Amicis: un libro scritto col cuore, un libro per le emozioni della giovinezza contro la ragione dell’età adulta, una narrazione fatta di bozzetti. Ma non fosse stato per l’intuito dell’editore Emilio Treves, Cuore non avrebbe probabilmente mai raggiunto i piombi della tipografia. Lo scrittore era già noto per i suoi libri di viaggio, un genere tra i più vitali dell’Ottocento europeo, ma nel 1878, quando concepì quel titolo aveva voglia di una pausa. Aveva appena chiuso le pagine di L’amour di Jules Michelet, allora molto in voga, e si era convinto di voler scrivere qualcosa di appassionante.  Così presa carta e penna annuncia al suo editore: «Ho in testa un libro nuovo, originale, potente, mio  – di cui il solo concetto mi ha fatto piangere di contentezza e di entusiasmo». E dopo aver citato la sua ultima lettura chiarisce: «Per fare un libro nuovo e forte bisogna che lo faccia colla facoltà nella quale mi sento superiore agli altri – col cuore.» E ancora: «tutta la mia anima si è ridestata. Ecco il mio libro, dissi. Il cuore dei vent’anni, la ragione dei trenta. Il soggetto preso nel mio cuore. Il libro intitolato Cuore. L’affetto, la benevolenza, la bontà studiate, cercate, volute, applicate nei differenti periodi della vita».

Il racconto alla Regina Margherita

In quello stesso anno De Amicis parte per Parigi dove segue per l’ “Illustrazione Italiana” l’Esposizione Internazionale giunta ormai alla quinta edizione.  Al ritorno è invitato nel salotto della regina Margherita alla quale, in mancanza di meglio, racconta per filo e per segno il suo progetto:  un romanticissimo libro intitolato Cuore. Poi il buio. De Amicis non è in forma fisica e un anno dopo scrive ancora a Treves che egli non pensa ad altro pur ammettendo nella stessa lettera di avere paura che «il pubblico» lo abbia preso «in uggia». Gli incoraggiamenti dell’editore sono espliciti ma  servono a poco. Lo scrittore propone altri testi e, a quel punto, riprendendo il carteggio Emilio Treves si spazientisce: «Sono sgomento. Tu mi scrivi d’ogni cosa fuor che….del Cuore. Fai di tutto meno il Cuore. L’hai dimenticato? O non hai più coraggio di far promesse finché non mi mandi i manoscritti? …Io aspetto il Cuore, il Cuore, il Cuore».

L’editore degli intellettuali

In quegli anni, rispetto al suo rivale più importante, Edoardo Sonzogno, Treves è l’editore nobile, riservato agli autori di nicchia. Dalla fitta corrispondenza con De Amicis  risulta però chiaro che Treves intuisce come un libro destinato ai giovani costituirebbe una novità importante in termini di vendite e di prestigio. L’ostinazione con la quale continua a richiederlo non sembra avere ragioni più forti, a dimostrazione che l’aziendalizzazione della letteratura ha radici lontane per quanto sia poca cosa rispetto a quella di oggi, decisamente vicina  all’azzardo dell’en plein.

Tuttavia nel 1880 l’autore dei libri di viaggio, Olanda, Marocco, Spagna, Ricordi di Londra, Ricordi di Parigi (quest’ultimo scritto nel 1879, vale a dire l’anno dopo l’Esposizione Universale e la missiva sul progetto) sembra aver messo in soffitta il suo libro ideale. Scrive invece dei sonetti. Ogni sonetto gli viene pagato quattro lire. E tanto pare che basti. Allora Treves torna alla carica scrivendogli che il suo è tempo rubato al libro Cuore. E’ il maggio 1880 quando Edmondo De Amicis comunica all’ editore che sta lavorando finalmente al libro ma il titolo ora non lo convince più: «ti dico francamente che una delle più gravi difficoltà è il titolo per me. Ah! se tu me lo lasciassi cambiare, quanto lo finirei più presto! In tre anni il mio modo di vedere si è mutato in molte cose».  E in attesa del best seller, Treves lascia correre e pubblica dell’autore i Ritratti letterari e le Poesie.

Cuore, un tormentone

Passano altri due anni. La storia del meraviglioso libro annunciato sembra ormai solo un tormentone. La narrazione  dovrebbe essere conclusa. Invece lo scrittore insiste ancora sul titolo e chiede che Cuore diventi Gli amici. Treves allora ricorda che il titolo è stato ormai pubblicizzato sulle sue riviste e De Amicis spiega che, in quegli anni, nel corso della scrittura, il registro è cambiato: «Ma perché Cuore? Ma se il libro è pieno di satira, di ironia, di scherzo». Di fronte a questa rivelazione Emilio Treves non ha più parole. Del resto lo scrittore aveva davvero cambiato registro? L’opera era davvero alle ultime battute? Non pare proprio.

L’anno successivo (1883) Edmondo De Amicis dà alle stampe con Treves un altro libro che effettivamente si intitola  Gli amici ma che non ha nulla da spartire con il progetto iniziale. Nel  1884 scrive Alle porte d’Italia, testo editato a Roma da Sommaruga. Segno che nei rapporti  tra l’editore e lo scrittore  qualche ombra si è allungata oltre le consuetudini e le aspettative. Ma nella vita di De Amicis si aggiunge un’altra novità: i suoi due figli, Ugo e Furio, sono ormai entrati in età scolastica. Frequentano le elementari dove un libro di lettura vero e proprio non c’è. Il progetto messo in cantiere quattro anni prima torna così in auge e questa volta la strada sarà più agevole. La corrispondenza con Treves torna puntuale: «Non ho più altro pensiero, altro affetto che il mio Cuore: i capitoli succedono ai capitoli; metà del lavoro è fatta tra le lagrime e gli scatti di gioia…». E ancora: «Vivo tra i miei ragazzi delle scuole elementari, li vedo, li sento e li adoro, non mi par più d’essere nato per altro che per quello che faccio. Ah la vedranno i fabbricanti dei libri scolastici come si parla ai ragazzi poveri e come si spreme il pianto dai cuori di dieci anni, sacro Dio!».

Best seller e long seller

Non fosse stato chiaro fino a quel momento, ora lo è per tutti, editore compreso. De Amicis pensò ad un’opera didattica, fatta con una buona dose di retorica, di buone intenzioni e di figure stilizzate utili allo scopo. Ne ebbe verosimilmente la controprova Italo Calvino  quasi un secolo dopo, nel 1971,  quando ripubblicò per Einaudi un De Amicis fino a quel momento sconosciuto: vale a dire  il racconto Amore e ginnastica incluso nel libro Fra scuola e casa (1892), dove l’autenticità dei personaggi  sembra inversamente proporzionale a quelli del libro adottato dalle scuole, Cuore

Ma per tornare alla storia letteraria sul finire dell’Ottocento, il best seller  fu pronto per le bozze nel maggio del 1986,  otto anni e mezzo dopo l’annuncio dell’autore.  A ottobre Treves lo mandò in libreria in tutta fretta con le illustrazioni dei suoi migliori disegnatori. Non a caso. Ottobre era il mese  in cui le scuole riaprivano i battenti. Il successo fiutato da lontano non venne smentito.  Né l’autore né l’editore potevano invece immaginare che nel giro di tre mesi sarebbe stato necessario approntare la 41° edizione mentre arrivavano dall’estero le richieste di traduzione.  Nel 1923 Cuore raggiunse un milione di copie vendute. Per l’epoca un record paragonabile solo a un altro long seller,   Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi che si stampò tre anni prima, che superò in fortuna il libro deamicisiano ma ebbe inizialmente una accoglienza tiepida e perfino contrastata dal moralismo e dalla bigotteria.

La struttura del romanzo

Cuore si articola come il diario di un allievo di terza elementare che racconta vari episodi di vita e le cose notevoli di un anno scolastico. Ma De Amicis ebbe l’accortezza, se non il colpo di genio, di rendere la lettura più agevole creando con questa struttura una cornice dove si collocano mese per mese nove racconti dettati dal maestro. I protagonisti di queste narrazioni sono proprio i ragazzi che assumono le vesti di eroi per coraggio, bontà,  sacrificio, in parallelo con la cultura idealista ma anche paternalista e  guerrafondaia del tempo come ricordò la critica di Luigi Russo alcuni decenni dopo («Il socialista De Amicis si rivela il più valido sostenitore e propagandista della borghesia capitalistica e nazionalista e guerrafondaia»). Francesco Flora, storico della letteratura italiana definì invece l’opera uno dei «più felici romanzi dell’Ottocento».

Franti, l’allevo più turbolento 

Per compendio dei patemi impliciti nell’opera, vale forse più di ogni nota critica lo spirito con cui Umberto Eco negli anni Sessanta scrisse Elogio di Franti, cioè del personaggio che nella storia deamicisiana interpreta il cattivo soggetto, per dirci che la pedagogia implicita nel romanzo è greve e insistita.  Ecco infatti comparire tra gli altri racconti La piccola vedetta lombarda, un bambino che si sacrifica per spiare le mosse dell’esercito nemico; Il piccolo scrivano fiorentino dove il protagonista è un altro allievo che senza dire nulla al padre lo aiuta ricopiando di notte alcuni registri, riducendo con questo il suo profitto scolastico e incorrendo nelle rimostranze del genitore ignaro, oppure  (con chiave ugualmente patetica),  Dagli Appennini alle Ande, un lungo racconto sull’emigrazione dove si parla di un tredicenne che ritrova la madre dopo numerose avventure e sfiancanti ricerche. Un registro opposto a quello di Amore e ginnastica dove lo humor e la vitalità contraddittoria dei protagonisti sembrano quasi sorgere da un altro immaginario senza preoccupazioni morali se non quelle della letteratura.

Marco Conti

Bibliografia: Mimi Mosso, Le origini e le vicende del “Cuore” di Edmondo De Amicis dal carteggio inedito di Emilio Treves in “L’illustrazione Italiana”, Milano, 1922; Mimi Mosso, I tempi di “Cuore”, Mondadori, 1925; Edmondo De Amicis, Amore e ginnastica (con una nota di Italo Calvino), Einaudi 1971; Umberto Eco, Diario Minimo, Mondadori, 1963; Edmondo De Amicis, Cuore, Treves, 1886;  Luigi Russo, La cultura popolare e il De Amicis, in Belfagor, 1a. VII, n. 6. 1950;  Pino Boero, Giovanni Genovesi, Cuore. De Amicis tra critica e utopia, Franco Angeli, 2009

Barbero, “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria”

Con “Brick for stone”, Alessandro Barbero immagina un thriller che accompagna l’attentato alle Torri Gemelle di New York

«Poi sentirono di nuovo urlare la folla, ma come non aveva mai urlato finora, e si volsero a guardare laddove guardavano tutti. Una delle due Torri non c’era più. L’altra continuava a bruciare, come bruciava da più di un’ora, vomitando fiotti di fumo infernale.» L’immagine è vivida e il finale dell’ultimo romanzo di Alessandro Barbero, Brick for stone, è noto: le Twin Tower crollano e sembrano svanire nell’aria.

Il circo dei mostri

La narrazione termina, quindi, con l’attentato dell’11 settembre 2001 e cosa racconta? Racconta i mesi precedenti, durante i quali una squadra organizzata dall’agente della CIA, Harvey Sonnenfeld, indaga, cerca indizi, formula ipotesi. I consulenti di Harvey sono un ingegnere russo, Grišunja, esperto in attentati; uno studioso di frasi offensive e graffiti osceni, il prof Kosellech; il direttore del Mc Donald’s del centoduesimo piano della Torre Nord, Francy Flores; lo scacchista Bobby Fischer. Le scelte di Harvey sono a dir poco discutibili tanto che i suoi colleghi definiscono questo gruppo mal assortito “il circo dei mostri di Sonnenfeld”. La Ditta, come la chiama Harvey, è a conoscenza di un possibile attentato a New York, a Manhattan, ma non ne conosce modalità e tempistiche; pertanto, l’agente ottiene i finanziamenti necessari e sguinzaglia i suoi uomini. Il loro compito consiste nell’andare in giro per l’isola osservare ed ascoltare e, soprattutto, riferire ogni deduzione, ogni segno, ogni premonizione. Kosellech analizza i graffiti nei bagni pubblici e le scritte sui treni della metropolitana perché vi è la certezza che gli attentatori debbano comunicare fra loro anche attraverso canali inconsueti. Effettivamente, individua due scritte che compaiono sui treni “burn Manhattan” e “hit the Toweers”; la seconda scritta oltre l’errore ortografico è accompagnata da due tratti verticali.

Obiettivo confermato

«Secondo lei è da pazzi pensare che quelle scritte possano essere messaggi in codice scambiati dai terroristi?» chiede l’agente al suo informatore, mentre si fa strada in lui la conferma dell’obiettivo e la risposta «quando si tratta della specie umana può succedere di tutto» fuga ogni dubbio. Il problema diventa capire come possano essere abbattute le Torri Gemelle dato che l’impresa sembra quasi impossibile, ma Harvey, anche in questo caso, ha la persona giusta: Bobby-boy Fischer, ovvero l’uomo che immagina le combinazioni impossibili.

Hey Torri, stiamo arrivando

In metropolitana, Harvey trova un biglietto incollato al suo sedile del treno “Hey Towers we’re coming” e si rende improvvisamente conto che il tempo è finito, che solo lui può fermare tutto.

Barbero, però, è affascinato dalle disfatte, dai grandi sforzi organizzati che finiscono malissimo e questa storia non fa eccezione.  L’impegno profuso finisce in quella nuvola bianca finale originata dal crollo della Torre Sud, che porta con sé anche il coronamento di una delle storie d’amore raccontate nel libro.

Tra realtà e finzione

A differenza della maggior parte della sua produzione, l’ultimo lavoro di Barbero non è un romanzo storico; infatti, le vicende narrate sono frutto della finzione letteraria, così come la moltitudine di personaggi, ad eccezione del campione del mondo di scacchi Robert James Fischer, che nel settembre 2001 era ancora in vita, ma non a New York. Il personaggio Bobby Fischer è costruito con tutte le caratteristiche di quello vero, ma Barbero ne inventa il rapimento e la collaborazione con la Cia. Le singole vicende e i loro protagonisti sono inventati ma verosimili, credibili in un’America di inizio Millennio, come altrettanto credibili sono i linguaggi utilizzati, adeguati ai diversi contesti sociali, non solo nei dialoghi, spesso indiretti liberi, ma nei pensieri, nelle riflessioni. Il narratore esterno, ma non lontano, anzi quasi mimetizzato nel contesto, si cala, infatti, via via nella focalizzazione dei singoli personaggi rendendo così l’opera corale e multifocale.

Alessandro Barbero durante la presentazione del suo ultimo romanzo

Un romanzo “diverso”

Un filo conduttore che unisce questo romanzo “diverso” agli altri dello storico più seguito d’Italia è certamente l’interesse per la centralità della città, attraversata dai personaggi, vissuta, respirata e perciò ricreata nelle pagine. È stato così per Atene, per Fiume, per Parigi, per Venezia e ora per New York, che è mostrata nei suoi quartieri, nelle vie e colpita nel suo cuore economico. Un tratto, invece, non caratteristico di Barbero è evidente fin dalla copertina: il titolo del romanzo e delle tre parti che lo compongono sono in inglese. Brick for stone, cioè Mattone al posto di pietra, proviene dalla Bibbia di re Giacomo, in particolare dall’episodio della Torre di Babele come riportato in esergo; mentre l’ultima è una citazione di Marx All that is solid melts into air, ovvero tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Una sequenza di riferimenti storici che si accompagnano a quelli meno evidenti, come quando, en passant, è possibile cogliere una parte di una delle sue conferenze sull’Editto di Rotari: «Una volta Harvey aveva letto di chissà quale popolo barbaro, nei secoli bui, che stabiliva per legge delle compensazioni, nel caso che qualcuno fosse ammazzato o malmenato: se ti danno un colpo di spada in testa, ma senza romperla, la cifra è fissa; se invece schizzano via pezzi d’osso, hai diritto a una certa cifra per ogni frammento. Il legislatore era barbaro, ma non stupido: anche lui si era chiesto come bisognava contarle, le schegge.» Una voce che si fa riconoscere anche attraverso il piglio ironico, come quando, a poche ore dall’attentato si avverte la tranquillità di Bobby Fischer che riflette su cosa possa mai andare storto su un aereo, sul quale si sente ormai al sicuro.

Giancarla Savino

Alessandro Barbero, Brick for stone, Sellerio, pp. 346, Sellerio, 2023; euro 16, 00

 

 

 

Vita, destino, censure e traversie dell’opera maggiore di Vasilij Grossman

Soltanto un anno fa è uscita in Italia la traduzione di Stalingrado, il primo romanzo della dilogia di Vasilij Grossman che prosegue con il più noto Vita e destino. Difficile pensare sorte più infelice per una delle opere maggiori del Novecento russo. Intanto persino il titolo, Stalingrado, venne censurato in bozze: nel 1952 apparve in Unione Sovietica al suo posto Per una giusta causa, titolo edificante ma in sé non sufficiente ad accontentare il governo. Vennero infatti tagliati alcuni brani e Grossman fu invitato a scrivere delle aggiunte. Pare che le redazioni complessive (quelle spontanee dell’autore e quelle “consigliate”) furono complessivamente undici. L’edizione italiana di oggi ha cercato di individuare la versione più autentica, originale e completa del romanzo. Una narrazione che inizia nel 1942 con il conflitto mondiale e segnatamente con l’incontro tra Mussolini e Hitler alla stazione ferroviaria di Salisburgo dove i due dittatori discutono nel merito dell’aggressione all’Unione Sovietica. La prospettiva del conflitto, le voci dell’autorità,  hanno però come contraltare, sia in questo romanzo sia nel successivo, Vita e destino, uno sguardo che dalla grande storia si trasferisce al mondo degli umili.

Grossman e Tolstoj

Nel primo romanzo il lettore si trova subito di fronte a un contadino che, in partenza per il fronte, si deve occupare delle scorte di legna per l’inverno della sua famiglia. E come in tutte le opere ispirate dall’equivalenza tra verità e letteratura, Grossman pesca a piene mani della sua esperienza e dalle sue passioni. In primis quella per Tolstoj.  L’autore di Stalingrado modella le sue pagine sul paradigma di Guerra e pace e il suo protagonista, commissario dell’Armata Rossa, rende omaggio alla tomba di Tolstoj e  visita la tenuta di Jasnaja Poljana esattamente come fece lo scrittore.  Le osservazioni critiche che dovettero nascere spontanee al corrispondente di guerra Grossman sono però avocate alle riflessioni più generali mentre i momenti dell’assedio di Stalingrado ripercorrono sostanzialmente le ricostruzioni storiche sovietiche.

Il KGB alla porta

Per Vita e destino il giudizio del governo fu invece reciso. Nel 1961 il KGB si presentò alla porta dello scrittore per confiscare il manoscritto, un corposo volume di 900 fogli che stava a stento in una scatola. Grossman venne  invitato ad accompagnare gli agenti nei loro uffici da dove poté uscire qualche ora dopo, ma senza il suo libro. Grossman scrisse allora a Nikita Krusciov: «Nel mio libro – disse – ci sono decine di pagine di amarezza e di dolore per il nostro recente passato, per gli eventi che accompagnarono la guerra. Forse non sono facili da leggere, ma credetemi non sono stati più facili da scrivere (…) La mia libertà fisica non ha alcun senso senza perché il libro al quale ho consacrato la vita si trova in prigione. Vi prego di lasciarlo libero affinché possa parlarne con degli editori piuttosto che con gli agenti del KGB.[1] »

Vita e destino

Con Vita e destino, Grossman prosegue e conclude il grande affresco tolstojano  ma, diversamente da quanto accade nel primo libro,  la narrazione dei Gulag staliniani, il giudizio che ne scaturisce e che compara implicitamente ogni forma di totalitarismo, decretano la censura del romanzo. Il testo parlando della riconquista di Stalingrado, racconta delle condanne alla pena capitale per 600 mila persone e dei Gulag dove vennero rinchiuse le etnie  minoritarie e già perseguitate: ceceni, tartari, calmucchi. In tutto 120 mila prigionieri. Il fatto che l’autore opponga alla rigidità del sistema la bontà e disponibilità dell’animo russo, non è naturalmente misura sufficiente. Del resto lo scrittore che aveva dato alle stampe Stalingrado era ormai un altro uomo. Di origine ebraica, nato a Kiev, di ideali socialisti, autore di romanzi ideologicamente assimilati alle tesi rivoluzionarie, Grossman si vide a poco a poco defraudare ogni illusione a cominciare dal divieto posto da Stalin di mettere in rilievo l’antisemitismo di Hitler, cioè di far riferimento agli ebrei come principali vittime del nazismo.

Rispetto a Stalingrado si avverte un passo narrativo più incisivo fin dall’incipit del romanzo:

«La nebbia copriva la terra. Il bagliore dei fanali delle automobili rimbalzava sui fili dell’alta tensione che correvano lungo la strada. Non aveva piovuto, ma all’alba il terreno era umido e, quando si accendeva il semaforo, sull’asfalto bagnato si spandeva un alone rossastro. Il respiro del lager si percepiva a chilometri di distanza – lì convergevano i fili della luce, sempre più fitti, la strada e la ferrovia. Era uno spazio riempito da linee rette, uno spzio di rettangoli e parallelogrammi che fendevano la terra, il cielo d’autunno, la nebbia.»[2]

Il paesaggio fitto di  «linee rette» sembra assumere in sé la disumanità del luogo e per contrappasso l’omogeneità di pensiero che ne ha decretato la nascita. Come nel romanzo modernista anche in questa narrazione Grossman moltiplica le voci, percorre storie diverse, disegna profili di spie ed eroi. ma soprattutto pone una pesante pietra tombale su quelle che dovrebbero apparire le indefettibili verità dello Stato.

I manoscritti e l’edizione di Losanna

Vasilij Grossman cominciò a scriverlo nel 1948, lo concluse nel 1959, fu ideologicamente cassato due anni dopo dalla visita del KGB. Nel 1964 lo scrittore morì in seguito ad un cancro. Dirà agli amici: «Avrebbero fatto meglio a uccidermi». Nonostante il sequestro, esistevano tuttavia due altre copie manoscritte, una nascosta in una dacia di campagna, l’altra affidata al poeta Semion Lipkin[3]. Furono poi il fisico Andrei Sakharov e la moglie Elena Bonnet a trasferire le due copie del manoscritto, tra loro differenti, in Occidente. E bisognerà attendere fino al 1980 dopo un lavoro di confronto filologico tra i testi, per la prima edizione del romanzo a Losanna con L’Âge d’homme. Solo nove anni più tardi, con le aperture della Glasnost, Vita e destino sarà stampato anche in Russia.

Marco Conti

 

[1] Vie et Destin in BibliOdyssées (testi di K, Daoud e R. Jerusalmy), Imprimerie nationale, 2019; [2] V. Grossman, Vita e destino, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi, 2008; [3] La citazione è tratta dal documentario di Priscilla Pizzato, Il manoscritto salvato del Kgb. Vita e destino di Vassili Grossman, Arte, trasmissione andata in onda il 24 gennaio 2018

Ian McEwan, Lezioni sul desk della Storia

 

La fragilità del protagonista del romanzo sembra essere ugualmente condivisa da quella della Storia, tra un ‘900 ricco di aspirazioni e ideali e le delusioni cocenti del XXI secolo

L’esergo che accompagna l’ultimo romanzo di Ian McEwan, dice: «Prima percepiamo. Poi precipitiamo». E’ tratto da Finnegan Wake e si adatta meravigliosamente sia alla storia del protagonista di Lezioni, Roland Baines, sia seguendo il percorso del libro anche alle sorti del Novecento nell’evoluzione scompaginata del primo scorcio del XXI secolo. Con Lezioni McEwan consegna infatti un importante romanzo di formazione che fin dal primo capitolo mette in scena il secolo trascorso e la propaggine della pandemia di quello che viviamo. Intervistato sull’intreccio di piccola e grande storia lo scrittore britannico ha detto che per giudicare il nostro tempo possiamo farci questa domanda: «Per i nostri figli sarà meglio o peggio?»

Le riserve di McEwan sono riassunte in una pagina verso la fine del romanzo, ma già nella narrazione allegorica di Lo scarafaggio,  nel 2019, le pregiudiziali erano preponderanti assumendo la fisionomia di un racconto satirico ed eloquente.

Il protagonista

La storia di Roland Baines abbraccia un arco di tempo così vasto perché affonda le radici nei tempi del secondo conflitto mondiale attraverso le figure genitoriali del protagonista e di quelle della prima moglie, Alissa, di origini germaniche, destinata a diventare una importante scrittrice. Ma la stessa narrazione può essere raccontata ancora meglio dicendo che il protagonista attraversa il suo tempo con gli slanci e la curiosità della giovinezza e con le grevi retrospezioni  a cui lo obbliga una vita sulla quale non ha saputo imporsi e dalla quale non è stato favorito. Roland Baines non incarna del resto nessun paradigma novecentesco. A voler leggere la narrazione sotto il profilo ambizioso della grande storia, si potrebbe tutt’al più aggiungere che Ian McEwan ha riflesso nel suo personaggio il carattere laico e libertario di tanti giovani europei della sua generazione destinati a scontrarsi con le servitù quotidiane e l’avversa fortuna.

Lezioni di piano

Il cuore del romanzo è forse proprio in quell’esergo, nel sentimento di fragilità che accompagna Roland così come aveva accompagnato la giornata di Henry nel romanzo Sabato (2005),  dove il protagonista è seguito passo a passo nelle ventiquattro ore di una giornata caratterizzata da una manifestazione pacifista contro la guerra in Iraq. Il rapporto tra destino individuale e storia è dunque un tratto ormai costante dell’opera dello scrittore britannico fin da Lettera da Berlino come lo sono gli interrogativi etici (Amsterdam, Espiazione).

In Lezioni la scena di esordio è un ricordo del protagonista: «Era un ricordo insonne, non un sogno. Sempre quella lezione di piano – pavimento in piastrelle arancione, un’unica finestra alta, il nuovo pianoforte verticale in una stanza spoglia nei pressi dell’infermeria. Lui undicenne,  alle prese con quello che altri avrebbero forse riconosciuto come il primo preludio, volume I, del Clavicembalo per temperato di Bach, versione semplificata, ma di cui lui non sapeva niente.» Il giovanissimo Roland è un talento destinato alla sala concertistica ma la maestra che gli siede accanto è tanto convinta delle sue qualità quanto eroticamente invaghita dal giovane che, qualche anno dopo controlla, ama e al quale si propone come moglie con una fuga verso la Scozia dove in quegli anni il matrimonio è possibile nonostante i sedici anni del musicista. Roland  ha vissuto in Libia, è tornato in Inghilterra per essere sistemato in un collegio da un padre autoritario, maggiore nell’esercito, e una madre debole, incapace di superare quella che avverte come una colpa inconfessabile, aver cioè abbandonato un altro figlio di una precedente relazione in un istituto. Presto scopriamo nell’andirivieni narrativo tra presente e passato, tra il discorso libero indiretto e le digressioni storiche, che Miriam, l’insegnante di piano che abusa del ragazzino, è solo la prima decisiva sfortuna affettiva. La seconda, tranchante, è quella che subisce da adulto poco dopo la nascita di suo figlio Lawrence: la moglie Alissa, di origini anglo-tedesche, abbandona il marito lasciandogli un laconico biglietto.  Non ci sono ragioni cogenti e neppure ombre inquiete in famiglia. Più tardi Roland scoprirà che Alissa vuole semplicemente dedicarsi alla scrittura. Ma il fatto che il suo romanzo d’esordio sia salutato come un’opera straordinaria non è di troppo conforto. Peggio sarebbe stato solo fosse stato un fallimento.

Flashback

Una lunga analessi riporta il lettore nell’ambito famigliare della fuggitiva. Anche la madre di Alissa voleva scrivere e la sua storia si incunea così  rotondamente tra le altre aprendo persino uno squarcio,  nell’ambiente della rivista Horizon, di Cyril Connolly nel 1943, per raccontare della suocera Jane, piovuta in Francia da Londra alla ricerca dei sopravvissuti del movimento clandestino tedesco di opposizione a Hitler detto La rosa bianca. E’ forse la digressione più ampia, rispetto alla linea principale del romanzo e non avrebbe ragione di essere non fosse per l’ambizione dell’autore di disegnare a tutto tondo l’impegno intellettuale dei personaggi. Impegno che riguarda lo stesso Roland quando aiuta una famiglia di Berlino Est prima della caduta del Muro, evento dove è facile rintracciare (è il 1989) il discrimine delle attese europee tra il passato delle dittature e il futuro della democrazia e delle libertà. Un futuro disatteso scopriremo, funestato dall’indifferenza dei governi per lo scempio della natura, dell’equilibrio ecologico, a cominciare con le preoccupazioni per il cesio veleggiante nell’atmosfera dopo il disastro della centrale nucleare di Cernobyl.

Non si pensi tuttavia ad un romanzo (l’ho già detto) schiacciato sul profilo etico. McEwan è soltanto attento a riflettere nelle vicende individuali la scena mondana nel senso più ampio. I rapporti tra la ex moglie candidata al Nobel e Roland e Lawrence sono filo che si intreccia continuamente nella memoria, nel quotidiano, nel tentativo infruttuoso del figlio di parlare con la madre mentre il padre, abbandonati nella giovinezza gli studi musicali, divide i suoi impegni tra un sontuoso caffè-concerto annesso a un hotel di prestigio, qualche poesia inviata alle riviste e il ruolo di maestro di tennis. Poca cosa rispetto alle attese ma forse non rispetto ad ambizioni pregiudicate dalla solitudine.

«C’è una nuova bruttezza nel mondo»

Per Roland ci sarà un’ultima chance. Quella dell’amica e poi amante e moglie Daphne, in fuga a sua volta dal narcisismo di un  marito violento e vanesio. Ma siamo ormai al presente, al primo, al secondo, al terzo lockdown pandemico, quando il protagonista svolge il bilancio della sua vita, lo confronta con quello dell’ex moglie scrittrice e riflette: «Avrebbe scambiato la sua famiglia con un metro cubo di libri? Rivolse uno sguardo al viso di Alissa di nuovo ben riconoscibile e fece di no con la testa.»

Le sfaccettature tra il profilo dei personaggi e il loro ambiente sono straordinariamente vive. Ian McEwan riesce a comprenderle in una prosa in cui la frase breve, essenziale, è costante e perennemente divisa tra azione e pensiero. Così avviene anche nelle ultime pagine quando le chiose di Roland sulle sorti d’Europa sembrano sovrapporsi a quelle dell’autore: «Era a conoscenza delle ragioni per cui rallegrarsi, e qualche volta anche lui aveva citato gli indici, il tasso di alfabetizzazione e così via. Ma erano tali perché messi in relazione a un passato disastroso. Era più forte di lui, c’era una nuova bruttezza nel mondo. C’erano nazioni governate da bande di criminali in abito scuro impegnate ad arricchirsi e mantenute in carica dai servizi segreti, dalla riscrittura della storia e da nazionalismi fanatici.»

Marco Conti

Ian McEwan, Lezioni, (trad. S. Basso), pp. 561, Einaudi 2022; euro 23,00

Il viaggio dell’eroe

La struttura del mito di Campbell rivisitata dagli sceneggiatori di Hollywood

La narrazione come viaggio; il personaggio come eroe. Chirstopher Vogler propone una sorta di baedeker che oggi torna ad essere stampato (e arricchito) a quasi trent’anni dalla sua prima edizione originale. Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema è di fatto una sorta di mappa che permette di entrare nella fabbrica della sceneggiatura e del romanzo. Ma questo a patto di voler conoscere l’abbecedario dell’invenzione narrativa lasciando in disparte una più rotonda nozione di letteratura.

A voler prendere in prestito la terminologia del libro, Vogler ha a sua volta assunto “lo spirito guida” di Joseph Cambell con  L’eroe dai mille volti,  un saggio di mitologia comparata che usa l’idea di archetipo di Jung. Lo scrittore ha mutuato infatti da quel testo le tappe strutturali del percorso. Consulente per le major cinematografiche degli Stati Uniti (dalla Warner Bross alla Walt Disney) il saggio di Vogler costeggia in ogni pagina il plot delle sceneggiature estendendo solo per comparazione questo approccio narratologico al romanzo.

La storia esemplare

Come Propp aveva enumerato 31 funzioni per descrivere ogni tipo di fiaba (Morfologia della fiaba, 1928) , Campbell pensa all’eroe inei momenti topici della sua avventura. Il viaggio che Vogler ripercorre si divide in dodici segmenti e in diversi profili funzionali del protagonista: dalla sua vita ordinaria al momento in cui l’eroe si impegna in una impresa. Ecco dunque le opportunità: il rifiuto o l’accettazione, la comparsa del Mentore (quello che per Propp è un aiutante). Qui lo sceneggiatore e romanziere classico hanno concluso la prima parte della storia. La seconda consiste nel superamento delle prove (gli ostacoli di Odisseo/Ulisse o di Renzo e Lucia, per semplificare) dove si affacciano amici e nemici, aiutanti e falsi aiutanti. La vicenda avrà dunque il suo apice in uno scontro frontale e determinante dal quale l’eroe uscirà mutato e più forte. Ugualmente la prova centrale consentirà di mostrare le debolezze del personaggio protagonista, di avvicinarlo così allo spettatore (o al lettore) fino alla ricompensa. Ancora un passo e si è sulla strada del ritorno, l’ultima parte del film, dove  si ristabilisce l’ordine iniziale. Campbell e Vogler insistono anche sui valori simbolici di morte e resurrezione, cioè su quegli elementi che  accomunano l’esperienza umana e che forniscono nel paradigma del mito una risposta alle ansie collettive.

Eroi o Mentori: evitate i cliché

Pinturicchio: Il ritorno di Odisseo.

Gli strumenti migliori del saggio sono quelli che, prescindendo dalla teoria di Campbell, entrano nel laboratorio di scrittura. La presenza di un eroe ( o al suo posto di un anti-eroe, cioè un personaggio marginale che diviene protagonista) non si costruisce solo in base ai rapporti con l’ambiente. I tratti individuali sono quelli che separano uno stereotipo da un profilo capace di raccogliere l’attenzione e credibilità. «Per evitare i cliché – scrive Vogler a proposito della figura del Mentore – e dare al vostro testo freschezza e originalità, sfidate gli archetipi! Capovolgeteli, rivoltateli, fate consapevolmente a meno di loro per vedere cosa succede.» E più avanti: «La maschera del Mentore può essere usata per condurre con l’inganno l’Eroe alla vita criminale (è così che Fagin recluta i ragazzi per impiegarli come borseggiatori in Oliver Twist) oppure per coinvolgerlo in un’avventura pericolosa mettendolo» a servizio dei cattivi. Giusta a questo punto la citazione di Gregory Peck spinto ad aiutare delle spie da un falso saggio in Arabesque.

Molti i soggetti cinematografici con cui Vogler confronta le avventure dell’Eroe, pochi o assenti invece i termini di comparazione con la letteratura modernista e contemporanea. L’idea di struttura parrebbe essere esauriente. Ma non è così. Lo si vede per esempio in una delle aggiunte all’edizione del 1992, alla fine del libro.

La scena nella logica delle major

 Vogler spiega in quest’ultimo contesto che un giorno una esperta story editor chiamò a raccolta gli sceneggiatori chiedendo loro cosa fosse una scena e bocciando ogni risposta. «Una scena è una transazione» fu il verdetto. L’autore si diffonde su questo concetto che appare importante anche per l’ambito più specificatamente letterario. La transazione a cui fa riferimento è quella in cui due o più personaggi cominciano stipulando un patto «e poi negoziano o si scontrano sinché non si arriva alla formulazione di un nuovo accordo». Insomma la scena di Vogler è una rinegoziazione. Un concetto che può essere utile in un western e in una commedia, in un romanzo di Dostoevskij che confronta due personaggi, ma che risulta fuorviante per gran parte della letteratura. Non perché sotto il profilo della transazione non possa leggersi anche qualche scorcio narrativo di Calvino o di Hemingway, ma perché lo strumento interpretativo è nel migliore dei casi insufficiente a cogliere lo specifico e l’essenziale. Non è con un microconflitto (più o meno esplicito) che si giustifica qualitativamente una scena.

Quest’ultima parte sembra invece trasferire da Hollywood alla narrativa non l’eroe di Campbell ma l’aziendalizzazione della letteratura. Gli inviti, in sè cortesi, a non sciupare il tempo dello spettatore o del lettore sembrano diramare, ugualmente, dalla stessa logica d’impresa, dove il numero e la soddisfazione dei clienti è garanzia della bontà del prodotto. Per essere chiari: duemila anni di letteratura dicono che non lo è.

Osvaldo Enoch

Christopher Vogler, Il viaggio dell’Eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema, Pp.199, Dino Audino  Editore, 2020; euro 20,00

 

Cristina Bove, sospesi nel vuoto

Tra i molti appelli della poesia contentemporanea italiana, la lirica di Cristina Bove procede con il passo certo della chiarezza. Non quella aleatoria delle suggestioni “pop”, in lizza ora anche con lo Strega. Ma quelle che, dal canone alla fine del  ‘900, consegnano la letteratura al pubblico dei suoi lettori. Un primo riscontro lo fornisce Anna Maria Curci nella prefazione a La simmetria del vuoto, testo  da cui preleva un concetto che si riverbera, io credo, non solo in quel libro. E’ l’idea di sospensione che la Curci utilizza per definire l’atteggiamento implicito nei versi. Meglio ancora, la prefatrice ricorre al tedesco schweben, dove è presente un più ampio campo semantico. Nel verbo  ricorrono infatti le idee contigue di volo, fluttuazione, oscillazione. Vale la pena di rilevarlo subito per dire che Cristina Bove, anche nel libro successivo, Una donna di marmo nell’aiuola (dove il titolo parrebbe con questa scorta vagamente paradossale), mostra la stessa disposizione.

Il punto è che Cristina Bove in queste due opere, rispettivamente del 2018 e del 2019, l’idea di schweben  si dirama da quella di distacco: non solo  il distacco implicito dell’ironia ma, di pari passo,  quello di una sorta di pathos della lontananza. E’ dalla distanza del tempo che Cristina Bove guarda l’essere al mondo; è dalla distanza dalla mondanità e dal cicaleccio contemporaneo che osserva gli impiastri della storia. La sospensione diviene allora la condizione singolare di una voce che permette di pronunciare: «l’aria che avvolge i corpi/ è il calco d’ogni forma _ una fusione a cielo perso_/ l’antimateria ha il suo marchio di fabbrica// siamo scavati nelle nuvole/ abbiamo l’elemosina del sogno». Una metafora al genitivo che chiosa con eloquenza le forme convocate in “Come conigli tratti dal cappello” nel secondo dei libri qui citati.

Una donna di marmo nell’aiuola

Se l’aria appare l’elemento più proprio delle attitudini citate, va detto che il percorso di Una donna di marmo nell’aiuola è fitto di allegorie racchiuse nel perimetro delle diverse contingenze evocate. La dimora, la casa, diventa così traslato del paesaggio dell’essere: stanze, specchiere, pareti, divani,  soffitti, tappeti, sono le forme incidentali di un viaggio metafisico. Così che in ciò che è contiguo si distingua ogni remoto. Nel testo “Poi la nave bianca”, Cristina Bove scrive:

L’inizio della curva
sul fianco della sala. Viro
rischiosamente all’angolo del vento
piccola tramontana d’apprensione
e di ritorno sul tappeto il mare

è sempre mare quello che calpesto
un mare a cera
un porto di piastrelle _sedie a remi_
il faro d’alabastro appeso al muro

nel doppiare la costa del divano
è li lo scopro
accovacciato dietro la sua fronte
sessanta primavere sulla faccia
_la mappa del suo dire_
e l’improvviso volgermi le spalle

l’isola mia si stende sul balcone
alghe di rose sulla riva intrisa
e nello sciabordio poche parole
scritte di pioggia dall’innaffiatoio
nel terminale inquinamento da
amore impoverito _ e d’altre scorie non
biodegradabili_

Speditamente, con ritmo certo,  la poesia inscrive la tensione verso un altrove non pronunciato  nello spazio opposto del quotidiano; il timbro colloquiale della contiguità si nutre dell’emozione antitetica, vale a dire (ancora) dell’ironia. La sequenza compatta attraverso un paradossale parallelismo il mare e il pavimento, i remi e la comoda seduta del salotto, la pioggia e l’innaffiatoio, in maniera che altrove, con voce diversa e fuori da ogni cornice, possa commentare: «Se solo ricordassimo l’immenso/ quando ci prende e ci asserisce il male!» I due versanti di questa poetica (vicino e remoto) si compenetrano continuamente. Gli ultimi più ellittici versi del percorso procedono allo stesso modo, cioè con la stessa dialettica. Nelle strofe di “L’inizio presuppone l’infinito”, si legge:

perché la fine è un cambio di stagione
ci sono armadi in terra 
e armadi in cielo
al termine dell’aria
_la vita ripiegata in un cassetto_
 

E ti ricordi
quando innanzi tempo
tentarono la fuga
i mille pezzi della donna argento?
 

un grappolo di luna
riluceva di vita in mare aperto:
i figli tutti
scrivevano sull’acqua il proprio nome

E’ in questa voce  «fuori d’ogni maschera», aggiunge Annamaria Ferramosca nella sua prefazione, a rivelarsi radice e seme della ricerca, tra la bellezza del velo di Maja e la sua interrogazione oltre le futilità.

La simmetria del vuoto

Quanto appena detto non esclude affatto la percezione della storia. E Cristina Bove vi si addentra qui e là con un vigore che capita raramente di trovare nella produzione lirica contemporanea per quanto eterogenea. Nel primo libro, La simmetria del vuoto,  questo accento è forse più marcato. Ecco comparire allora la diegesi del potere con i versi limpidissimi di “Ipnagogica”, dove la distanza  è solo quella che si esprime nel percorso tra l’ironia e il sarcasmo:

Il balbuziente dio delle borgate
acclama l’afasia degli istrioni
a un pupazzo e ai suoi accoliti gli onori
al gregge la pastura, ammaestrare
la pecora che basta lavorare
mangiare, defecare, guardare la tivù
versare i contributi e le prebende
schiattare sulla terra col sudore
piegarsi ad ogni altare
ché tanto poi l’accoglierà Gesù
nel paradiso di chi muore qui
per far la vita agiata al suo predone
 

il potere ha lo sporco nelle unghie
_un supermarket delle ambiguità_

E alla strofa di chiusura:

ci vorrebbe una tromba sveglia_ armenti
un terremoto ai timpani
e capiremmo che l’assuefazione
ne uccide più di distruzioni in massa

Non si tratta di un occasionale salto nel caravanserraglio del presente perché nel libro successivo (che abbiamo appena abbandonato), un trittico di Bosch consente all’autrice un timbro ancora più diretto: «si traghettano infamie per campare/ si vendono indulgenze agli assassini/ i pesci muti vengono affettati/ i topi si nascondono nei muri/ e cosa mai ci resta da pensare/ da musicare da comporre in frasi/ possiamo solo mendicare il sogno/ dei folli e dei poeti»  scandisce in “Sull’entropia d’un trittico” per chiosare infine passando dal passato al presente: «Tuttavia se non saremo lesti a decrittare/ non ci sarà per noi madonna in cielo/ o santo che ci possa traghettare.»

Nella poesia di Cristina Bove la soggettività è quasi sempre assorbita dal tema o dalla prima persona plurale con cui l’autore dialoga e riflette.  Tra i testi di  La simmetria del vuoto, lo sporgersi oltre il proprio tempo ha un vasto corollario che condivide  gli incisi meta letterari di “S’imponeva il grigio”, le strofe  dove  prevale una nozione etica e «la terra è un campo coltivato a sassi» (“Malgrado i convenevoli”) ed un gioco letterario di paronomasie  e parafrasi che s’innervano fin dai titoli: “Agenzia delle uscite”, “Resa dei vinti”, “Una gita tutta per sé”… Dove i versi oscillano o si librano tra bellezza e humor annunciando una volta di più un’altra ennesima provvisorietà: «Quando si sarà detto/ tanto da non avere più cartucce/ scaduto il regolare porto d’arti/ il rigo assumerà quei segni fitti/ come gli scarabocchi di ricette».

Marco Conti

Cristina Bove, La simmetria del vuoto, pp. 89, Arcipelago Itaca Edizioni, 2018; euro 13, 00.

Cristina Bove, La donna di marmo nell’aiuola, pp. 113, Campanotto Editore,2019; euro 15,00

 

L’orsacchiotto

Scritto nella maturità di Simenon, il romanzo ha per protagonista un uomo di successo nel labirinto di una colpa ineluttabile e quasi kafkiana

Come l’impiegato Popinga, L’uomo che guardava passare i treni, anche l’esimio medico Jean Chabot  in questo romanzo appena ripubblicato da Adelphi, L’orsacchiotto, è stanco della vita di ogni giorno. Così stanco che un giorno decide di prelevare da un cassetto la sua pistola automatica, infilarsela in tasca e portarla con sé tra reparti ospedalieri, visite, ricevimenti mondani. Ma mentre il celebre personaggio di L’uomo che guardava passare i treni aveva condotto una vita modesta bruscamente conclusa con il fallimento dell’azienda, il professor Chabot è ascoltato come un luminare, ha una moglie devota, un’amante, qualche svago erotico passeggero tra le corsie e la deferenza di tutti.

 Una visita dallo psichiatra

Qual è allora l’inquietudine che a mezzanotte porta il professore a far visita a un suo vecchio amico psichiatra? Chabot non riesce a dormire, ma è tutto quello che riesce a confessare. Con un mezzo sorriso sulle labbra si congeda prima di vagabondare ancora fino alle finestre illuminate dell’amante.

All’origine del malessere c’è tutt’altro. Qualcosa che il protagonista di Simenon non riesce a confessare fino in fondo neppure a se stesso, cioè la sensazione di non aver vissuto la vita che voleva. Avverte con disagio gli anni dell’università, con insofferenza quelli del fidanzamento, con noia ciò che è seguito. Come Popinga  anche il medico comincia la sua fuga: ma tanto quella dell’uomo che nella notte fantasticava osservando la scia luminosa dei finestrini dei treni era già, in nuce,  una fuga clamorosa, quanto quella di Jean Chabot  risulta inavvertibile, confinata nelle sensazioni e nel senso di colpa. Rispetto al loro ambiente i due personaggi sono addirittura agli opposti: l’insuccesso del primo ha come contraltare la carriera e il potere del secondo; il rifiuto, lo schiaffo inferto dall’idolo erotico di Popinga, è un’emozione sconosciuta al distaccato dongiovanni della clinica parigina.

 Popinga e Jean Chabot

Entrambi sembrano però condividere un momento rivelatore: se per Popinga è quello che rompe la sua routine e le sue speranze, per Jean Chabot è l’avventura di qualche notte con una ragazza, “l’orsacchiotto” che l’ha saputo sorprendere per la sua dolcezza. Nulla di grave, eppure quando la giovane scompare e il medico scopre che è stata licenziata dalla sua segretaria e amante Viviane,  non reagisce finché sul giornale non legge la notizia del suicidio, della maternità che la ragazza aveva cercato inutilmente di comunicargli. «Quel giorno andò fino alla camera di David ma non osò toccare l’orsacchiotto, si limitò a guardarlo da lontano. Aveva gli occhi rossi, ma più che al pianto erano dovuti al troppo cognac.» Mesi dopo, la figura della giovane diventa quasi un personale mito salvifico : «Aveva un bel cercare nei suoi ricordi di uomo quasi cinquantenne, non trovava un’altra immagine così incantevole né così commovente».  Ancora un passo e per Jean Chabot si aprono le quinte di una totale disaffezione: mentre è in sala operatoria per un attimo si sente perso e incapace di portare a termine un parto; in auto guarda e ascolta come da un luogo remoto: assente per gli altri e irrisolto davanti a se stesso.

Le fiabe nere di Simenon

Il nemico, l’antagonista delle fiabe di Georges Simenon si annida sempre nel vissuto del protagonista, anti-eroe novecentesco per eccellenza, impegnato in un viaggio senza alleati e senza soluzione. Quando il trauma è a monte della vicenda, come l’abbandono per Il piccolo libraio di Archangelsk, il senso di colpa spunta come una talpa nel piatto territorio dell’abitudine; quando il delitto è reale, la retrospezione sul personaggio appare impietosa. La scrittura asciutta e densa di emozioni, una linea narrativa che intreccia costantemente presente e passato, il dato contingente con la ricognizione della memoria, fanno anche di questo libro, scritto nell’avanza maturità di Simenon, nel 1960, una lettura quasi kafkiana per la fatalità enigmatica che si avverte fin dalle prime righe.

Marco Conti

Georges Simenon, L’orsacchiotto, pp. 147, Adelphi, euro 18,00

 

 

 

 

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Contemporaneo occidentale, le qualità della letteratura

Un’antologia di racconti e le riflessioni sull’autenticità della letteratura in un tempo dominato dal lettore-consumatore Mario Lavagetto in Eutanasia della critica svolse nel 2005 un’analisi dell’approccio alla letteratura. Nel suo testo osservò che il referente più ascoltato del XXI secolo non nasceva nell’ambito disciplinare e critico ma dal mercato: il …

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