L’orsacchiotto

Scritto nella maturità di Simenon, il romanzo ha per protagonista un uomo di successo nel labirinto di una colpa ineluttabile e quasi kafkiana

Come l’impiegato Popinga, L’uomo che guardava passare i treni, anche l’esimio medico Jean Chabot  in questo romanzo appena ripubblicato da Adelphi, L’orsacchiotto, è stanco della vita di ogni giorno. Così stanco che un giorno decide di prelevare da un cassetto la sua pistola automatica, infilarsela in tasca e portarla con sé tra reparti ospedalieri, visite, ricevimenti mondani. Ma mentre il celebre personaggio di L’uomo che guardava passare i treni aveva condotto una vita modesta bruscamente conclusa con il fallimento dell’azienda, il professor Chabot è ascoltato come un luminare, ha una moglie devota, un’amante, qualche svago erotico passeggero tra le corsie e la deferenza di tutti.

 Una visita dallo psichiatra

Qual è allora l’inquietudine che a mezzanotte porta il professore a far visita a un suo vecchio amico psichiatra? Chabot non riesce a dormire, ma è tutto quello che riesce a confessare. Con un mezzo sorriso sulle labbra si congeda prima di vagabondare ancora fino alle finestre illuminate dell’amante.

All’origine del malessere c’è tutt’altro. Qualcosa che il protagonista di Simenon non riesce a confessare fino in fondo neppure a se stesso, cioè la sensazione di non aver vissuto la vita che voleva. Avverte con disagio gli anni dell’università, con insofferenza quelli del fidanzamento, con noia ciò che è seguito. Come Popinga  anche il medico comincia la sua fuga: ma tanto quella dell’uomo che nella notte fantasticava osservando la scia luminosa dei finestrini dei treni era già, in nuce,  una fuga clamorosa, quanto quella di Jean Chabot  risulta inavvertibile, confinata nelle sensazioni e nel senso di colpa. Rispetto al loro ambiente i due personaggi sono addirittura agli opposti: l’insuccesso del primo ha come contraltare la carriera e il potere del secondo; il rifiuto, lo schiaffo inferto dall’idolo erotico di Popinga, è un’emozione sconosciuta al distaccato dongiovanni della clinica parigina.

 Popinga e Jean Chabot

Entrambi sembrano però condividere un momento rivelatore: se per Popinga è quello che rompe la sua routine e le sue speranze, per Jean Chabot è l’avventura di qualche notte con una ragazza, “l’orsacchiotto” che l’ha saputo sorprendere per la sua dolcezza. Nulla di grave, eppure quando la giovane scompare e il medico scopre che è stata licenziata dalla sua segretaria e amante Viviane,  non reagisce finché sul giornale non legge la notizia del suicidio, della maternità che la ragazza aveva cercato inutilmente di comunicargli. «Quel giorno andò fino alla camera di David ma non osò toccare l’orsacchiotto, si limitò a guardarlo da lontano. Aveva gli occhi rossi, ma più che al pianto erano dovuti al troppo cognac.» Mesi dopo, la figura della giovane diventa quasi un personale mito salvifico : «Aveva un bel cercare nei suoi ricordi di uomo quasi cinquantenne, non trovava un’altra immagine così incantevole né così commovente».  Ancora un passo e per Jean Chabot si aprono le quinte di una totale disaffezione: mentre è in sala operatoria per un attimo si sente perso e incapace di portare a termine un parto; in auto guarda e ascolta come da un luogo remoto: assente per gli altri e irrisolto davanti a se stesso.

Le fiabe nere di Simenon

Il nemico, l’antagonista delle fiabe di Georges Simenon si annida sempre nel vissuto del protagonista, anti-eroe novecentesco per eccellenza, impegnato in un viaggio senza alleati e senza soluzione. Quando il trauma è a monte della vicenda, come l’abbandono per Il piccolo libraio di Archangelsk, il senso di colpa spunta come una talpa nel piatto territorio dell’abitudine; quando il delitto è reale, la retrospezione sul personaggio appare impietosa. La scrittura asciutta e densa di emozioni, una linea narrativa che intreccia costantemente presente e passato, il dato contingente con la ricognizione della memoria, fanno anche di questo libro, scritto nell’avanza maturità di Simenon, nel 1960, una lettura quasi kafkiana per la fatalità enigmatica che si avverte fin dalle prime righe.

Marco Conti

Georges Simenon, L’orsacchiotto, pp. 147, Adelphi, euro 18,00

 

 

 

 

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Giovanni Ibello, Amin e gli specchi del mito

In un paesaggio eterogeneo come quello della poesia contemporanea, Giovanni Ibello scrive con  I dialoghi di Amin un libro che  si ritaglia uno spazio proprio, lirico quanto possono essere lirici gli slanci nel corpo variegato del mito. In ognuna delle quattro parti in cui è divisa questa partitura, i versi  sono uno specchio che riflette gli altri e dove il tempo non è quello secolare a cui ci ha abituati il secondo Novecento. Nell’introduzione Milo De Angelis parla degli archetipi a cui rinviano queste pagine, e certo di archetipi si può parlare in ordine a una natura copiosa e trascendente e ad un dialogo che talvolta sembra forgiato con la conoscenza  del mito.
L’esergo del poeta siriano Adonis è eloquente: «L’universo tutt’uno con me/le mie palpebre chiudono le sue/ l’Universo alla mia libertà fuso/chi di noi due ha partorito l’altro?».  Nel libro corre tra le pagine l’appartenenza orfica che stabilisce prima d’ogni altra cosa, con le parole di  Elémire Zolla, «la metamorfosi del poeta stesso», da presenza storica a spirito libero.

Lo specchio del mito

Se questo è lo sfondo su cui Ibello crea la sua tela, i versi mostrano una linea diegetica, un racconto, in cui la soggettività è pronunciata  attraverso lo specchio di Amin («Io sono Amin,/ colui che restò nel noncanto») e sembra via via avviarsi all’insussistenza. Palpebra, appunto, che chiude palpebra. Del resto il concetto non si potrebbe ribadire meglio di quanto fanno i versi di Ibello: «Dio, gheriglio di stella/ insegnaci a svanire/ poco a poco/ insegnaci il dialogo amoroso/ tra i picchi delle braci e l’arpionata notte.» La metafora di Ibello sostiene una visione. Se i «picchi di brace» ci immergono insospettabilmente  nel cuore della forza tellurica, altrove  l’immaginario disegna «l’assillo di aranceti» dentro il  «perimetro di un grido»  e l’alba, che sorprende Amin in ciò che è «ignota rovina». La parola sembra scandita con una pronuncia sapienziale e del dettato sapienziale ha la densità che porge l’allegoria in tutta la sua ambiguità. Ecco i primi versi di  “Io non torno più”, il  testo che apre la seconda sezione:

Ricavo dai roghi autunnali

un altare di gemme,

è il menhir dell’esiliata luna.

Io sono Giovanni

e non ho mai chiesto di essere amato.

L’amore stringe nel seno

la sorte del tuono:

frantumare il vetro dell’esistenza.

Sembra di cogliere nella voce dell’autore, nel suo io lirico ma trascendente anziché empirico,  una censura rispetto alla mondanità  mentre le fisionomie dell’immaginario acquistano una valenza assoluta: «Mai nessuno/ ci ha chiesto di essere vivi»  scrive in “E’ Questo il destino dei corpi”.

Luce cariata dall’avvenire

Nell’ultima parte del libro il tempo sorgivo dell’alba si fa ossimoro, notte portentosa, splendore del disastro e infine messaggio, soffio poetico:

Morte all’incanto,

alba di macellazione.

Un vitellino soffia alla luna:

sei tu l’hiroshima dello splendore.

Sei tu la mia regina assira,

l’ambasciata del vento,

la poesia che mi farà sole.

Per una analoga ragione, la mondanità a un tratto viene citata con il profilo evenemenziale di Maradona: «C’era l’immagine di Maradona/ sopra un muro di cemento/ ma l’arco degli occhi era sporcato/ da brandelli di manifesti mortuari». La colpa originaria, orfica si potrebbe aggiungere, per insistere sulle radici del mito, è  in certo modo ribadita nell’ultima esergo della quarta parte sotto il titolo “Luce cariata dall’avvenire”: «Scrivere è ammettere la colpa.»

Marco Conti

Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin, pp. 72; Crocetti Editore, 2022; euro, 11,00

 

Guglielmo Aprile: la poesia civile, la poesia dipinta

E’ poesia civile, e dunque controcorrente, l’ultima scritta da Guglielmo Aprile con Falò di carnevale, un titolo che come i suoi testi gioca sulla valenza della consuetudine e dell’allegoria. Allegoria nel suo significato più ampio di metafora costante, continuata, insistita. Il discorso poetico di Aprile (tra i suoi libri Nessun …

Il dottor Bergelon e i personaggi in fuga di Simenon

La fuga, lo straniamento a cui il personaggio va incontro allontanandosi dalle consuetudini, è uno dei temi che fondano la narrativa di Georges Simenon. Attraverso questo snodo narrativo Simenon racconta sia l’evasione, sia il trauma e la trasformazione del personaggio. Accade anche in Il dottor Bergelon  proposto ora nella traduzione …

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