25, il peso di doversi confermare

Il nuovo romanzo di Bernardo Zannoni dopo il Campiello dell’esordio

Avere 25 anni può essere difficile, ci si destreggia tra i grandi, senza averne l’esperienza. Iniziano le responsabilità, ma al contempo ci si aggrappa ancora all’innocenza bambina, un canto del cigno prima di rimanere intrappolati in una «Grande Gabbia» di aspettative e ansie sociali. Allo stesso modo non è semplice confermare la propria maturità artistica con la pressione dell’aver vinto il premio Campiello con un esordio brillante come I miei stupidi intenti (Sellerio): una favola animale che s’interroga su cosa sia davvero umano con gli occhi di una faina. Bernardo Zannoni, classe 1995, ha avuto soltanto un anno per tornare in libreria, probabilmente schiacciato da logiche editoriali e commerciali, e ci ha provato con 25, un’opera diversa dal capolavoro precedente, forse di minore ambizione, ma che scava nelle sensazioni che hanno portato alla scrittura di quel gioiello e nelle pressioni che la società impone alle nuove generazioni.

Gerolamo detto Gero

Protagonista è Gerolamo, detto Gero, ragazzo di 24 anni alle soglie del compleanno. Di lui sappiamo che è sovrappeso, vive solo dopo l’abbandono della madre e del padre, entrambi dissolti nel vuoto, in una villa senza luce e non studia, né lavora: ad assisterlo è rimasta solo la zia «enorme» e malata, che lo accudisce con i suoi manicaretti in un alloggio maleodorante, spingendolo a coltivare la sua passione per la fotografia. Clotilde ha un rapporto morboso con il nipote, lo tratta ancora come un bambino, come si vede quando gli promette sorprese per il compleanno (nient’altro che un misero rattoppo del giubbino strappato dopo una serata alcolica) e lo stesso vale per il ragazzo, bloccato in dimostrazioni di affetto puerili e in una situazione di stallo emotivo, aggravata da una disastrosa relazione passata.

Gli uomini vuoti

 Il mondo che attornia il «ciccione idiota», come lo appella il violento Barracus – oste del bar dove Gero passa le nottate con amici e conoscenti –  è fatto di ombre, «gli ignavi», dai quali il ragazzo non si esclude: un esercito di Hollow men, di eliotiani “uomini vuoti”, che passa il tempo senza prospettive, trovando come unico rimedio l’andare dallo psicologo, fare yoga o bere tutte le sere. Il flipper, a cui i giovani avventori dedicano gran parte del loro interesse pur sapendo che non dovranno mai superare il record del titolare – pena l’esclusione a calci nel sedere -, diventa il correlativo oggettivo di una vita a metà, fatta di obiettivi futili e di vincoli che frustrano le (seppur piccole) ambizioni dei ragazzi. Chi prova a far finta di niente, rischia di esplodere, come succede a Tommy, motore immobile della trama con il suo tentato suicidio: è il primo di una serie di incontri con la morte che porteranno il protagonista prima al «punto di rottura», poi a una nuova consapevolezza, come nella miglior tradizione dei romanzi di formazione.

Sono tante le perizie per arrivare a sentirsi «uomo», in un impianto romanzesco che mima la favola, soprattutto nei ruoli: Barracus, l’oste-orco antagonista che mette alla prova il personaggio principale, Amon l’amico-aiutante distratto dalla relazione altalenante con Dora, Martin il vicino della zia che finge di soccorrerlo dandogli un lavoro ma lo incastra in ulteriori drammi e la moglie Betta, assunta a mandante della missione finale quando chiede aiuto per ritrovare il compagno fuggito al Pillola blu, un luogo al limite del fantascientifico dove i clienti sono messi dentro a oblò e lasciati a confrontarsi con le loro paure. A segnare Gerolamo saranno la visione sanguinolenta della carne al mattatoio Kilhdren, in particolare di un cuore che passa lungo il nastro trasportatore mentre si improvvisa operaio (per coprire la fuga di Martin), e la scomparsa della zia che, nonostante il dolore difficile da elaborare, lo inchioda alla presa di coscienza di essere solo.

 Clotilde e “le altre”

Un po’ superficiali le descrizioni femminili. Se è vero che si possono spiegare con il clima nebuloso e insipido in cui sono catapultati tutti i personaggi, quasi tutti descritti come persi in una società dove andrebbero ridefiniti i cardini e le priorità, sono poche le figure memorabili a parte la zia e la giovane Betta. Beirut, la sorella di Tommy che viene agognata nei sogni di Gero, rimane intangibile e stereotipata nel mestiere di avvocata: la sua bellezza è sbrigata in pochi tratti e i tentativi d’incontro con lei pressoché ridicoli e abbozzati. Lo stesso si può dire di Ekaterina Kilhdren, affascinante proprietaria del mattatoio che per tutto il romanzo rimane un’ombra minacciosa sulle spalle del protagonista (il suo diktat è che, dopo la sostituzione nell’azienda di Martin, Gero venga denunciato per aver timbrato il cartellino al posto di un altro o porti all’amico la lettera di licenziamento). Nelle ultime pagine assurge a compassionevole maestra di vita, offrendosi di comprare la villa del ragazzo: un’evoluzione troppo rapida per essere verosimile, visto che la donna compare appena un paio di volte in tutto il libro.

Lorenzo Germano

Bernardo Zannoni, 25, pp. 160,  Sellerio, 2023; euro 16,00

Genovesi e l’oro di Nuno

Nel corso della Storia ci sono date dette spartiacque, ovvero quelle che si riferiscono ad avvenimenti che segnano una netta divisione tra il prima e il dopo. Il 476 d.C. ne è un esempio: finisce il mondo allora conosciuto, il mondo romano, e inizia un dopo completamente diverso fatto di regni romano barbarici. Quella data rappresenta l’inizio del Medioevo. Il 1492, invece, indica la fine del Medioevo ed è un’altra data spartiacque. L’avvenimento che sancisce una rottura tra un prima e un dopo è la scoperta dell’America, narrata nell’ultimo romanzo di Fabio Genovesi Oro puro.

La Gallega

La vicenda ha come protagonista Nuno, un ragazzo di sedici anni, ebreo non praticante, figlio di una prostituta che muore nei primi capitoli. Rimasto orfano, non volendosi convertire al cristianesimo – come imposto dai sovrani spagnoli – Nuno si trova a dover abbandonare Palos, il paese natio e imbarcarsi su una nave che sta partendo per una grande avventura. Sul molo viene scambiato per un mozzo «Stai cercando la Gallega, vero?», gli dice un marinaio, non sapendo che Nuno era conosciuto proprio come il figlio della Vedova, o il figlio della Gallega – termine che stava a indicare le prostitute. «Eh, con quel sacco in spalla, a guardarti intorno. Anche gli altri hanno fatto uguale. Perché cercate tutti la Gallega, ma non si chiama più così. Questo nome a Lui non piace, ha detto che non è rispettoso, allora da oggi la nave si chiama Santa Maria. Però è la Gallega, capito?» Il “Lui” di cui parla il marinaio è Cristoforo Colombo, lo straniero dallo strano accento, con un mantello rosso, che Nuno conoscerà dopo alcuni giorni di navigazione. Sul momento il ragazzo si unisce ai marinai dopo aver risposto affermativamente ad un “sei abbastanza pratico?”, cui avrebbe voluto rispondere di non essere mai salito su una nave.

Scrivere è un lavoro del cuore

Il mal di mare lo accompagna nei primi giorni di navigazione, riducendolo allo stremo delle forze, fino a quando non viene preso di peso e portato davanti alla clessidra e incaricato di girarla ogni volta che termina la sabbia. Al cospetto di Colombo dichiara di saper scrivere e a questo punto il suo incarico, in parte, cambia e si ritrova a redigere, sotto dettatura, le memorie del Capitano. «Scrivere, non è scrivere, è vivere, e sentire, è trovare, prendere e dare […] più che di mani e occhi scrivere è un lavoro del cuore. Del cuore e del respiro. La mano che tiene la penna arriva solo alla fine, e se nel respiro hai tutto quel calore che vuole uscire, impari in un attimo.» Con queste parole un uomo anziano aveva insegnato la scrittura alla madre di Nuno, che, abbandonata la precedente professione, aveva iniziato a scrivere al porto le lettere dei marinai. Tutti la cercavano per mandare notizie a casa e lei seduta in una piazza vicina al mare, vestita di nero, man mano insegnava anche a suo figlio a sillabare e a riconoscere le parole. «Io però li dicevo smontati lettera per lettera: C-L-A-R-A, I-N-E-S, S-E-D-I-A, S-C-O-P-A, e lettera per lettera sapevo metterli sulla carta. Perché camminavo accanto alla mamma, e intanto lei mi insegnava a leggere e scrivere»

L’amore è un turbamento

Imparando a leggere e a scrivere attraverso le lettere dei marinai, spesso indirizzate alle mogli o alle fidanzate, Nuno aveva scoperto l’esistenza dell’amore e domandava alla madre e alla zia quando anche lui si sarebbe innamorato. A questa domanda non viene data una risposta fino a quando la Santa Maria giunge alla terra, a lungo cercata, e davanti agli occhi di Nuno appare Lei. Il ragazzo scopre così che l’amore è un turbamento, che dagli occhi passa al cuore e che «è sempre un’ondata improvvisa e sconvolgente, vedere una persona e innamorarsi all’istante di lei.» La ragazza sembra emergere dall’acqua e per questa visione, per tornare a questo momento, anche molti anni dopo Nuno scambierebbe tutto il resto della sua vita.

L’amore per il protagonista è un miracolo normalissimo e impara che per gli innamorati la lontananza fisica non conta e che proprio le persone che si amano sono «oro puro, senza lo sporco delle mani che lo afferrano, lo rubano, lo vendono».

Mare oceano

L’altro protagonista, costante nei romanzi di Genovesi, è il mare e qui è anche l’antagonista di Nuno. Il Mare Oceano, da attraversare per arrivare al Cipango, al Catai, spinge Nuno a scrivere una lettera per avvisare i sovrani spagnoli di non inviare altre navi a percorrere quella rotta perché l’Oceano è «inospitale, spietato, macchiato di alghe simili a viscidi serpenti neri». Il Mare Tenebroso impone di non cercare nuove terre e di restare, contenti, dove si è.

Giancarla Savino

Fabio Genovesi, Oro puro, pp. 437, Mondadori, 2023; euro 20,00.

Nei boschi e tra gli amori del Grande Meaulnes

Compie centodieci anni l’indimenticabile romanzo di Alain-Fournier

Disegno di Thévenet per Le Grand Meaulnes,Fayard, 1971

Centodieci anni fa,  nel luglio 1913, la Nouvelle Revue Française iniziava a pubblicare a puntate quello che sarebbe divenuto un romanzo di culto, Il grande Meaulnes, una storia ambientata nel cuore antico della Francia, tra boschi e campagna. Un romanzo di formazione, si è detto spesso, perché i due protagonisti si confrontano per la prima volta con l’amore, con lo slancio verso la vita e la condanna alla delusione. Ma la qualità che ha distinto il romanzo di Alain-Fournier rispetto alla vasta rassegna di opere narrative legate ai tempi inquieti dell’adolescenza, è la stessa che partecipa al sogno, alla confusione che accompagna l’infanzia quando si apre all’esperienza e ai desideri di una nuova stagione. Il paesaggio verde e incantato del Grande Meaulnes ne è parte integrante come lo è la quotidianità dei ragazzi. Ragazzi che portano gli zoccoli, che osservano i nonni lavarsi con un secchio d’acqua del pozzo, che aspettano in cortile che sia accesa la stufa della scuola. E’ la cornice che si è voluta definire rustica contro l’immaginario poetico che scaturisce da questi ambienti e di cui pochi indizi sono nondimeno formidabili: un castello nel bosco, una festa notturna, la seducente figura di Yvonne de Galais, le fughe misteriose e i racconti di Agostino Meaulnes fatti al narratore, suo coetaneo, François Seurel. Paradigmaticamente lo scrittore ha dato un nome vago e pressoché intraducibile all’oasi che i giovani cercano nei boschi: domaine. Parola che può indicare una vasta tenuta, oppure un regno, in ogni caso un particolare territorio. In una delle prime versioni italiane, il traduttore Piero Bianconi sottolineò l’ambiguità del termine mantenendo nel testo il corrispondente etimologico, “dominio”. E’ questo regno, dunque, il contraltare della vita del villaggio, il luogo dove gli amori sospesi nel cuore dei protagonisti prendono forma, si confrontano con inattese svolte del destino. Lo psicologismo, in Alain-Fournier, non è di casa. E la fortuna del romanzo è forse legata anche alle domande che pongono i personaggi con l’intreccio delle loro vite.

“Miracles”

Uno scorcio di Épineuil-le-Fleuriel dove lo scrittore è vissuto e dove è ambientato il romanzo (f.to G. Savino)

Di questo mondo romanticissimo restano non solo le pagine dell’unica opera pubblicata in vita da Alain-Fournier, ma anche alcune poesie e numerosi brani di prosa comparsi per la prima volta nel 1924 da Jacques Rivière con il titolo Miracles, libro poco conosciuto e raramente tradotto. Ecco in una versione inedita, “L’amore cerca luoghi abbandonati”

«Nelle lunghe sere piovose l’amore cerca luoghi abbandonati.   
Abbiamo seguito il sentiero d’erba che andava non so dove una domenica di settembre. Ci ha portati su un’altura dove la pioggia si raccoglieva come una bianca foresta perduta. Là, in una vigna terrosa e annerita, mi precedeva il mio amore. Con tenerezza guardavo le sue spalle trasparenti sotto la seta bagnata e la sua mano, il gesto che accompagnava la sciarpa rossa, fradicia, dicendo: “Ancora più lontano! Ancora più persi!”
Abbiamo trovato un boschetto deserto con grandi archi di ferro rovinati a terra, vestigia di un pergolato. In lontananza, nella vallata, si scorgeva un paese fumante di pioggia. Volti umani che guardate dietro le finestre, com’era lento davanti a voi lo scorrere delle ore nelle strade e monotono alle orecchie il suono dell’acqua nel canale – accanto la sera randagia  lungo i viali del nostro rifugio di frasche! Ci siamo gettati pioggia sulla faccia, ci siamo ubriacati del suo gusto denso. Siamo saliti sui rami fino a bagnarci la testa nel grande lago del cielo mosso dal vento. Il ramo più alto, dov’eravamo seduti, si è spezzato e siamo caduti entrambi in una cascata di foglie e di risate, come in primavera due uccelli impacciati nell’amore. E talvolta, amore,  avevi questo gesto selvaggio, scostare coi capelli dagli occhi, i rami del pergolato, perché il giorno continui nella nostra tenuta le cavalcate sui sentieri incerti,  gli incontri colpevoli, le attese ai cancelli, e le feste misteriose che portano la pioggia, il vento e gli spazi perduti.»

Questi passi sembrano  un estratto dell’immaginario che Alain-Fournier riserva al narratore del Grand Meaulnes: con la distanza che separa l’Eden amoroso dal villaggio, con una pioggia sensuale che isola gli amanti e li relega in  un mondo “altro” senza il tedio, senza le contingenze del quotidiano.  Ugualmente le poesie di Miracles insistono su questo registro: l’amore vi si affaccia come salvazione e momento epifanico come nei versi di “Attesa”.

Una poesia di Alain-Fournier

Attesa 
Attraverso noiose estati in classe
in silenzio
e che piangono di noia, 
Sotto l’antico sole dei miei pomeriggi 
Pesanti di silenzio 
solitari e sognanti d'amore 

d’amore sotto i glicini, in ombra, nel cortile 
di qualche casa tranquilla e persa tra i rami, 
Attraverso mie lontane infantili estati, 
per chi sognava l’amore
per chi  piangeva l’infanzia, 

Sei arrivata,
un caldo pomeriggio nei viali 
sotto un ombrellino bianco
con un’aria stupita, seria,
un po' 
sospesa come la mia infanzia, 
con un ombrellino bianco. 

Sorpresa del tutto
insperata per essere venuta ed essere bionda, 
d’esserti messa
d’improvviso
sul mio sentiero,
e subito regalare la freschezza delle tue mani 
e nei capelli tutte le estati del Mondo. 

La biografia con le parole di Jacques Rivière

Un’aula scolastica di Épineuil-le-Fleuriel ai tempi del Grande Meaulnes. Dal 1991 la scuola è un museo (F.to. G. Savino)
Il cortile e la scuola-museo di Épineuil-le-Fleuriel dove visse coi genitori, insegnanti, Alain-Fourier (f.to G. Savino)

Il critico letterario Jacques Rivière conobbe Alain-Fournier nell’adolescenza e ne sposò la sorella, Isabelle, nel 1909. Introducendo Miracles, scrive: «Sono il solo ad averlo davvero conosciuto. Abbiamo legato al liceo Lakanal, dove eravamo entrati nell’ ottobre 1903 per prepararci all’Ecole Normale Supérieure. Avevamo la stessa età, diciassette anni. L’amicizia non fu immediata né si avvicinò senza peripezie». Rivière descrive lo scrittore animato da un forte spirito di indipendenza che più tardi «attribuì a Meaulnes» e che lo portò a prendere il comando di un gruppo di ribelli contro l’istituzione scolastica e le sue gerarchie. Nondimeno Alain-Fournier si confidava (l’incontro tra i due avvenne a Parigi): «parlava del suo paese con passione. Era nato alla Chapelle-d’Angillon, un piccolo capoluogo dello Cher, a una trentina di chilometri a nord di Bourges, sui confini della Sologne e del Sacerrois, nel centro della Francia. Ma era soprattutto di Épineuil-le-Fleuriel, un ancora più piccolo villaggio, situato all’estemità opposta del dipartimento, tra Saint-Amand e Montluçon, dove i genitori furono a lungo insegnanti e dove aveva trascorso l’infanzia, che mi faceva lunghe descrizioni entusiaste da innamorato. Vedevo la sua vita di giovane contadino in questa campagna priva di pittoresco, lenta, pura e ricca e di cui la sua anima era intrisa.» Per Rivière il mondo dell’amico si concentrava in ciò che aveva scoperto dalle finestre della scuola di Épineuil. Ma nonostante tante diversità i due finiranno col comprendersi profondamente. Dal punto di vista letterario, secondo Rivière, la loro giovinezza era immersa nel clima del simbolismo: «Un clima spirituale – scrive ancora il critico- un luogo di delizioso esilio, o di rimpatrio piuttosto, un paradiso. Tutte quelle immagini che oggi spenzolano sbrindellate e flosce, ci parlavano, ci circondavano, ineffabilemte ci accompagnavano.»

Gli altri libri postumi

Il nome anagrafico dello scrittore era Henri Alban Fournier (3 ottobre 1886-22 settembre 1914). F.to wikimedia

Alain-Fournier morì nel 1914 in una delle prima battaglie nei pressi di Verdun. Il suo corpo venne identificato solo nel 1991 in una fossa comune tedesca. Dopo Il grande Meaulnes aveva continuato a scrivere. Ha lasciato incompiuta una commedia e un altro romanzo intitolato Colombe Blanchet. Proprio Jacques Rivière, che è stato il curatore dei brani sparsi di Miracles, risulta coautore della una cospicua corrispondenza con Alain-Fournier editata nel 1925. Nel tempo si sono aggiunti a questo primo carteggio quelli con la famiglia e con un’amante, Pauline Benda, un’attrice nota alle scene come Madame Simone: le loro lettere sono state pubblicate nel 1992 da Fayard: Alain-Fournier, Madame Simone, Correspondance 1912-1914.

Jack Kerouac e la fortuna del grande Meaulnes

Il ruolo dell’amico Rivière, prima redattore e poi direttore della Nouvelle Revue Française, fu cruciale per far conoscere Il grande Meaulnes. Il romanzo, come detto, uscì sulla Nrf a puntate e, nello stesso anno, in volume, sollevando immediatamente grande interesse. Non si conosce il numero di edizioni fatte dopo la comparsa dei “tascabili” all’inizio degli anni Sessanta. L’opera ha influenzato il Salinger autore di un altro romanzo-culto e di formazione, “Il giovane Holden”. Certamente ha affascinato Jack Kerouac che infila una copia del Grande Meaulnes nel bagaglio del protagonista di “Sulla strada”, Sal Paradise: unica scorta letteraria del suo viaggio. Forse inaspettatamente per un’opera del primo Novecento, i critici Robert Baudry e Francine Mora-Lebrun hanno messo in evidenza come il tema centrale riprenda la La Quête du Graal. Perceval e Gaalad in questa lettura sono gli antesignani di una ricerca di perfezione dell’anima che Agostino Meaulnes e François incarnano con altre vesti; Baudry ha parlato esplicitamente di “un romanzo iniziatico” in cui è l’ideale ad essere il vero oggetto dell’itinerario dei moderni cavalieri. Ma al di là dei parallelismi, delle simbologie, degli affondi nel corpo della storia letteraria, il cuore della seduzione esercitata della scrittura di Fournier prende in prestito l’atmosfera della leggenda per farne un capolavoro della modernità con una scrittura limpida, capace di raccogliere in ogni pagina quella visualità che immerge il lettore in un altro spazio. Per non dire dell’incipit dove nostalgia e mistero ci prendono subito per mano pronunciando quasi sommessamente una promessa:

«Arrivò a casa nostra una domenica del novembre 189… Dico sempre “casa nostra”, anche se la casa non è più nostra. Abbiamo lasciato il paese da quasi quindici anni e certo non ci torneremo mai più.»

Marco Conti

© riproduzione riservata

Viaggio verso il buio con Cormac McCarthy

Ambientato nel 1980 Il passeggero è un libro autonomo e al medesimo tempo un libro che dialoga con l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Stella Maris.  Il protagonista è Bobby Western, un uomo che vive nel Mississippi, fa il sommozzatore ed ha un legame affettivo strettissimo con la sorella, Alicia, una matematica afflitta da una forma di psicosi. Sarà quest’ultima il personaggio centrale della seconda parte della dilogia. Come ci si può attendere da McCarthy,  la narrazione scava nell’interiorità di queste due figure interpellando la loro storia, il loro destino attraverso un movimento narrativo che alterna il presente al passato, la figura del protagonista a quella della sorella, ricoverata in una clinica psichiatrica. Tuttavia il plot narrativo è strutturato intorno a un accadimento esterno dal momento in cui Bobby Western trova un aereo incagliato nei fondali della costa del Mississippi con nove cadaveri. Poco oltre si scopre che non solo manca la scatola nera del velivolo, ma anche un decimo passeggero. E che forse questo ritrovamento non è gradito a tutti poiché Bobby sarà seguito giorno per giorno da due funzionari del governo che, come nei serial più ovvi, si tengono distanti ma seguono le mosse del protagonista. Tanto basta perché Bobby si decida a far perdere ogni traccia di sé… Tanto è bastato, ugualmente, perché si parlasse di un thriller di Cormac McCarthy anche se la definizione è metaforicamente possibile quanto fuorviante rispetto al genere.

Due tempi narrativi

Il romanzo avvicenda dunque due tempi narrativi fin dalle prime pagine. L’incipit è tagliente e lirico insieme come sa esserlo la pagina di questo scrittore. Si inizia con la scena del ritrovamento del corpo di Alicia impiccato in una boscaglia nevosa e con un dialogo allucinatorio tra la sorella del protagonista e Talidomide Kid, personaggio fittizio che prende il nome dello psicofarmaco (appunto il Talidomide), responsabile in passato di danni diversi, come la nascita di bambini con malformazioni. Ma per tornare alla prima pagina,  ecco l’avvio:

Nella notte era scesa una leggera nevicata e i suoi capelli ghiacciati erano aurei e cristallini e i suoi occhi gelidi e duri come pietre. Uno degli stivali gialli le si era sfilato e spuntava dalla neve sotto lei.

Un inizio collocato nel passato (e contrassegnato nel romanzo dalla scrittura in corsivo) che ha una brusca cesura al terzo capitolo dove l’autore non indugia entrando allo stesso modo in medias res nel presente del narratore: «Sedeva avvolto in una delle coperte di salvataggio grigie contenute nella borsa di pronto soccorso e beveva tè bollente. Intorno sciabordava il mare scuro.» Uno scorcio che racconta altre morti  con il ritrovamento dell’aereo nei fondali. Da qui ha inizio quella che diventerà la lunga fuga del protagonista.

Il mondo de “Il passeggero”

Il vagabondaggio, la marginalità, sono elementi costitutivi dell’opera di Cormac McCarty  che trovano l’espressione più estrema nel romanzo La strada ma, diversamente da quanto avviene altrove, qui, e con grande maestria, il percorso del protagonista è costantemente accompagnato dalla riflessione attraverso una fitta serie di dialoghi. Incontri on the road che si succedono sulla strada della fuga chiamando in causa personaggi inconsueti come uno studioso di storia della fisica (il padre di Bobby e Alicia è stato un fisico) e un travestito, che intrecciano  speculazioni metafisiche sull’essere e il non essere, puntualmente calate e alleggerite dai registri di una conversazione serrata ma essenziale. L’autore, che il celebre critico Harold Bloom, ha messo in vetta alla narrativa contemporanea statunitense, scrivendo che Meridiano di sangue  è stato il miglior esito del romanzo americano «dai tempi di Faulkner», si concede  dunque una digressione dalla propria poetica. Il tema dell’eredità della storia umana (ciò che non è stato scritto, dice a un tratto un personaggio, non è mai avvenuto, «la storia è una collezione di carta») si intreccia allora con altri vettori di pensiero – nell’accezione latina più stringente – inerenti tanto l’essere al mondo quanto al linguaggio simbolico.

Chi tuttavia pensasse di trovarsi di fronte a un meditabondo congedo dello scrittore –  morto lo scorso giugno a 90 anni – sbaglierebbe di grosso. La pagina di McCarthy conserva una energica vitalità, come accade raramente di leggere: nelle scene  come attraverso i lunghi colloqui dove lo scrittore semina ombre e frammenti dei suoi personaggi. Con Stella Maris, in fase di pubblicazione, il lettore completerà il dittico a breve.

François Morane

Corman McCarthy, Il passeggero, trad. Maurizia Balmelli, pp. 385, Einaudi, 2023; euro 21,00

Frankenstein, la storia nata da un gioco

Lord Byron lasciò la villa dove nacque Frankenstein alle sette del mattino del 17 settembre 1816. Con la secchezza di un telegramma scrisse nel suo diario: «Sveglia alle cinque – lasciata villa Diodati alle sette – su una delle vetture del posto (char à bancs) – la servitù a cavallo –  Tempo magnifico, il lago calmo e limpido – il monte Bianco e l’Aiguille d’Argentière che spiccano nitidi – le sponde del lago stupende – raggiunta Losanna prima del tramonto».  Byron, diretto a un’escursione sulle Alpi non annota nulla sui giorni e le notti in compagnia di Percy e Mary Shelley e del suo medico personale, John Polidori. Neppure un accenno infine al suo lavoro sul terzo canto di Childe Herold, di cui sapremo attraverso l’autrice di Frankenstein.

Soltanto quattro mesi prima, il 14 maggio,  sulle sponde lago di Ginevra arrivano Percy Shelley, la sua amante Mary Goldwin (che sposerà alla fine di quell’anno)  e la sorellastra di lei, Claire Clairmont.  Undici giorni dopo  sono raggiunti da George Byron e Polidori. Le sistemazioni sono conseguenti alle finanze: Shelley affitta una casetta e il poeta di Mazzeppa la sontuosa Villa Diodati (nella fotografia sotto). Ma l’estate è una delle più turbolente del secolo. Freddo e pioggia limitano le passeggiate e le gite in barca. Il gruppetto si diverte come può leggendo storie di fantasmi «tradotte in francese dal tedesco», sinché Lord Byron lancia una sfida: ognuno di loro avrebbe dovuto inventare e scrivere una storia. Più incerta degli altri è proprio Mary che ogni giorno sembra doversi scusare per non saper imbastire nulla. Lo spiegherà lei stessa nel 1831 scrivendo l’introduzione a una nuova edizione del suo più famoso romanzo.

L’idea di Frankenstein e i vermi di Darwin

Una sera i loro discorsi accennano al galvanismo, alle idee espresse da Erasmus Darwin dopo un esperimento nel quale si dà conto di un frammento di verme conservato in un vasetto che, per qualche ragione, aveva iniziato «a muoversi di moto volontario». Nell’introduzione  del 1831, Mary Shelley scrive: «Su questo discorso passammo l’intera nottata, e anche l’ora delle streghe era passata prima che ci ritirassimo a riposare. Quando misi la testa sul cuscino non mi addormentai, né posso dire di essermi messa a riflettere. Spontaneamente la mia immaginazione prese possesso di me guidandomi, dandomi una dopo l’altra le immagini che si stagliavano nella mia mente.»

E più dettagliatamente specifica: «Vidi – a occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta – il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla “cosa” che aveva messo insieme. Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato, e poi, all’entrata in funzione di qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita e muoversi di un movimento impacciato, quasi vitale. Una cosa terrificante, perché terrificante sarebbe stato il risultato di un qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo» .

Castelli, vampiri, fantasmi

Il contesto in cui nasce il romanzo di Mary Shelley è già di per sé eloquente: un sodalizio letterario in un paesaggio romantico e un sogno o perlomeno un immaginario ossessivo. Tuttavia, in quel periodo, il romanzo gotico ha già i suoi capolavori: il capostipite, Il castello di Otranto  di Horace Walpole,  ha ormai mezzo secolo di vita quando la compagnia si riunisce sul lago di Ginevra (la prima edizione è del 1764). Nel 1796 compare Il Monaco di Mattew Gregory Lewis; l’anno dopo è la volta di  Ann Radcliffe con L’Italiano o il Confessionale dei penitenti neri. Così nel 1818, quando esce la prima e anonima edizione di Frankenstein prefata da Percy Shelley è già trascorsa la prima ondata letteraria che scrive di paesaggi tenebrosi, figure che incarnano il male e più grevi voci dell’inconscio.  La prima edizione del romanzo coincide addirittura con la pubblicazione del romanzo postumo L’abbazia di Northanger, dove  Jane Austen si diverte parodiando i terrori della Radcliff.

Un’altra storia

Forse alla scintilla da cui scaturì la storia di Mary Shelley non fu neppure estranea un’altra narrazione: Le Miroir des événemens actuels ou la Belle au plus offrant,  dove François-Felix Nogaret  raccontava i tentativi di uno studioso, un certo Frankestein, di animare un automa chiamato “L’uomo artificiale”. La storia è straordinariamente diversa ma non si può escludere che il nome di Frankestein fosse nell’aria. Del resto Mary Shelley aveva all’epoca 19 anni e le idee presenti nel suo romanzo non sono ricollegabili a Nogaret, piuttosto sono vicine a quelle del padre dell’autrice, William Godwin, protese verso un illuminismo individualista,  libertario colmo di sogni.

Mary aveva avuto una educazione da outsider: senza aver fatto studi regolari aveva a disposizione una ricca biblioteca e stimoli incomparabili per una ragazza di quel tempo. Il padre, romanziere ed editore, ospitava a casa sua il poeta Samuel Taylor Coleridge; lo stesso Percy Shelley fu un seguace delle tesi di Godwin, il quale credeva in una umanità perfettibile. Idea quest’ultima che si può leggere nella parabola di Frankenstein benché proprio la storia di Mary rovesci l’assunto circa la creazione di un uomo nuovo con il fallimento dell’impresa. Il titolo completo del libro lo annuncia: Frankenstein o il Prometeo moderno. L’ambizione della scienza sconvolge dunque l’ordine naturale  che si ribella al creatore.  Il “mostro” finirà per rimproverare allo scienziato le sue pretese e darsi la morte.

Lo stesso successo dell’opera non può essere del tutto assimilato al clima della letteratura gotica perché apre la strada alla narrazione fantascientifica e ai dubbi che questa implica. Se si assume questo punto di vista autoriale se ne trova conferma in  un altro libro di Mary Shelley, L’ultimo uomo, del 1826. Qui la matrice è del tutto fantascientifica e distopica poiché vi si racconta la fine dell’umanità nel XXI secolo a causa di un’epidemia di peste profetizzata dalla sibilla cumana, secoli prima. La storia finisce nel 2100 dopo una fuga dei protagonisti dall’Inghilterra, un viaggio tra la Svizzera e l’Italia e una tappa nella città eterna dove si salva un solo uomo. In margine va annotato che la critica  accolse male l’opera deridendo l’immaginario evocato. Viceversa L’ultimo uomo è considerato oggi un libro pionieristico della letteratura fantascientifica ed è continuamente oggetto di studio.

Tra le pagine di Frankenstein

Nel cuore della trama di Frankenstein compaiono marcati riflessi di angosce personali. Diversamente da quanto accade in molte opere pertinenti al romanticismo nero, quelle di Mary Shelley,  e di Dracula (1897) di Bram Stoker,  sono il frutto non solo delle idee del tempo ma della storia personale degli autori. Bram Stocker visse nella malattia parte dell’infanzia e nel suo letto trovò conforto con la lettura. Mary ugualmente contò su un’educazione informale, in compagnia soltanto del padre poiché  la  madre, la scrittrice Mary Wollstonecraft, morì undici giorni dopo il parto della figlia. Mary stessa perderà sua figlia concepita con Percy e nata prematuramente nel 1815; disgrazia che si ripeterà più tardi con la morte del secondo figlio. La vicenda di Frankestein come Prometeo moderno se da un canto nasce dall’ambiente famigliare anticonformista e rivoluzionario, dall’altro ha un legame sotterraneo con la ribellione al destino precario della vita umana, forse anche con un sentimento di colpa, sia per la morte dalla madre che consente la sua vita, sia per quella del suo primo figlio.

Un labirinto di storie: Il Vampiro 

Il viaggio a Ginevra e i commenti posteriori di Mary Shelley non precisano mai che dalle serate byroniane nacque un’altra opera importante per il romanticismo, vale a dire Il vampiro di John Polidori. Il medico e scrittore di origine italiana lo pubblicò nel 1819 a Londra quando ormai i rapporti con Byron si erano guastati. Forse al silenzio di Mary su questo racconto nella prefazione di Frankenstein contribuì la stessa malevolenza di Byron che prendeva in giro Polidori chiamandolo “Polly Dory”, cioè povero Polidori, nomignolo che viene indirettamente evocato  dalla Shelley nella prefazione riferendosi alla morte prematura dello scrittore nel 1821, forse per suicidio. Ma la scrittrice non cita neppure il brano che Byron ha scritto in quelle sere. Quest’ultimo comparirà in calce al racconto in versi Il giaurro  (dove si profila la figura di un vampiro) soltanto una edizione tardiva del 1818 che completa quella originaria del 1813.

Il vampiro ebbe ugualmente una storia degna del più torbido romanticismo. Ideato in un contesto sfarzosamente letterario ma tenuto in serbo per qualche tempo (Mary Shelley scrive: «Il povero Polidori ebbe qualche idea terrificante su una donna con la testa di teschio che era stata punita per aver guardato dal buco della serratura» e che finisce nella tomba dei Capuleti), Il vampiro è ispirato proprio a Lord George Byron in quanto personaggio aristocratico, narcisista e tenebroso. Nel libro il protagonista è Lord Ruthven, nome che non casualmente era stato usato da un’ex amante di Byron,  Caroline Lamb, in un suo romanzo dove  l’autrice voleva demolire il profilo del poeta. Come se non bastasse questo intreccio di rancori, per facilitare le vendite l’editore del Vampiro sostenne che l’autore poteva essere lo stesso Lord Byron. Byron negò recisamente la paternità, ma Polidori invece non mosse un dito per rivendicarlo, con questo godendosi forse l’imbarazzo degli ambienti aristocratici e dello stesso poeta.

In margine vale la pena di annotare che i diari di John Polidori vennero pubblicati solo nel 1911 (The Diary of John Polidori ) con la curatela di William Michael Rossetti, scrittore di famiglia poiché nipote dell’autore. La sorella di Polidori, Frances,  sposò infatti Gabriele Rossetti da cui nacquero con Michael e Maria anche Christina e Dante Gabriele Rossetti.

Marco Conti

Bibliografia: Mary Shelley, Frankenstein: or, The Modern Prometheus, Colburn and Bentley, London, 1831

Riccardo Reim (a cura di), I grandi romanzi gotici, Newton Compton Editori, Roma, 1993

Kamel Daoud & Raphaël Jerusalmy, BibliOdissées: 50 histories de livres sauvés, Imprimerie Nationale Éditions, Arles, 2019

Mary Shelley,  L’ultimo uomo, Giunti, Firenze, 1997 (prima edizione italiana)

John Polidori, Il vampiro, Studio Tesi, Roma, 2009

George G. Byron, Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno. Diari, Adelphi, Milano, 2018

George G. Byron, The Giaour, a fragment of a turkish tale, Jon Murray (publisher), London, 1813

Altre fonti:

Mary Shelley – Wikipedia 

 

 

 

Il business della letteratura e i media, tra Harry Potter e Murakami

 

Non si sono mai lette, né viste, tante storie. Un romanzo di successo propone una versione digitale, un film, un serial, qualche volta un fumetto o un gioco,  oppure ancora un parco, due, tre parchi tematici come è accaduto per la saga di Harry Potter. Una storia di successo può essere tradotta nel giro di pochi giorni o contemporaneamente al lancio in più lingue e può persino avvenire che le traduzioni siano oltre cinquanta. E’ quindi cruciale la domanda che si pone Giuliana Benvenuti nel saggio introduttivo al libro da lei curato, La letteratura oggi. Romanzo, editoria, transmedialità, edito da Einaudi nella collana Pbe: quale funzione riveste oggi la letteratura? E inoltre: c’è una relazione di continuità con la tradizione? Un interrogativo che ci mette subito di fronte a una seconda questione: la letteratura è ancora conoscenza critica e condivisione dell’esperienza umana e storica, oppure è divenuta intrattenimento? Il saggio risponde che la linea di demarcazione tra i due volti prefigurati è meno netto di quanto si possa pensare. Ma al di là dell’elaborazione critica il libro è anche una antologia di “casi”, una esplorazione nel cuore delle lettere e del mercato editoriale e digitale del nuovo millennio che presenta una sequenza di undici saggi dedicati ad altrettanti autori e al loro successo: José Saramago, Umberto Eco, Salman Rushdie, Murakami Haruki, Stephen King, J.K. Rowling, Michel Houellebecq, Margaret Atwood, Orhan Pamuk, Elena Ferrante.

Qui comincia l’avventura

Tra il 1960 e il 1980 il mercato statunitense (qui preso come unità di misura delle trasformazioni dell’editoria avvenute in occidente) si registrarono 573 fusioni e acquisizioni che alla fine comportarono il dominio di 15 grandi aziende con il 72,4 per cento delle proprietà del settore. Editori come Schiffrin e Epstein contestarono più tardi che fino agli anni Cinquanta l’editoria faceva ricerca di qualità dando corpo a una missione culturale, mentre alla fine del ‘900 ogni sforzo è stato concentrato sul profitto. Ad ogni passo i grandi editori di oggi invocano le leggi del “mercato”, cercando persino di dare un’immagine democratica alle politiche speculative con la scusa che il pubblico deve scegliere quel che vuole. Ma se queste sono le motivazioni sempre in corso (in fondo anche il feuilleton era un media popolare a basso costo per tutti), il discrimine intervenuto alla fine del Novecento è ovvio: la nascita di piattaforme digitali dedicate, la brandizzazione degli autori di culto, cioè il corrispettivo dello star system del cinema, gli investimenti fatti sull’ebook.

Giuliana Benvenuti scrive: «Se prima del 1980 la lista del titoli più venduti vedeva ancora la letteratura “alta” accanto alla fiction popolare, attorno a quell’anno cominciò a essere dominata da un piccolo gruppo di autori il cui nome assomigliava sempre più a un brand: Tom Clancy, Michael Crichton, John Grisham, Stephen King, Danielle Steel e altri.» La comparsa di internet nel decennio successivo trasformò e moltiplicò il carattere remunerativo degli investimenti. Il caso emblematico è quello di Scribner che in una joint venture con la casa editrice di Stephen King (Philtrum Press) pubblicò nel marzo del 2000 il racconto Passaggio per il nulla in formato ebook, disponibile per 2, 50 dollari, una piccolissima somma che del resto per gli editori comportava solo oneri contrattuali. «Nelle prime ventiquattro ore dalla messa in rete fu scaricato 400.000 volte, toccando le 600.000 copie elettroniche nelle prime due settimane.» Nel giugno dello stesso anno il pubblisher, ovvero l’agente di King, annunciava che lo scrittore stava scrivendo un altro testo destinato all’ebook, ma a puntate, e senza alcuna mediazione editoriale chiedendo ai lettori un’offerta qualsiasi. La prima puntata fu scaricata 152.132 volte nel corso di una settimana.

Il corollario della pubblicazione digitale è che l’offerta è condizionata oltre che dai nomi brandizzati, dai gusti e dalla preparazione letteraria dei “clienti”. La stessa offerta on line è dominata di pari passo da libri stampati e digitalizzati da scrittori improvvisati. Nel gennaio 2015 il 40% dei ricavi di Amazon (che su questa strategia è stata la prima azienda a investire in maniera cospicua) «provengono dalla vendita di ebook di self-published authors». In certo modo lo stesso accade con le piattaforme digitali e per quello che costituiva il setaccio critico, il giudizio di valore. Mentre scomparivano le costose pubblicazioni cartacee si sono fatte strada  quelle su internet, dove è cospicua la percentuale “amatoriale”, cioè di appassionati di letteratura (non è il nostro caso; chi scrive qui lo ha fatto e fa di professione)  o di redattori di pubblicità promozionale collocati in vari contesti. Ma almeno su una circostanza, il bilancio è positivo: diversamente da quanto si temeva il digitale non divora affatto la letteratura cartacea.

I nuovi media e le star

Al di là degli esiti popolari, la globalizzazione  modula anche le scelte tematiche: un successo comporta il tentativo da parte di altri autori e produttori di replicarlo in tempi stretti con un effetto di serializzazione dei contenuti. Il caso più eclatante di diffusione dei prodotti culturali, è quello della nascita di Bollywood, nome affibbiato ironicamente al cinema popolare indiano, mentre in ambito letterario valga per tutti la serializzazione dei generi e la contaminazione tra visualità e scrittura. Il contrappasso di questo scenario avrebbe dato luogo, secondo una tesi, al fenomeno letterario dell’autofiction. Benvenuti cita  The conglomerate Era di Sinykin dove si ipotizza che i conglomerati di media abbiano creato un perenne stato di ansia autoriale. Gli scrittori, decisi a richiamare la centralità della loro funzione di fronte ai vari compromessi e alle negoziazioni, avrebbero cioè dato luogo a un nuovo approccio tematico, facendo dell’autore e dei rapporti con gli editori, gli agenti, i promotori, un nuovo genere letterario di non fiction: saggi in prima persona e memoir. Altrettanto problematico è l’effetto della trasmedialità sul canone letterario su cui, peraltro, il saggio non insiste ricordando che «Non è facile abbandonare il paradigma modernista che stabilisce un’equazione tra valore e originalità, intesa anche come continua ricerca della novità, con il corollario di una vera e propria lotta con la tradizione letteraria illustre, sempre richiamata ma sempre avvertita come minaccia».

La mappa e i numeri dei successi: in principio fu Umberto Eco

La selezione degli scrittori di successo la cui opera ha avuto un ventaglio di esiti mediali ha tenuto conto soprattutto degli autori di rilevanza letteraria e critica cominciando con un caso-limite, quello di José Saramago, scrittore per il quale il Nobel e il successo internazionale erano tutt’altro che iscritti nel tempo. Una sorta di premessa temporale che immette in una esperienza ugualmente lontana ma condivisa, vale a dire le autofinzioni di John Maxwell Coetzee (di Chiara Lombardi) e in maniera più importante – rispetto al tema del dialogo tra media –  nell’avventura di Umberto Eco ( nella f.to sopra) con Il nome della rosa raccontanta dal saggio di Beniamo Della Gala. Il romanzo di Eco è edito nel 1980; nel 1981 e ’82 ottiene i premi Strega e  Médicis, il New York Times lo include nell’ ’83 nella sua prestigiosa lista di “Scelte editoriali”. In  Italia permane per 170 settimane nelle classifiche dei romanzi più venduti, negli Usa per 23. Il nome della rosa  viene tradotto in 50 lingue e nel corso degli anni sono state vendute 55 milioni di copie. Il libro avrà due nuove edizioni nel 2012 e nel 2020: la prima con disegni dell’autore, la seconda con gli appunti che accompagnarono la scrittura. A parte il film di successo di Jean-Jacques Annaud nel 1986, nel 2003 il plot di Eco diede luogo a un nuovo bestseller popolare, Il codice da Vinci di Dan Brown nel 2003, mentre il successivo libro di Eco, Il pendolo di Foucault, nonostante traduzioni e vendite non ottenne neppure lontanamente un successo analogo.  Ma si crearono videogiochi ispirati ai personaggi (Murder in the abbey, 2008), serial, un adattamento radiofonico, un audiolibro. Milo Manara su Linus creò un fumetto a puntate ispirato alla storia, parodie vennero pubblicate da Topolino; Zagor, un altro fumetto, ospitò nel 1992 L’abbazia del mistero. Di nessun successo fu invece il serial in inglese di Turturro ed Everett.

Stephen King, un brand da 600 milioni di dollari

Umberto Eco nel momento in cui scrisse il suo primo romanzo era un semiologo e un saggista affermato. La sua diversione nella fiction sorprese. Viceversa Stephen King (di cui ci parla Massimo De Angelis) nasce come uno scrittore isolato il cui primo libro, Carrie, nel 1974 non ottiene grande attenzione finché due anni dopo non ne fa un film Brian De Palma. Tra il ’77 e il 1984 King pubblica cinque romanzi di cui quattro scritti in precedenza con lo pseudonimo di Richard Bachman che otterranno attenzione solo dopo la scoperta dell’autentica firma autoriale. Come Eco e diversamente da Eco, King è comunque il prototipo dell’autore-brand. Tra libri e versioni transmediali è titolare di un’attività il cui valore, nel 2022, è stimato in 600 milioni di dollari. I suoi soli romanzi hanno venduto 350 milioni di copie.

J.K. Rowling: come vendere 500 milioni di copie 

La copertina della prima edizione di Harry Potter; il volume che conteneva alcuni errori tipografici è stato battuto all’asta per 250 mila dollari. Sotto il titolo uno dei giochi ispirati alla saga 

La saga di Harry Potter, sette romanzi editi tra il 1997 e il 2007, sono attualmente il fenomeno letterario più cospicuo, redditizio e globale di tutti i tempi. E come scrive il saggio di Marina Guglielmi, Rowling «è lo scrittore più ricco del mondo». I suoi romanzi sono tradotti in più di 80 lingue e ad oggi le copie vendute si aggirano su 500 milioni, più di quanto non accade per tutta la corposa produzione di King. Dopo i romanzi della saga sono usciti tre libri che costituiscono la Hogarts Library, cioè i manuali scolastici usati dalla scuola di magia di cui ci racconta la storia di Harry Potter a cui si aggiunge una raccolta di racconti e una saga dedicata agli animali fantastici. Guglielmi prende nota ugualmente del vasto mondo trasmediale interessato al fenomeno: adattamenti cinematografici, un sequel in forma teatrale, tre prequel, giochi da tavolo, videogames, musical, due siti web, tre parchi a tema, uno Studio Tour della Warner Bross a Londra, negozi di marchandise. I fan hanno pubblicato diversi libri ispirati al mondo di Harry Potter così come sono state prodotte opere d’arte, brani musicali, canali dedicati e associazioni (compreso il sodalizio sportivo di  Quidditch). Ogni anno si hanno eventi, e conferenze ospitate da college e università. Gugliemi traccia inoltre il profilo delle narrazioni parallele che tra web e carta stampata hanno seguito parallelamente l’autrice: la madre sola e indigente, la passione letteraria della Rowling, il viaggio in treno da Manchester a King’s Cross nel 1990 dove la saga di Potter le appare «come un’epifania» e i rifiuti degli editori con il seguito di una prima tiratura del primo romanzo di 500 copie. Infine l’acquisto dei diritti da parte della casa editrice americana Scholastic a un prezzo importante, precedentemente mai pagato per un libro che doveva essere destinato ai bambini.

Houellebeck, lo sfregio alla correttezza liberal dell’Occidente

La transmedialità richiamata dal libro di Giuliana Benvenuti si rispecchia evidentemente in maniera diversa, più o meno evidente, rispetto non solo ai tempi storici più o meno digitalizzati ma anche in relazione ai caratteri delle opere e alla ricezione. Sia  Coetzee, sia Michel Houellebecq partecipano alla ricerca sotto profili sensibilmente diversi, così come accade per Margaret Atwood, Haruki, Pamuk e Ferrante. Il caso di Houellebecq, autore esordito con un saggio su Lovercraft e una raccolta di poesie, e divenuto celebre con romanzi destinati in principio a pochi intellettuali, non può evidentemente dar luogo a un impatto paragonabile a quello della Rowling. Un dato economico per tutti: i libri dello scrittore de Le particelle elementari  e Sottomissione si aggirano sui 5 milioni di copie. Il saggio di Filippo Pennacchio richiama il successo su diversi mercati internazionali, i premi Impac e Goncourt, le versioni cinematografiche ma è chiaro che la prosa di  Houellebcq nasce con un crisma autoriale alla vecchia maniera (come per Saramago): lo scrittore provoca i contemporanei, non accetta i diktat del costume intellettuale sul “politicamente corretto”, interseca con i suoi romanzi tematiche diverse: la perdita di valori nel mondo liberista, la cancellazione di identità e tradizioni mentre i suoi protagonisti (percepiti come alter ego dell’autore) avanzano richieste libertarie. E non basta. La narrativa di Houellebecq ha un versante distopico dove si delinea un futuro di clonazione dell’essere umano, di sessualità avulsa dall’identità, di disvalori. Ma è aleatorio chiedersi se al suo successo contribuisca la “scrittura bianca” barthesiana in un paesaggio letterario in cui la lingua narrativa è comunque orientata verso la lingua denotativa d’uso o a una “classicità” senza fisionomie ritagliate (per confronto si potrebbe citare tanto Gadda quanto Nabokov, tanto Tondelli quanto il Saramago qui convocato).  Certo non sono estranei al successo dell’autore francese, come racconta con dovizia Pennacchio, le circostanze storiche. Non solo la sicumera del politicamente corretto e del “futuro che avanza” con i suoi corollari legati agli interessi di capitale ma alcuni episodi in particolare: nel 2001 esce Piattaforma dove si racconta di un poderoso attentato islamico in un villaggio turistico e pochi giorni dopo avviene l’attentato alle Torri Gemelle; il 7 gennaio 2015 compare Sottomissione e nello stesso giorno un altro attentato islamico colpisce la sede del settimanale Charlie Hebdo, reo di aver offeso Maometto con le sue vignette satiriche. In breve «il romanzo e il suo autore si ritrovano al centro di infinite polemiche sulla libertà di espressione, sull’idendità nazionale, sui conflitti religiosi e culturali che attraversano il presente.» Se Houellebecq è considerato tra gli autori più lucidi di oggi, nondimeno al successo hanno contribuito le sue provocazioni, come l’articolo “Trump è un buon presidente” o la sua stessa immagine pubblica: scarmigliato, con una sigaretta perennemente fumante tra le mani, vestiti casual stazzonati.

Una postilla 

L’intelligente scelta della curatrice di convocare  esperienze letterarie tanto diverse ma convergenti sulle valenze economiche, sociali e strumentali, richiama un ulteriore aspetto esterno agli interessi degli autori ma non eludibile: dalle allegorie di Saramago, alle distopie di Houellebecq passando dai mondi medioevali, gotici e fantastici di Eco, di Stephen King e dalla Rowling, dall’alterità evocata in molte opere di Murakami Haruki, all’ambientalismo di Atwood, si disegna una letteratura che delega all’immaginario due movenze opposte: lo scantonamento dal presente o la polemica con il presente. Una dualità convergente e sulla quale la transmedialità capitalizza  attraverso quello che Barthes avrebbe sicuramente definito “il piacere del testo”. Finora questa dialettica non ha avuto sintesi. Per dirlo con Murakami abbiamo il nostro mondo e il mondo “altro”.

Marco Conti 

Giuliana Benvenuti (a cura di), La letteratura oggi. Romanzo, editoria, transmedialità, pp. 332, Einaudi Pbe, 2023; euro 24,00

 

 

Le parole di Umberto Bellintani

 

Le mie parole sono capra

ed erano capra e pecora

le mie parole sono zappa

e asino vanga e pietra

Nella poesia italiana non c’è autore che più di Umberto Bellintani abbia fatto suo il tema del sodalizio con il mondo animale. Viene in mente, per confronto, l’immaginario di Giovanni Pascoli, fitto di rimandi familiari agresti e corrispondenze, ma un dichiarato sodalizio sotto il quale si sveli la semplice nozione di appartenenza, si trova solamente in Bellintani. Anche per questo la riproposta, oggi, nella collana Lo Specchio di Nella grande pianura, a venticinque anni di distanza dalla precedente stampa, avrebbe forse potuto essere accompagnata da uno studio critico che raccontasse il profilo di un autore così isolato, nato con l’attenzione di Vittorio Sereni. Nel 1963 fu infatti  Sereni, che dirigeva la stessa collana,  a pubblicare  E tu che m’ascolti.

I libri

La storia letteraria di Bellintani corrisponde  simbolicamente ad un monolite o, se si preferisce, a uno di quegli alberi secolari e solitari che splendono nella pianura mantovana  come nei versi dell’autore. Fin dall’inizio il poeta si presenta con una voce inconfondibile,  «appartata» come ripetono le note editoriali dell’ ultima edizione,  accresciuta ora di alcuni testi.

Umberto Bellintani (f.to Wikimedia) 

Bellintani (nato a San Benedetto del Po nel 1914 dove è morto nel 1999) pubblica  Forse un viso tra mille nel 1953 a cui segue due anni dopo Paria, una plaquette curata da Vittorio Sereni e prefata da Giansiro Ferrata. Un esordio dunque colmo di attenzione, tanto più che  l’autore vince alcuni premi prestigiosi, rafforzati nel 1963 dalla raccolta già citata, quella appunto mondadoriana.  Ma Bellintani non è uomo di mondo. Lavora come applicato nella segreteria della scuola media del posto, scrive, disegna (da ragazzo studiò in un istituto d’arte), non pubblica. E ritira persino dal commercio le copie del catalogo di una mostra fatta in una galleria fiorentina. Trascorreranno 35 anni prima del congedo letterario con Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, vale a dire un anno prima della morte.

L’itinerario, i temi

Fermiamoci un momento, amici.

Quest’albero era

quando ancora non erano

i nostri padri i nostri avi.

Ed ecco io sento che qualcosa gli devo,

ma non so cosa, amici, ma la mano

mia ecco lo accosta e lo carezza,

e tutta trema la mia mano, amici.

Così in una di una delle prime poesie degli anni Cinquanta. Un registro confidenziale che propone una  sorta di epifania con versi lineari, spesso ricorrenti all’anastrofe, e dove è raro il ricorso ai parallelismi (così frequentati viceversa dai suoi contemporanei) se non di ovvia trasparenza, in  qualche caso con metafore che richiamano quelle del racconto orale o «la ruvida popolare fiaba» di cui ha parlato Maurizio Cucchi in un breve profilo dell’autore:

Sono un topo di campagna, sono il grillo

che nel cuore ricanta ogni sera

se l’ascolto dal paterno focolare

Con Bellintani non compare neppure per antitesi il rutilante mondo del boom economico; non compare la fabbrica, non c’è posto per l’alienazione ma al contrario ha ruolo l’identificazione col paesaggio, con le abitudini.  Di pari passo è motivo ricorrente la ciclicità del tempo, l’orizzonte della precarietà e il rimedio della memoria, esplicito nei versi citati come,  più direttamente, altrove: la poesia “L’avo mio antico” propone così l’immagine dell’antenato: «Vorrei trovarlo con un’anfora bella/ e le falangi delle mani d’intorno/ come petali di un sottile bianco fiore».

Il lessico e la giustapposizione dell’iperbato tra oggetto e qualificativo (anfora bella, bianco fiore) richiamano la lingua del primo Novecento: si parla di corrucci, di murmure, di paterno focolare,  si elide perché con ché, ma questo ricalco del linguaggio lirico non scalfisce l’autenticità della voce. Di pari passo il contingente, la corte con gli animali della campagna, non subiscono alcuna trasfigurazione; la pronuncia di Bellitani le reclama come modello dell’essere. Così sarà per una delle sue liriche più caratteristiche, cioè “Caro vecchio manubrio” in E tu che m’ascolti:

Caro pezzo di latta

un giorno non ti vedrò mai più

caro pezzo di latta,

O tu che sei la vita

tutta la vita

un giorno non ti vedrò mai più

caro pezzo di latta

 

Caro vecchio manubrio

un giorno non ti vedrò mai più

caro vecchio manubrio.

O tu che sei la strada

tutta la strada

un giorno non ti vedrò mai più

caro vecchio manubrio.

Gli altri oggetti convocati sono una ciabatta, un segno nel muro e un catino. L’invenzione retorica risulta fondata sul contrasto tra l’anonimato dozzinale degli oggetti personali da un canto e l’afflato vocativo, l’iterazione, dall’altro. Due qualità queste ultime che,  da un punto di vista formale, sarebbero gli strumenti consueti della satira  (anche popolare e carnevalesca), in Bellintani  suggeriscono l’enormità dello scarto tra la contingenza del vissuto e il tempo, tra la povertà delle cose e la nostra adesione affettiva.

L’autore sembra allora sorridere con il lettore benché si tratti di un sorriso amaro sorretto da una visione che allaccia a tratti un sentimento religioso con accenti di misticismo cosmico. Così in “Dolce chiude l’ora di sera”, (ancora nella raccolta del ‘63), Bellintani pronuncia con chiarezza: «Forse non esiste Dio, forse/ solo il rapporto/ fra noi esiste e gli alberi/ annosi o appena d’anni/ uno e le erbe/ e i coccodrilli e il buon tepore/ della sera. Non v’è/ che poi la morte ed altro ancora/ innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto/ per lei si placa».  Vale la pena di osservare che il tema poderoso viene subito ridotto alla dimensione del quotidiano e che, a sua volta, questo è straniato da quei “coccodrilli” coniugati al “buon tepore”.

Animali

L’orizzonte di Bellitani, si diceva, è quello del suo paesaggio, “La grande pianura”.  Il mondo animale che compare nell’opera è quello contiguo al villaggio ( la capra come il gatto, gli uccelli, ma anche gli insetti, le formiche e le rane, il riccio). Ma non si tratta mai di sensualismo. Il mondo animale è in realtà testimone di una condivisione, dell’esserci nel mistero, nell’ignoto: «Il gatto che ritto si dorme/ al sommo del palo in questa quieta/ dell’aria al pomeriggio di fuoco, / e la rana che grida terrore/ dove il fosso s’incurva// sono voci dell’arcano, e la cetonia/ stremata sul sentiero e l’acqua/ infesta di torpore e morte; voci dell’arcano»  poiché  « Altro non sai che tu vivi/ di questo senso profondo della vita/ che ti snerva e che puoi/ affascinato dare il fianco alla morte », (“Voci dell’arcano”).

La compassione  verso l’innocenza tocca tanto il mondo animale quanto quello umano. In “Grido” (E tu che m’ascolti) , Bellintani  scrive una delle rare poesie dense di traslati: «Come ai miti occhi del vilucchio/ aperti nella siepe torna/ il temporale luponero e balza negli orti di furia,/ vedo ancora e mi rattrista una gatta riversa nella buca. Con gli occhi di cobalto verso il cielo/era mia (…)».  Lo stesso microcosmo che regala per contro una serenità  in apparenza naïf  attingibile dall’esperienza. In “I ragnolini d’agosto”, scrive:

Sarebbe pur bello

in una grande pianura

con un lago e un ruscello

e qualche albero e la giacca da distendere

nei pomeriggi di estate

sopra a quell’ombra e dormire,

con un ragnolino

verde sul cuore

con mille ragnolini rossi

e verdi d’intorno

e anche un usignolo

sull’albero lassù

gigante col tronco

e formiche che vanno

e vengono e formiche

matte d’allegria.

Bellintani convoca oggetti e animali, prepara come un affresco la suggestione dell’armonia. Il suo linguaggio è diretto rispetto al timore pasoliniano delle trasformazioni (“Spariranno anche le rondini”),  anche quando si avverte la voce  farsi più densa:«se un frullo appena si ode dei palmipedi,/avverti un grido irrompente di stupore/ e del tuo cuore se un nonnulla desta un legno, /il muover d’ali di quell’anatra smarrita, / un piccol sasso, un’inezia ti consola» scandisce “Aprile”. L’ultimo tempo, vale a dire la raccolta “Un abbaino in piazza Teofilo Folengo” affianca temi eterogenei pur restando radicata nell’alveo della natura. Si schierano emblematicamente alcune scene notturne dove non viene mai meno però l’immediatezza dello slancio: «La notte è la notte/ e i cani che abbaiano non mordono la notte/ ma la notte dicono/ e il suo silenzio si fa ancora più intenso/ quando tacciono i cani.»

Marco Conti

Umberto Bellintani, Nella grande pianura, pp. 296, Mondadori, 2023; euro 20,00

 

 

 

 

 

 

 

 

Guerra, ovvero il Céline ritrovato

 

Il manoscritto recuperato con altre migliaia di carte era stato trafugato dall’abitazione di Céline nel primo dopoguerra 

Il 17 giugno 1944 Louis-Ferdinand Céline decide in fretta e furia di lasciare Parigi, ormai prossima alla liberazione, per scappare in Germania con la moglie Lucette e il suo gatto. E’ già autore di due  tra i più notevoli romanzi europei della prima metà del secolo: Viaggio al termine della notte, nel 1932, e Morte a credito, nel 1936. Il punto è che, nella sua rabbia contro il mondo e gli uomini, ha scelto di schierarsi sia contro la guerra, sia con la Germania e non solo: è autore di tre pamphlet che incolpano ebrei, capitalisti e comunisti del degrado della Francia. Abbandonando la sua casa , Céline (il nome d’arte è stato mutuato da quello della nonna:  lo scrittore all’anagrafe è Louis-Ferdinand Destouches) lascia dietro sé un’enorme quantità di manoscritti che rivendicherà fino all’ultimo giorno senza poter mai entrarne in possesso. Dopo essere scappato ed essere stato catturato in Danimarca, dove sconterà la prigione per collaborazionismo, sarà di ritorno in Francia nel ’51, ma  non scoprirà mai come reperire gli scritti rubati, a quanto pare quindicimila fogli. Né lo potrà fare l’erede degli inediti, la moglie, che morirà solo nel 2019, a 107 anni.
Il mistero si risolve però nello stesso anno. Un giornalista di “Liberation”, Jean-Pierre Thibaudat, rivela di essere stato per oltre vent’anni il possessore degli inediti avendo ricevuto i manoscritti da un combattente della resistenza francese, Yves Morandat che, nell’affidarglieli, aveva preteso il segreto fino alla morte della vedova Celine. Non voleva forse che i testi fossero usati politicamente dai movimenti di destra e del resto si trattava di materiali trafugati indebitamente.

E’ così che Guerra – cronologicamente una premessa autobiografica del Viaggio al termine della notte –  diventa un eclatante caso letterario, oggi proposto nella versione italiana di Ottavio Fatica edita da Adelphi, a tre anni di distanza da quella originale. Fin d’ora si sa che a Guerra seguirà un altro romanzo inedito, Londres (giù stampato in Francia l’anno scorso da Gallimard) e una più ampia versione di Casse-pipe.  Una storia, quella degli inediti ritrovati, che parrebbe fatta per essere scritta da Céline…Benché il finale della vicenda,  tutto sommato edificante, non avrebbe forse convinto l’ autore che, sul genere umano, nutriva la più sconfortante sfiducia spinta fino alla soglia della paranoia o del nichilismo.

Il romanzo

«Sarò rimasto lì ancora una parte della notte dopo. A sinistra tutto l’orecchio era appiccicato a terra con il sangue, la bocca pure. Fra l’uno e l’altra un rumore immenso. In quel rumore ho dormito e poi è piovuto, pioggia di quella fitta fitta.»

Un incipit che restituisce immediatamente la voce  di Céline: il monologo in prima persona come in tutti i romanzi di Céline, il colloquio intimo in argot. Lo scrittore torna idealmente indietro nella propria autobiografia rispetto alla vicenda di Viaggio al termine della notte dove il protagonista è un medico che, dopo aver preso parte alla prima guerra mondiale, si imbarca su una nave diretto nelle colonie. Con Guerra Céline ferma l’attenzione sul momento in cui rimase ferito durante un’azione militare e sopravvisse, unico della sua pattuglia, restando per ore sul terreno prima di tentare di tornare, ferito, nelle retrovie. La narrazione si sposta quindi nell’ospedale in cui viene ricoverato  dove prende corpo ancora una volta la visione di un’umanità sofferente e grottesca, tra derelitti, canaglie, bugie, perbenismo di maniera. Anche nelle corsie ospedaliere di sofferenti e moribondi c’è in sostanza lo spettacolo infimo che lo scrittore ha sempre paventato con furfanti che cercano di trarne qualche guadagno, con la pietà e l’eros incarnati dell’infermiera L’Espinasse. Figura estrema anche questa che offre il piacere della masturbazione anche ai moribondi. Il timbro è quello consueto, inconfondibile, di una voce sardonica, a tratti grottesca nell’impasto di tragedia e humor nero. Emozioni e piccolezze sono raccontate con un linguaggio basso ma capace di ritagliare scorci lirici: «Guardavamo i giardini, gli alberi sopra i muretti di mattoni. In cielo c’erano grasse cannonate e poi anche grasse nuvole tutte rosa e tutte pallide», scrive quando, con un commilitone, riesce a uscire dall’ospedale dove è ancora degente senza farlo sapere agli altri ricoverati.

La medaglia al caporale Céline

Il caporale Céline, nella realtà come in questa prosa, sarà insignito di una medaglia. E dire che, interrogato da un ufficiale durante il ricovero ospedaliero, temeva di finire davanti al plotone di esecuzione. Ma così come ogni accusa sarebbe stata demenziale, per il caporale è demenziale anche il premio ricevuto e il suo corollario, con commilitoni e genitori emozionati per l’onore che dà lustro alla famiglia:

«Mio padre era come paralizzato. Di punto in bianco ero diventato qualcuno. Ne parlavano già tutti al passage des Bérésinas della mia medaglia, dicevano. Mia madre aveva la lacrimuccia, la voce commossa. A me però mi dava pure il voltastomaco.»

Céline avrebbe voluto invece che finisse il frastuono, il rumore di fondo incessante che avvertiva nella sua testa, uno sferragliare dovuto all’esplosione di un ordigno che lo aveva scagliato contro un albero e colpito alla testa. Ma se il corpo, la precarietà che vi è inscritta, sono una costante in queste pagine, lo stesso vale per l’eros e per il fragilissimo velo di ragioni morali. La narrazione, in principio del tutto filtrata dalle preoccupazioni del protagonista, sposta poco a poco il baricentro verso la vita dell’ospedale, l’amicizia con il vicino di letto, Cascade (in principio nel manoscritto chiamato Bébert, come il gatto dello scrittore!), i traffici e il lenocinio della moglie di quest’ultimo con  i soldati inglesi acquartierati nella cittadina, riuscendo fino alla fine a mantenere viva la sospensione tra i personaggi e le loro sorti.

Nella premessa François Gibault osserva che il manoscritto era una prima stesura; il testo avrà la sua naturale continuazione con il romanzo già citato, Londra, concomitante peraltro con la tappa successiva della vita reale di Celine.

François Morane

Louis-Ferdinand Céline, Guerra (a cura di Pascal Fouché),  pp. 156, Adelphi, 2023; euro  18,00

 

Raboni, la poesia parla da lontano

Salerno Editrice pubblica un’ampia edizione critica di “Cadenza d’inganno”, libro-chiave che riunì 17 anni di vita del poeta lombardo

Parler de loin, ou bien se taire…L’invito di La Fontaine  messo in epigrafe da Giovanni Raboni alla prima raccolta di poesie, “Le case della Vetra”, non è mai stato così dissonante  rispetto alla moneta corrente del XXI secolo. Ma quella nozione formale di poesia è stata la cifra più vistosa dell’opera di Raboni e la si apprezza ancora meglio oggi, con la vasta edizione critica del suo secondo libro, in origine pubblicato nel 1975: Cadenza d’inganno, curato da Concetta di Franza per Salerno Editrice con la prefazione di Giancarlo Alfano.  Understatement che si apprezza tanto più nelle pagine di un libro composito che innesta continuamente privato e pubblico, motivazioni intime e le denunce degli anni brucianti della contestazione sessantottina: la morte dell’anarchico Pinelli, il sospetto che si allunga sulla stessa figura intellettuale e borghese di Raboni, sia da parte dell’apparato di potere, sia rispetto all’ideologia giovanile dominante nella piazza.

“Parlare di sé da lontano, oppure tacere” dunque.  Raboni aprì Cadenza d’inganno con una sezione dedicata alla memoria della madre in cui il tema della morte (che contrassegna un parte significativa di tutta l’opera dell’autore) è visitato attraverso scorci che parrebbero neutri e stranianti e dunque destinati a rendere ancora più forte il sottaciuto attraverso scene indirette. Un esempio flagrante è il testo “Amen” dove la memoria è rievocata con le immagini prosaiche degli spazi di un appartamento: «Quando sei morta stavamo/ in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio/ da vendere per pianerottoli e scale./Dunque non t’è toccato di passare/ di spalla in spalla per angoli e fessure,/ d’essere calcolata a spanne, raddrizzata/ nel senso degli stipiti/. Sparire/ era più lento e facile quando sei sparita.(…)». Il registro, l’uso di locuzioni colloquiali, concordano con la scena dimessa, così come la conclusione del testo, formalmente distante ma feroce sul dolore della morte, quando rivolgendosi alla stessa morte pronuncia: «Scendi a pianterreno/ come ti pare (…) liberaci dall’estetica e così sia».

Pubblico e privato

Concetta di Franza mette in evidenza la struttura trasversale del libro che riunisce 17 anni di vita e percorre momenti diversi. Tuttavia in diverse occasioni gli ambiti, osserva la curatrice, gli tematici convergono.  Così accade nella seconda sezione del libro,  “Economia della paura”, articolata su tre prose dove  il concetto di “economia” allude alla sorveglianza politica e contemporaneamente ai sospetti, alla complicità di due amanti durante una conversazione. Mentre il tema politico sarà vivo in un’altra intensa pagina prosastica, “Partendo da Boulevard Berthier” (che richiama un momento dei moti piazza parigini del ’68 in cui morì uno studente) ,   anche la storia amorosa sarà nuovamente voce lirica con i versi di “L’intoppo” : testo che stesso Raboni commentò in una intervista fatta dalla curatrice nel 2004 e poi pubblicata sulla rivista “Italianistica”. Il poeta definì questa parte del libro il «diario di una storia ancora in corso», vale a dire la vicenda di un amore clandestino «un po’ tumultuoso».  Ecco allora il verso più spiccato ma ugualmente pronunciato con informale disinvoltura in “Cosa”:

Mi chiedi «cosa ti piace di me, cosa

più del resto». Una volta per ridere

ho detto il cappellino. Però pensando

la schiena, le ginocchia; e al labbro di sopra che quasi

non tocca quello di sotto: e come

s’impenna liquido, scatta il tuo profilo.

Ma ancora di più la faccia che non sai d’avere

dopo aver fatto l’amore, netta per saliva e sudore,

a una calma che c’era rifiorita.

Lo stesso timbro lo si ascolta con alcuni incipit che simulano un discorso intrapreso e l’inciso dell’espressione parentetica proprio come accade nei colloqui più informali: «Dei rimproveri che mi fa (certi/ non li discuto/ ce n’è uno quando arriva che fa/ male come il freddo sulle dita)» in “Le volte”.

Non solo nell’architettura del libro ma in un medesimo testo accade che Raboni unisca storia e quotidianità attraverso la stratificazione del vissuto, come in “Notizie false e tendenziose” dove l’unica certezza è quella evocata dall’esergo di Mandel’stam, ovvero che «il potere è ripugnante come le mani di un barbiere». Da qui si direbbe provenga  la dialettica tra denuncia e puntuale complementare  percorso tra le mura domestiche, gli amori e le occasioni affettive:

Il perito settore dice che le ferite

non sono incompatibili con la meccanica di

una caduta dall’alto. Il giornale conclude

che dunque il morto si è suicidato.

La lingua referenziale del verso conta qui solo sulla sintesi ellittica (il soggetto politico è quello di Pinelli precipitato nel cortile della questura) portando all’estremo una poetica che solo negli ultimi anni avrà un deciso contraltare con “Quare tristis”, dove rivive il metro del sonetto. Una parentesi.  Poi, più estesamente  di quanto non faccia Cadenza d’inganno,  “Barlumi di storia” nel 2002 tornerà a prendere in consegna il tempo collettivo: e questa volta la voce  lirica del verso avrà la distanza del distacco. Ricordando Pasolini che parlava della bellezza dell’Italia durante il fascismo,  Raboni scriverà: «Il punto/ è che è tanto più facile/immaginare d’essere felici/ all’ombra d’un potere ripugnante/ che pensare di doverci morire.» Come non dargli ragione…

Marco Conti

Giovanni Raboni, Cadenza d’inganno (a cura di Concetta di Franza), pp. 325, Salerno Editrice, 2023; euro 42,00

 

 

Barbero, “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria”

Con “Brick for stone”, Alessandro Barbero immagina un thriller che accompagna l’attentato alle Torri Gemelle di New York

«Poi sentirono di nuovo urlare la folla, ma come non aveva mai urlato finora, e si volsero a guardare laddove guardavano tutti. Una delle due Torri non c’era più. L’altra continuava a bruciare, come bruciava da più di un’ora, vomitando fiotti di fumo infernale.» L’immagine è vivida e il finale dell’ultimo romanzo di Alessandro Barbero, Brick for stone, è noto: le Twin Tower crollano e sembrano svanire nell’aria.

Il circo dei mostri

La narrazione termina, quindi, con l’attentato dell’11 settembre 2001 e cosa racconta? Racconta i mesi precedenti, durante i quali una squadra organizzata dall’agente della CIA, Harvey Sonnenfeld, indaga, cerca indizi, formula ipotesi. I consulenti di Harvey sono un ingegnere russo, Grišunja, esperto in attentati; uno studioso di frasi offensive e graffiti osceni, il prof Kosellech; il direttore del Mc Donald’s del centoduesimo piano della Torre Nord, Francy Flores; lo scacchista Bobby Fischer. Le scelte di Harvey sono a dir poco discutibili tanto che i suoi colleghi definiscono questo gruppo mal assortito “il circo dei mostri di Sonnenfeld”. La Ditta, come la chiama Harvey, è a conoscenza di un possibile attentato a New York, a Manhattan, ma non ne conosce modalità e tempistiche; pertanto, l’agente ottiene i finanziamenti necessari e sguinzaglia i suoi uomini. Il loro compito consiste nell’andare in giro per l’isola osservare ed ascoltare e, soprattutto, riferire ogni deduzione, ogni segno, ogni premonizione. Kosellech analizza i graffiti nei bagni pubblici e le scritte sui treni della metropolitana perché vi è la certezza che gli attentatori debbano comunicare fra loro anche attraverso canali inconsueti. Effettivamente, individua due scritte che compaiono sui treni “burn Manhattan” e “hit the Toweers”; la seconda scritta oltre l’errore ortografico è accompagnata da due tratti verticali.

Obiettivo confermato

«Secondo lei è da pazzi pensare che quelle scritte possano essere messaggi in codice scambiati dai terroristi?» chiede l’agente al suo informatore, mentre si fa strada in lui la conferma dell’obiettivo e la risposta «quando si tratta della specie umana può succedere di tutto» fuga ogni dubbio. Il problema diventa capire come possano essere abbattute le Torri Gemelle dato che l’impresa sembra quasi impossibile, ma Harvey, anche in questo caso, ha la persona giusta: Bobby-boy Fischer, ovvero l’uomo che immagina le combinazioni impossibili.

Hey Torri, stiamo arrivando

In metropolitana, Harvey trova un biglietto incollato al suo sedile del treno “Hey Towers we’re coming” e si rende improvvisamente conto che il tempo è finito, che solo lui può fermare tutto. Barbero, però, è affascinato dalle disfatte, dai grandi sforzi organizzati che finiscono malissimo e questa storia non fa eccezione.  L’impegno profuso finisce in quella nuvola bianca finale originata dal crollo della Torre Sud, che porta con sé anche il coronamento di una delle storie d’amore raccontate nel libro.

Tra realtà e finzione

A differenza delle opere narrative preceenti l’ultimo lavoro di Barbero non è un romanzo storico. Brick for stone è totalmente finzione letteraria, così come lo è la moltitudine di personaggi, ad eccezione del campione del mondo di scacchi Robert James Fischer, che nel settembre 2001 era ancora in vita, ma non a New York. Il personaggio Bobby Fischer è costruito con tutte le caratteristiche  note dell’uomo, ma Barbero ne inventa il rapimento e la collaborazione con la Cia. Del resto le vicende e i loro protagonisti sono inventati ma verosimili, credibili  nell’ America di inizio Millennio, come altrettanto credibili sono i linguaggi utilizzati, adeguati ai diversi contesti sociali, non solo nei dialoghi, spesso indiretti liberi, ma nei pensieri, nelle riflessioni. Il narratore  è esterno, ma contiguo, quasi mimetizzato nel contesto, capace di calarsi via via nella focalizzazione dei singoli personaggi rendendo così l’opera corale e multifocale.

Alessandro Barbero durante la presentazione del suo ultimo romanzo

Un romanzo “diverso”

Un filo conduttore che unisce questo romanzo “diverso” agli altri dello storico più seguito d’Italia è certamente l’interesse per la centralità della città, attraversata dai personaggi, vissuta, respirata e perciò ricreata nelle pagine. È stato così per Atene, per Fiume, per Parigi, per Venezia e ora per New York, che è mostrata nei suoi quartieri, nelle vie e colpita nel suo cuore economico. Un tratto, invece, non caratteristico di Barbero è evidente fin dalla copertina: il titolo del romanzo e delle tre parti che lo compongono sono in inglese. Brick for stone, cioè Mattone al posto di pietra, proviene dalla Bibbia di re Giacomo, in particolare dall’episodio della Torre di Babele come riportato in esergo; mentre l’ultima è una citazione di Marx All that is solid melts into air, ovvero tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Una sequenza di riferimenti storici che si accompagnano a quelli meno evidenti, come quando, en passant, è possibile cogliere una parte di una delle sue conferenze sull’Editto di Rotari: «Una volta Harvey aveva letto di chissà quale popolo barbaro, nei secoli bui, che stabiliva per legge delle compensazioni, nel caso che qualcuno fosse ammazzato o malmenato: se ti danno un colpo di spada in testa, ma senza romperla, la cifra è fissa; se invece schizzano via pezzi d’osso, hai diritto a una certa cifra per ogni frammento. Il legislatore era barbaro, ma non stupido: anche lui si era chiesto come bisognava contarle, le schegge.» Una voce che si fa riconoscere anche attraverso il piglio ironico, come quando, a poche ore dall’attentato si avverte la tranquillità di Bobby Fischer che riflette su cosa possa mai andare storto su un aereo, sul quale si sente ormai al sicuro.

Giancarla Savino

Alessandro Barbero, Brick for stone, Sellerio, pp. 346, Sellerio, 2023; euro 16, 00

 

 

 

Tahiti e le sue parole perdute

Simenon, Segalen, Gauguin, Darwin, i primi esploratori. Un viaggio estivo verso l’isola del Buon Selvaggio. Ma se mai c’è stato si è estinto con l’arrivo dei primi inconsapevoli globalizzatori Tahiti, il clima mite e una popolazione che si è meritata lo stesso aggettivo. Frutti pendenti dagli alberi, amori liberi, nessun progetto …

Back to Top
error: Content is protected !!