Se l’autobiografia presuppone certezza e l’autofiction l’interrogazione sul proprio tema, non c’è dubbio che Emanuele Trevi con La casa del mago aggiunga un altro tassello a quest’ultimo genere, fra storie vissute e sospese. Protagonista, come annuncia il titolo, non è soltanto la figura del mago, ovvero del padre del narratore; lo è di pari passo la sua casa, l’appartamento dove il narratore trasloca dopo qualche incertezza e con una inquietudine che resterà tra le mura delle stanze e tra i ricordi. Il romanzo diventa così il tragitto tra la memoria del padre, Mario, psicoanalista junghiano e l’identità del narratore. Un mistero insomma che sollecita altre domande. Tanto che Emanuele Trevi commenta: «Non ho una grande inclinazione a interpretare in modo vincolante i fatti che racconto. Di ogni storia, anche di quella confezionata con la maggiore efficacia, basterebbe tirare un filo per far venire tutto giù, riducendola a un nugolo di fatti insensati. Tanto più con storie di questo tipo, pescate nei fondali limacciosi della vita, della memoria, senza che ci sia bisogno di ricorrere ai trucchi sempre efficaci del mestiere.»
Il cubo di Rubik
In Due vite (2020), Emanuele Trevi perlustrava le attitudini dei protagonisti, due amici scrittori prematuramente scomparsi disegnando i loro percorsi attraverso episodi che sancivano tanto i rapporti quanto l’ evidente inconciliabilità dei caratteri. Nel nuovo romanzo la perlustrazione dello spazio e delle parole del padre appare più problematica. Il primo nodo da sciogliere è l’evidenza di un profilo elusivo. « “Lo sai com’è fatto”. Quando mia madre mi parlava di mio padre ci metteva poco ad arrivare al punto, sempre lo stesso: per affrontare qualunque faccenda con quell’uomo enigmatico, quel cubo di Rubik sorridente e baffuto, bisognava sapere-come-era-fatto.» Ma la formula idiomatica nasconde un sapere tutt’al più intuitivo. Emanuele Trevi gioca con sovrana ironia intorno all’enigma: il suo atteggiamento taciturno, la sbadataggine, gli interessi che dalla psicoanalisi trascorrono alla simbologia e all’astrologia, campi questi ultimi condivisi dal suo maestro, il guaritore Ernst Bernhard, i passatempi che che lo hanno accompagnato per una vita: disegnare complesse figure geometriche e lucidare sassi. Tutto ciò non fa che rendere più arduo il ritratto. Emanuele Trevi pesca dunque nella memoria, traccia qualche parallelo con la propria vita, racconta come lo psicanalista perse il figlio durante un soggiorno veneziano nell’istante in cui Emanuele acciuffò per strada la cintura del trench sbagliato seguendolo tra le calli; così come di ritorno a Venezia con il padre, in età adulta, si fecero derubare entrambi perché, nottetempo, non chiusero lo scompartimento della cuccetta
La coperta di lana
Mentre le domande si riconcorrono l’una appresso all’altra, almeno di una cosa siamo certi: la casa, snobbata dalle giovani coppie di sposi che avvertono tra le mura qualche aura contraria se non misteriosa, diventa il fulcro della storia, il luogo dove Emanuele si decide a prendere residenza mantenendo tra tutte le suppellettili una maestosa scrivania che nasconde cassetti, sportelli, ripostigli. E’ il primo oggetto di una lunga sequenza che Trevi adopera per circoscrivere l’ansia del presente e l’incertezza del passato. La scrivania sgombra, ordinata, luogo di lavoro e cesura tra paziente e guaritore, tra domande e risposte, ma anche il posto che separa padre e figlio nell’intervista di Emanuele allo psicoanalista, ormai ottantenne. Più oltre l’attenzione si sposta sui quaderni di appunti e la calligrafia paterna, «un corsivo così ordinato, così esattamente ricorrente nelle sue forme, da dare l’idea di un carattere stampato, di tipo gotico». Anche per lo scrittore, infine, è difficile prendere possesso dell’appartamento. A lungo gli scatoloni del trasloco rimangono a terra in attesa di essere svuotati. Tanto basta per ricordare due preziosi vasi cinesi che ora risultano scomparsi. Ma ben più importante è una coperta di lana infeltrita e bucata: «Ci si avvolgeva per riposare, se la portava dietro in vacanza quando andava a Cortina, la teneva sempre a portata di mano.» Quella coperta sembra di fatto un amuleto. Il foro che la contraddistingue con la circonferenza bruciacchiata è quello un proiettile sparato nel 1945 quando il padre, ex partigiano, in marcia con la coperta sulle spalle, era stato preso di mira da un soldato tedesco.
La casualità, il destino
Come nelle altre opere Trevi lascia aperte le sue domande quanto più rimpiccioliscono le distanze tra lo sguardo e l’oggetto, convinto – come sembra essere – che la vita è condanna alla libertà (così si esprimeva Sartre) e dunque dominio del caso anche là dove si accenna al destino ipotizzando una catena di eventi. Parlando del colpo fuori bersaglio sparato dal cecchino, e pensando all’eventualità opposta, scrive: «Tutto l’intrico del futuro – compreso me stesso, che in questo momento scrivo queste parole – dissolto come una bolla di sapone. Noi siamo gli spettri di quello che non è accaduto». Di eventi insoluti nella quotidianità della casa del mago, così come in quella più strettamente autobiografica, il libro è una fitta tessitura. La sua bellezza è richiamata proprio da questa voce, come i sassi che il padre smussava e lucidava con la carta vetrata.
Marco Conti
Emanuele Trevi, La casa del mago, pp. 249, Ponte alle Grazie, 2023; euro 18,00
«Là dentro la Città vive una strana notte/ dove il riposo è bandito dalle opere/ e il chiasso accompagna le ore»; «E’ un roveto che scotta d’ira – questa casa». Le voci che parlano, rispettivamente quella del narratore e dell’ape Regina, sono voci totalizzanti. La città è l’alveare e l’alveare è il mondo. Elisa Ruotolo, autrice di Ho rubato la pioggia, evoca – proprio come ha fatto nei suoi racconti – il destino dell’essere. Lo fa con i versi di Alveare, un poemetto appena edito da Crocetti, dove i punti di vista si intrecciano. Si ascoltano le voci dell’apicoltore, del narratore, ma soprattutto parla l’alveare, riflettendosi nelle voci della Regina «madre di tutti» (ma, confessa, «non governo me stessa») e degli altri destini: La Pupa, La Bottinatrice, La Magazziniera, la Nutrice, Il Fuco, fino alla Peste, per tornare in chiusura del libro al “noi” corale della collettività in viaggio: la Sciamatura verso nuovi campi, nuove arnie e quindi La Città Nuova.
Un’allegoria tra i classici
In seconda di copertina l’autrice commenta: «Sono voci piene o solo accennate, eppure ciascuna rivela il suo bisogno di essere, di vivere, di alimentare una ciclicità che rappresenta – per noi, come per le api – l’unica eternità possibile.» Alveare nasce come allegoria che rovescia il tema classico, quello che innerva il quarto Libro delle Georgiche virgiliane a cui, nel 1539, si unisce il poema didascalico Le api di Giovanni Rucellai: non sono le api ad essere come gli uomini ma è la storia umana a imitare quella dell’alveare. Se Virgilio credeva come Aristotele che «l’aerea rugiada del miele» fosse «dono celeste», anziché il prodotto dei fiori, nei versi di Alveare, il nettare è fatica e penuria:
Il dio della Città è feroce
cura le nostre pesti, eppure
ci affama.
Vivere è allora «disfare l’eterno/ è scoprirne la menzogna», «da quando ogni fiore – negli occhi fa male». Nel gioco delle parti la storia umana irrompe solo per negare ogni presunzione bucolica con le parole dell’Apicoltore: «Il pastore può forse amare /la moltitudine che si dà ciecamente al suo governo?». «Come lui lo è del gregge/ io sono la creatura dell’alveare», «io dio d’un nettare che sgorga/ non in obbedienza di un volere/ ma in soddisfazione d’una necessità». Il suo sguardo è ugualmente quello di un escluso: «Osservo senza comprendere/ restando incompreso.»
Dove inizio e fine coincidono
Il verso di Elena Ruotolo, fitto di scenari più che di immagini, ha un registro compatto. Cambia il punto di vista dei monologanti chiamati in causa ma la visione resta ancorata a un destino che non ammette repliche, ad una storia cresciuta come l’alveare nel ciclo del tempo, tra luce e buio, vita e apparente stagnazione invernale. «Quanto serve per stare al mondo?», si chiede l’ape Magazziniera: «Un chicco o il campo in cui si perde?/ Un acino o la sua vite intera?/ Un fiore o il fondo che lo nutre?» Solo la Sciamatura, questo viaggio rituale al termine di un ciclo di lavoro e accumuli, forma uno scarto, un nuovo immaginario: «Esiste per noi una sola domenica/ allora smettiamo il rigore del gesto utile/ e l’esilio allenta il peso della rovina.»
Il disegno poetico di Elisa Ruotolo ha qualcosa di antico e vivido, porta in sé, col tema, quella cadenza ineludibile che è stata degli antichi senza appartenere a nessuno, dove fine e inizio coincidono. Ecco un frammento dell’incipit dedicato all’Inverno:
Ogni voce è persa e dagli occhi non arriva
grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire e ottunde
la profezia del verde. Tutto cade dall’alto
la pioggia lava, poi la neve imbianca
e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore
alla trincea e già raccontare non sanno
la propria memoria.
Marco Conti
Elisa Ruotolo, Alveare, pp. 83, Crocetti Editore, 2023; euro 12,00
A sette mesi dal suo primo romanzo Centomilioni, uscito per Einaudi e finalista al premio Campiello, Marta Cai è tornata in libreria con un racconto che conferma intatte le sue prodigiose capacità di scrittura. Nella quartina di racconti pubblicati a ottobre da Tetra, un coraggioso progetto editoriale che ogni 4 mesi porta alla luce 4 testi delle migliori penne italiane al costo di 4 euro, Tipo psicanalisi occupa un ruolo di rilievo, nonostante la bontà dei testi di Dario Voltolini, Demetrio Paolin e Alessandro De Roma. Nelle 70 pagine confezionate in un formato grafico che induce i bibliofili al collezionismo, la scrittrice nata a Canelli e residente in Brasile trasla nuovamente i suoi temi più cari: la provincia, i rapporti famigliari, i soldi e il cibo.
La storia di Anita detta Nini
La vicenda è presto detta: la giovane Anita («detta “Nini” a casa, “Ani” a scuola e “Ano” tra i più facinorosi») accompagna i genitori, Dante il piemontese errante (che sogna viaggi lontani, ma passa le serate sul divano a bere Vecchia Romagna) e la moglie Lucia, imbottita di psicofarmaci che etichetta per praticità come «tipo Control» o «tipo Lexotan», in un viaggio verso un fantomatico guaritore svizzero (una macchietta che parodizza, anche linguisticamente, gli epigoni freudiani). Cai è compassionevole e spietata con la protagonista (una versione adolescenziale della zitella Teresa di Centomilioni), che al posto di seguire la famiglia vorrebbe andare al compleanno di Pietro di cui è innamorata, insieme all’amica Anna: esile e «cachettica» vive in una famiglia campagnola tra «le stagioni, le galline ovaiole, il punto di maturazione della frutta, le pere decane».
Proprio frutta e cibo diventano correlativo oggettivo di desideri frustrati e affetti mancati, un po’ come le faraone e gli ossibuchi nel romanzo precedente. Sembra di rivedere Pavese, quando in Lavorare stanca accostava le donne a frutti maturi, che cercava di assaporare, ma spesso vedeva cadere dagli alberi troppo maturi. In questo caso tutto ruota attorno a una pera, simbolo della normalità che Anita vede nella famiglia di Anna e al contempo figura fallica – «sembra il cazzo che c’è nei bagni delle femmine» – , di un incontro con l’altro sesso anelato dalla ragazza. Oppure nei pasti famigliari, che seguono riti precisi, sintomo di ruoli imposti e dinamiche tossiche: «al ristorante la regola lassa era di assaggiare le specialità locali, quella inderogabile di non ordinare per nessuna ragione pietanze che si potessero cucinare anche a casa».
Una via di fuga
Queste dinamiche finiscono per creare gabbie di solitudine e incomprensioni, a cui la clinica svizzera non può porre rimedio. Le uniche vie di fuga diventano per i genitori dei feticci come le cartine geografiche o le pillole della madre, mentre per Anita, schiacciata dai genitori, l’unico sfogo sembra essere la comunicazione telepatica con Anna e Pietro, una sorta di super potere che è l’evoluzione del diario di Teresa in Centomilioni: uno spazio libero, dove esprimere la propria interiorità senza remore e arrivare a fondo dei pensieri più intimi, un po’ «tipo psicanalisi».
Lorenzo Germano
Marta Cai, Tipopsicanalisi, pp.74, Tetra, 2023; euro 4,00
Coda come chiusura di un brano musicale, coda come ultima parte di una coreografia tripartita, coda infine come congedo di uno scritto. Éric Sarner, di cui due anni fa Gallimard ha ospitato una significativa silloge dell’opera poetica sotto il titolo di Sugar et autres poèmes, torna al verso con questo titolo evenemenziale, 99 Codas (sans Récits) edito da la rumeur libre editions, con una “partitura” che ha lo slancio della grazia breve e frammentaria ma che costruisce, di passo in passo, di testo in testo, un tema non eludibile. E al di sopra del tema pone un’epigrafe di Jacques Réda: «Comment finir? On ne sait pas./Et l’on ne sait pas parce qu’on ne veut pas. Personne ne veut finir.» Nessuno vuole finire…E tuttavia le scene si moltiplicano novantanove volte in questi versi. Qualche volta è un’immagine dai contorni contestuali sfumati, altrove un commento che sfugge alla sua storia. La parte parla, insomma, per il tutto.
Dice: vorrei vedermi con del bianco
Tutto attorno
Qualcosa di luminoso.
*
La notte non cadeva, piuttosto
si sporgeva sul tetto
Come una madre - sopra il letto.
Sarner sceglie un istante di una possibile diegesi, ovvero porta in evidenza briciole di vissuti, epifanie di figure entrate nella sua storia. Se in passato ha messo in versi un intero microcosmo, come nel caso del pugile Sugar (Ray) nel poema omonimo, qui di ogni figura vale il riflesso richiamato alla memoria con sintesi estreme. Il lettore di Sarner che confrontasse quest’ultimo testo con l’opera, scoprirà due momenti che quasi la preparano: Petits chants de proximité e Presque un chant d’errance. Come in 99 Codas anche là si avverte un passo lirico-narrativo che procede per evidenze: con la prima raccolta Sarner entra per esempio in contatto con l’immaginario di alcuni autori prediletti come Pasolini: «Le notti bianche di Pasolini/le mani callose/ che cercava nel nero/ delle miserie di periferia»; sull’altro versante si esplicita una memoria dettagliata attraverso 80 parole di lessico sefardita. In entrambe la poesia vive in equilibrio tra il commento e l’immagine.
Le voci, i flashback, l’arte
La contrazione estrema che Sarner si è dato come misura in 99 Codas costituisce anche la forza dei suoi versi. Il racconto si raggruma in flashbeck, in voci improvvise che irrompono sulla scena per lasciarla conclusivamente. «Elle ouvrit – les volets. / C’était 1895. Le soleil entra fort./ Son chigon blond un peu défait/. Il y avait cette musique/ Portée par l’eau du ruisseau,/ Just eau dessous – / Et / Par ce qui montait de son cœur.»
L’irruzione della voce talvolta è improvvisa e netta:
E concluse:
«Da quando sei morta,
Non ho mai smesso di invecchiare, lo sai?
Rifletté e aggiunse:
Ho fatto – come ho potuto.
Ho fatto finta di niente»
La misura breve del verso, la disposizione al centro della pagina, evidenziano il dettato come un’epigrafe che investe tanto la parola del vissuto quanto il discorso sulla parola e sull’arte. Ci sono in queste “code” diversi incisi sul desiderio di esemplarità dell’arte dove Sarner parteggia per la bellezza del non-finito. Come in questo scorcio: «Eugène reprit ancore le petit nuage/ Chiffoné de blanc, en haut à droite/ (le moyen, en fait, celui du milieu)./ Il lui sembla qu’il avait fini par finir./ On ne pouvait pas dire que’il était content,/ Mais ilétait – heureux. / Il resta longtemps a mâchouiller/ Le bois de sa brosse.»
…«Rimase a lungo a masticare/ Il legno del suo pennello». Viene in mente una scena descritta da André Breton in Nadja dove un altro pittore insegue, un tramonto e continua a cambiare colori cercando di prendere in consegna quella bellezza irraggiungibile nel flusso del tempo. Éric Sarner fa masticare il pennello al suo artista che non è convinto del risultato benché in qualche modo soddisfatto. La scena potrebbe essere la prima parte di un dittico di cui la seconda detta un commento totalizzante e pervasivo:
Improvvisamente, giudicò l’esistenza ridicola
Sì ridicola.
Era quasi da ridere –
Ma non ci riuscì.
Tra esistenza e mimesi, tra l’artista e il suo lavoro si spalanca la tranquilla indifferenza del mondo: «Cette question qui ne se pose que – / Dans l’absence ou devant le drâme: Que ferai-je de toute cette lumière?»
Il sorriso, l’ironia
Il controtempo taumaturgico di 99 Codas sposa assurdo e ironia come nella “fiaba” cattiva che ha per protagonista l’uccello quetzalcoatlus, «il più grande animale che abbia mai volato», ucciso da un meteorite mentre è intento a divorare piccoli sauri…O in questo ardente distico beckettiano:
La verità più bruciante
E’ nel verde dei pappagalli.
E ancora nell’intraducibile sardonico sorriso che imprime questi versi: «Oh mon poète! s’écria-t – elle,/ Restez ancore!/ Vous me donnez envie de moi!»
Marco Conti
Éric Sarner, 88 codas (sans récits), pp. 107, la rumeur libre editions, 2023; euro 17,00
Gli elementi più vistosi di Sillabario all’incontrario, penultimo libro di Ezio Sinigaglia uscito nel febbraio 2023 per TerraRossa edizioni, sono la struttura, lo stile e l’impossibilità di incasellarlo in un genere preciso. Nato nel 1948 a Milano e trapiantato da diversi anni in Sardegna per distaccarsi da «un concetto ornitologico dell’abitare», l’autore di questo volume giustamente inserito nella collana Sperimentali dell’editore barese non è nuovo a soluzioni narrative originali e metaletterarie, fin dall’esordio con Il Pantarèi.
A lunga distanza dalla scrittura dell’opera, composta tra l’ottobre 1996 e il maggio 1997 a Geremeas, Sinigaglia ha dato alla luce una lunga riflessione sulla malattia, un tema novecentesco come molti altri che attraversano il libro ( il rapporto con il padre o il rimosso freudiano): dopo una varicella contratta in età adulta, segue una broncopolmonite e una crisi depressiva a cui lo scrittore cerca di trovare una risposta, se non una terapia, indagando la propria esistenza in ventuno capitoli tematici che traggono ispirazione ognuno da una parola iniziante per una lettera dell’alfabeto.
Il sillabario: da “Zoo” a “Al di là”
E qui veniamo al titolo che tiene in sé sia la struttura che l’innovazione rispetto ai precedenti letterari, in primis i Sillabari di Goffredo Parise. Lì però si trovano una serie di racconti che scandagliano i sentimenti umani, uno per ogni lettera dell’alfabeto, qui invece a essere messi al vetriolo sono aspetti della vita di Sinigaglia (nella foto a fianco) che non hanno un vero fil rouge, se non la sua esistenza stessa.
A questo si aggiunge l’idea rivoluzionaria di ribaltare l’alfabeto partendo dalla fine (Z di Zoo) per arrivare al principio (A di Aldilà), in nome di una ricerca di una verità curativa o di una diagnosi esistenziale. In questo l’autore cerca di dare una coloritura gialla (d’altronde il capitolo che più permette di leggere tra le righe del libro e della produzione dello scrittore è dedicato proprio ai polizieschi e al colore caratterizzante il genere), che si combina a un’autobiografia romanzata o a un diario disordinato di appunti e riflessioni (in realtà più che altro un lungo flusso di coscienza testimoniato dalla sintassi tenuta insieme dai due punti, quasi ossessivi).
Amori e fragilità
L’obiettivo non è il disvelamento del colpevole come in un romanzo di Agatha Cristhie o di sir Arthur Conan Doyle – chi spera di trovare un’agnizione nelle ultime pagine rimarrà deluso – ma avvicinare il lettore al mondo di Sinigaglia, alle sue fragilità e ai suoi amori (da quello pirata per i ragazzi di strada a quello spirituale per il mare sardo, fino a quello assoluto e religioso per la letteratura), proprio come avrebbe fatto il suo investigatore preferito, Maigret: per comprendere il delitto bisogna passare dalla parte dell’assassino, oltrepassando la linea gialla che ci separa da lui.
Lorenzo Germano
Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario, pp. 236, Terrarossa Edizioni, 2023; euro 16,90
Lo scrittore delle “Città invisibili” era nato 100 anni fa a Cuba, ma per lui era più “reale” dire Sanremo
Italo Calvino(F.to Wikimedia)
Italo Calvino scrisse e ripeté più d’una volta che scrittore e opera sono due cose distinte. Tant’è vero che sulla sua biografia si divertì a inventare. Per esempio scrisse di essere nato a Sanremo perché era più reale. Sanremo era il luogo dove i genitori si erano trasferiti quando l’autore aveva due anni, di Cuba non aveva memoria. Forse si dispiacerebbe dunque di scoprire che il 15 ottobre 2023 ricorre il suo centenario essendo nato in quella data a Santiago de Las Vegas nel 1923. Con l’ironia che lo contraddistinse avrebbe forse potuto inserire il luogo di nascita tra le sue Città invisibili e tracciarne una mappa. La prima città della sua maturità fu invece Torino: «Qui a Torino si riesce a scrivere perché il passato e il futuro hanno più evidenza del presente (…). Torino è una città che invita al vigore, alla linearità e allo stile. Invita alla logica e, attraverso la logica apre la via alla follia», commenta in una pagina del 1960, Lo scrittore e la città. A distanza di tanti anni si può aggiungere che in questa stessa descrizione ci sono i caratteri essenziali della sua narrativa: la linearità per l’appunto, la razionalità dei classici, l’immaginazione sfarzosa.
Alla Einaudi dal 1947
In questa data centenaria Mondadori ha mandato in libreria un libro calviniano del tutto inatteso: Il libro dei risvolti. Note introduttive, quarte di copertina e altre scritture editoriali, curato da Luca Baranelli e Chiara Ferrero. Un omaggio ai lettori e all’intelligenza dello scrittore perché di risvolto in risvolto Calvino percorre di fatto alcuni decenni cruciali della letteratura. Dove decidessimo di lasciare in disparte i classici che Einaudi proponeva, da Puškin a Dickens, da Shakespeare a Molière, ci troveremmo di fronte a una piccola storia della contemporaneità in cui, in poche righe, spiccano le qualità precise del testo nonostante lo scopo promozionale. Calvino cominciò a lavorare alla Einaudi nel 1947 e venne subito assegnato ai servizi per la stampa «per la spiccata abilità nello scrivere risvolti o meglio testi ad essi equiparabili: schedine, quarte e fascette» scrive nell’introduzione Tommaso Munari. Sul paratesto ci sono ormai d’altro canto studi specifici e qualche volta di straordinario spessore come quelli di Genette. Nel caso dei risvolti l’unica riserva è la più ovvia. Lo stesso Munari si incarica di dirlo esplicitamente: «L’editoria si potrebbe definire come il processo compreso tra un parere di lettura e un risvolto di copertina.» Tanto il primo vuole obiettività quanto il secondo deve «persuadere all’acquisto, tacere le imperfezioni del libro, essere letto dal maggior numero possibile di persone.»
La selezione
Il marketing di Calvino è però quello di una casa editrice che, come scriveva Moravia, non ha mai pubblicato un libro per denaro. Almeno in quegli anni e fintanto che Giulio Einaudi rimase in sella. La selezione delle schede editoriali fatta dai curatori non è stata quindi uno slalom problematico. Una prima raccolta di “scritture editoriali” calviniane era stata pubblicata nel 2003 e stampata fuori catalogo proprio da Einaudi come strenna. L’edizione di oggi è notevolmente ampliata ma sono state escluse, insieme a 17 scritti che accompagnavano l’uscita dei libri dello stesso Calvino (oggi ristampati negli apparati degli Oscar), tre postfazioni di carattere saggistico. Viceversa si troveranno 101 risvolti in più su un totale di 201, in qualche caso “note” di cui si è scoperta successivamente l’autorialità.
Risvolti, note e schede bibliografiche
Sfogliando queste pagine la memoria del Novecento sembra più breve del dovuto. Compaiono romanzi e autori che ci siamo lasciati indietro e che, per comparazione, sollecitano domande inquietanti sul futuro dei libri di oggi, cioè sulla macchina editoriale che ora lavora pensando al fatturato anziché alla qualità. Non che il successo un tempo fosse un dato indifferente, ma decisamente più sobrie erano le misure. Soprattutto in casa Einaudi.
Ecco comparire per esempio il terzo romanzo di Giuseppe Berto, Il brigante (1951) di cui Calvino nella nota bibliografica traccia la storia raccontando come l’autore si sia trasferito per mesi nell’ambiente di un reduce diventato bandito in un paese del Meridione. Ed ecco il corsivo anonimo apparso nel “Notiziario Einaudi” su Mario La Cava: autore oggi ignoto ai più e di cui Calvino dava per certo «un posto ben definito» nella letteratura italiana. Più indulgente è stata la storia letteraria con Mario Tobino, soprattutto dopo il successo tardivo – negli anni Settanta di Basaglia – di Le libere donne di Magliano (1953). Tobino, psichiatra che sosteneva lo status diverso della malattia mentale e riversava in quelle pagine la sua esperienza, veniva qui presentato per La brace di Biassoli, romanzo anche questo di carattere autobiografico. Di pari passo troviamo le schede biografiche per le opere di Natalia Ginzburg, Alberto Arbasino, Primo Levi, Giovanni Arpino, Leonardo Sciascia, Lucio Mastronardi, Gianni Celati e quelle di opere non più ristampate o stampate alla macchia: La calda vita (1958) e La rosa rossa (1960) dell’istriano Pier Antonio Quarantotto Gambini. Non mancano curiosi repêchage come lo è il risvolto di Storie naturali (1966) firmato da Damiano Malabalia, precario pseudonimo di Primo Levi.
Stranieri e indigeni
Le traduzioni Einaudi tra gli anni Cinquanta e Ottanta svolsero un ruolo cruciale. Non a caso quando l’editore si trovò in difficoltà ebbe buon gioco a lasciare a Mondadori lo sfruttamento per qualche anno di alcuni suoi titoli in edizione Oscar. Si trovano qui, compendiati da Calvino, il Salinger del Giovane Holden,La resa dei conti del futuro premio Nobel Saul Bellow, I cavallini di Tarquinia di Marguerite Duras, Fiestas di Juan Goytisolo, Simone de Beauvoir con Memorie d’una ragazza perbene, l’inarrivabile Zazie nel metrò e I fiori blu di Queneau, Il gioco del mondo di Cortazar. E infine al di là dei classici della modernità, ecco qualche sorpresa: accanto alle fantasmagorie di Manganelli, almeno due recuperi dal passato: la rilettura di Amore e ginnastica (1892) di Edmondo De Amicis, individuato come l’esito più vivo e attuale dello scrittore e Il peccato (1913) di Giovanni Boine: «E’ uno dei libri più belli del primo Novecento italiano, e uno dei pochi a cui spetti la definizione di romanzo nel senso pieno e più alto del termine.» Calvino riconosce in questo romanzo «un passo europeo»; anzi «è l’unico titolo italiano che ha di diritto il suo posto nello scaffale riservato, in quegli anni, a un genere narrativo per nulla secondario: il “ritratto dell’artista da giovane”, come in Joyce, in Rilke, in Mann.» Così in quarta di copertina e firmato, il lasciapassare di Calvino per la collana da lui diretta “I Centopagine”. Collana scomparsa con le sfortune di Einaudi e la fortuna della letteratura mordi e fuggi.
Italo Calvino, Il libro dei risvolti (a cura di Luca Baranelli e Chiara Ferrero), pp.421, Mondadori, 2023; euro 15,00
Il nuovo romanzo di Bernardo Zannoni dopo il Campiello dell’esordio
Avere 25 anni può essere difficile, ci si destreggia tra i grandi, senza averne l’esperienza. Iniziano le responsabilità, ma al contempo ci si aggrappa ancora all’innocenza bambina, un canto del cigno prima di rimanere intrappolati in una «Grande Gabbia» di aspettative e ansie sociali. Allo stesso modo non è semplice confermare la propria maturità artistica con la pressione dell’aver vinto il premio Campiello con un esordio brillante come I miei stupidi intenti (Sellerio): una favola animale che s’interroga su cosa sia davvero umano con gli occhi di una faina. Bernardo Zannoni, classe 1995, ha avuto soltanto un anno per tornare in libreria, probabilmente schiacciato da logiche editoriali e commerciali, e ci ha provato con 25, un’opera diversa dal capolavoro precedente, forse di minore ambizione, ma che scava nelle sensazioni che hanno portato alla scrittura di quel gioiello e nelle pressioni che la società impone alle nuove generazioni.
Gerolamo detto Gero
Protagonista è Gerolamo, detto Gero, ragazzo di 24 anni alle soglie del compleanno. Di lui sappiamo che è sovrappeso, vive solo dopo l’abbandono della madre e del padre, entrambi dissolti nel vuoto, in una villa senza luce e non studia, né lavora: ad assisterlo è rimasta solo la zia «enorme» e malata, che lo accudisce con i suoi manicaretti in un alloggio maleodorante, spingendolo a coltivare la sua passione per la fotografia. Clotilde ha un rapporto morboso con il nipote, lo tratta ancora come un bambino, come si vede quando gli promette sorprese per il compleanno (nient’altro che un misero rattoppo del giubbino strappato dopo una serata alcolica) e lo stesso vale per il ragazzo, bloccato in dimostrazioni di affetto puerili e in una situazione di stallo emotivo, aggravata da una disastrosa relazione passata.
Gli uomini vuoti
Il mondo che attornia il «ciccione idiota», come lo appella il violento Barracus – oste del bar dove Gero passa le nottate con amici e conoscenti – è fatto di ombre, «gli ignavi», dai quali il ragazzo non si esclude: un esercito di Hollow men, di eliotiani “uomini vuoti”, che passa il tempo senza prospettive, trovando come unico rimedio l’andare dallo psicologo, fare yoga o bere tutte le sere. Il flipper, a cui i giovani avventori dedicano gran parte del loro interesse pur sapendo che non dovranno mai superare il record del titolare – pena l’esclusione a calci nel sedere -, diventa il correlativo oggettivo di una vita a metà, fatta di obiettivi futili e di vincoli che frustrano le (seppur piccole) ambizioni dei ragazzi. Chi prova a far finta di niente, rischia di esplodere, come succede a Tommy, motore immobile della trama con il suo tentato suicidio: è il primo di una serie di incontri con la morte che porteranno il protagonista prima al «punto di rottura», poi a una nuova consapevolezza, come nella miglior tradizione dei romanzi di formazione.
Sono tante le perizie per arrivare a sentirsi «uomo», in un impianto romanzesco che mima la favola, soprattutto nei ruoli: Barracus, l’oste-orco antagonista che mette alla prova il personaggio principale, Amon l’amico-aiutante distratto dalla relazione altalenante con Dora, Martin il vicino della zia che finge di soccorrerlo dandogli un lavoro ma lo incastra in ulteriori drammi e la moglie Betta, assunta a mandante della missione finale quando chiede aiuto per ritrovare il compagno fuggito al Pillola blu, un luogo al limite del fantascientifico dove i clienti sono messi dentro a oblò e lasciati a confrontarsi con le loro paure. A segnare Gerolamo saranno la visione sanguinolenta della carne al mattatoio Kilhdren, in particolare di un cuore che passa lungo il nastro trasportatore mentre si improvvisa operaio (per coprire la fuga di Martin), e la scomparsa della zia che, nonostante il dolore difficile da elaborare, lo inchioda alla presa di coscienza di essere solo.
Clotilde e “le altre”
Un po’ superficiali le descrizioni femminili. Se è vero che si possono spiegare con il clima nebuloso e insipido in cui sono catapultati tutti i personaggi, quasi tutti descritti come persi in una società dove andrebbero ridefiniti i cardini e le priorità, sono poche le figure memorabili a parte la zia e la giovane Betta. Beirut, la sorella di Tommy che viene agognata nei sogni di Gero, rimane intangibile e stereotipata nel mestiere di avvocata: la sua bellezza è sbrigata in pochi tratti e i tentativi d’incontro con lei pressoché ridicoli e abbozzati. Lo stesso si può dire di Ekaterina Kilhdren, affascinante proprietaria del mattatoio che per tutto il romanzo rimane un’ombra minacciosa sulle spalle del protagonista (il suo diktat è che, dopo la sostituzione nell’azienda di Martin, Gero venga denunciato per aver timbrato il cartellino al posto di un altro o porti all’amico la lettera di licenziamento). Nelle ultime pagine assurge a compassionevole maestra di vita, offrendosi di comprare la villa del ragazzo: un’evoluzione troppo rapida per essere verosimile, visto che la donna compare appena un paio di volte in tutto il libro.
Lorenzo Germano
Bernardo Zannoni, 25, pp. 160, Sellerio, 2023; euro 16,00
Nel corso della Storia ci sono date dette spartiacque, ovvero quelle che si riferiscono ad avvenimenti che segnano una netta divisione tra il prima e il dopo. Il 476 d.C. ne è un esempio: finisce il mondo allora conosciuto, il mondo romano, e inizia un dopo completamente diverso fatto di regni romano barbarici. Quella data rappresenta l’inizio del Medioevo. Il 1492, invece, indica la fine del Medioevo ed è un’altra data spartiacque. L’avvenimento che sancisce una rottura tra un prima e un dopo è la scoperta dell’America, narrata nell’ultimo romanzo di Fabio Genovesi Oro puro.
La Gallega
La vicenda ha come protagonista Nuno, un ragazzo di sedici anni, ebreo non praticante, figlio di una prostituta che muore nei primi capitoli. Rimasto orfano, non volendosi convertire al cristianesimo – come imposto dai sovrani spagnoli – Nuno si trova a dover abbandonare Palos, il paese natio e imbarcarsi su una nave che sta partendo per una grande avventura. Sul molo viene scambiato per un mozzo «Stai cercando la Gallega, vero?», gli dice un marinaio, non sapendo che Nuno era conosciuto proprio come il figlio della Vedova, o il figlio della Gallega – termine che stava a indicare le prostitute. «Eh, con quel sacco in spalla, a guardarti intorno. Anche gli altri hanno fatto uguale. Perché cercate tutti la Gallega, ma non si chiama più così. Questo nome a Lui non piace, ha detto che non è rispettoso, allora da oggi la nave si chiama Santa Maria. Però è la Gallega, capito?» Il “Lui” di cui parla il marinaio è Cristoforo Colombo, lo straniero dallo strano accento, con un mantello rosso, che Nuno conoscerà dopo alcuni giorni di navigazione. Sul momento il ragazzo si unisce ai marinai dopo aver risposto affermativamente ad un “sei abbastanza pratico?”, cui avrebbe voluto rispondere di non essere mai salito su una nave.
Scrivere è un lavoro del cuore
Il mal di mare lo accompagna nei primi giorni di navigazione, riducendolo allo stremo delle forze, fino a quando non viene preso di peso e portato davanti alla clessidra e incaricato di girarla ogni volta che termina la sabbia. Al cospetto di Colombo dichiara di saper scrivere e a questo punto il suo incarico, in parte, cambia e si ritrova a redigere, sotto dettatura, le memorie del Capitano. «Scrivere, non è scrivere, è vivere, e sentire, è trovare, prendere e dare […] più che di mani e occhi scrivere è un lavoro del cuore. Del cuore e del respiro. La mano che tiene la penna arriva solo alla fine, e se nel respiro hai tutto quel calore che vuole uscire, impari in un attimo.» Con queste parole un uomo anziano aveva insegnato la scrittura alla madre di Nuno, che, abbandonata la precedente professione, aveva iniziato a scrivere al porto le lettere dei marinai. Tutti la cercavano per mandare notizie a casa e lei seduta in una piazza vicina al mare, vestita di nero, man mano insegnava anche a suo figlio a sillabare e a riconoscere le parole. «Io però li dicevo smontati lettera per lettera: C-L-A-R-A, I-N-E-S, S-E-D-I-A, S-C-O-P-A, e lettera per lettera sapevo metterli sulla carta. Perché camminavo accanto alla mamma, e intanto lei mi insegnava a leggere e scrivere»
L’amore è un turbamento
Imparando a leggere e a scrivere attraverso le lettere dei marinai, spesso indirizzate alle mogli o alle fidanzate, Nuno aveva scoperto l’esistenza dell’amore e domandava alla madre e alla zia quando anche lui si sarebbe innamorato. A questa domanda non viene data una risposta fino a quando la Santa Maria giunge alla terra, a lungo cercata, e davanti agli occhi di Nuno appare Lei. Il ragazzo scopre così che l’amore è un turbamento, che dagli occhi passa al cuore e che «è sempre un’ondata improvvisa e sconvolgente, vedere una persona e innamorarsi all’istante di lei.» La ragazza sembra emergere dall’acqua e per questa visione, per tornare a questo momento, anche molti anni dopo Nuno scambierebbe tutto il resto della sua vita.
L’amore per il protagonista è un miracolo normalissimo e impara che per gli innamorati la lontananza fisica non conta e che proprio le persone che si amano sono «oro puro, senza lo sporco delle mani che lo afferrano, lo rubano, lo vendono».
Mare oceano
L’altro protagonista, costante nei romanzi di Genovesi, è il mare e qui è anche l’antagonista di Nuno. Il Mare Oceano, da attraversare per arrivare al Cipango, al Catai, spinge Nuno a scrivere una lettera per avvisare i sovrani spagnoli di non inviare altre navi a percorrere quella rotta perché l’Oceano è «inospitale, spietato, macchiato di alghe simili a viscidi serpenti neri». Il Mare Tenebroso impone di non cercare nuove terre e di restare, contenti, dove si è.
Giancarla Savino
Fabio Genovesi, Oro puro, pp. 437, Mondadori, 2023; euro 20,00.
Compie centodieci anni l’indimenticabile romanzo di Alain-Fournier
Disegno di Thévenet per Le Grand Meaulnes,Fayard, 1971
Centodieci anni fa, nel luglio 1913, la Nouvelle Revue Française iniziava a pubblicare a puntate quello che sarebbe divenuto un romanzo di culto, Il grande Meaulnes, una storia ambientata nel cuore antico della Francia, tra boschi e campagna. Un romanzo di formazione, si è detto spesso, perché i due protagonisti si confrontano per la prima volta con l’amore, con lo slancio verso la vita e la condanna alla delusione. Ma la qualità che ha distinto il romanzo di Alain-Fournier rispetto alla vasta rassegna di opere narrative legate ai tempi inquieti dell’adolescenza, è la stessa che partecipa al sogno, alla confusione che accompagna l’infanzia quando si apre all’esperienza e ai desideri di una nuova stagione. Il paesaggio verde e incantato del Grande Meaulnes ne è parte integrante come lo è la quotidianità dei ragazzi. Ragazzi che portano gli zoccoli, che osservano i nonni lavarsi con un secchio d’acqua del pozzo, che aspettano in cortile che sia accesa la stufa della scuola. E’ la cornice che si è voluta definire rustica contro l’immaginario poetico che scaturisce da questi ambienti e di cui pochi indizi sono nondimeno formidabili: un castello nel bosco, una festa notturna, la seducente figura di Yvonne de Galais, le fughe misteriose e i racconti di Agostino Meaulnes fatti al narratore, suo coetaneo, François Seurel. Paradigmaticamente lo scrittore ha dato un nome vago e pressoché intraducibile all’oasi che i giovani cercano nei boschi: domaine. Parola che può indicare una vasta tenuta, oppure un regno, in ogni caso un particolare territorio. In una delle prime versioni italiane, il traduttore Piero Bianconi sottolineò l’ambiguità del termine mantenendo nel testo il corrispondente etimologico, “dominio”. E’ questo regno, dunque, il contraltare della vita del villaggio, il luogo dove gli amori sospesi nel cuore dei protagonisti prendono forma, si confrontano con inattese svolte del destino. Lo psicologismo, in Alain-Fournier, non è di casa. E la fortuna del romanzo è forse legata anche alle domande che pongono i personaggi con l’intreccio delle loro vite.
“Miracles”
Uno scorcio di Épineuil-le-Fleuriel dove lo scrittore è vissuto e dove è ambientato il romanzo (f.to G. Savino)
Di questo mondo romanticissimo restano non solo le pagine dell’unica opera pubblicata in vita da Alain-Fournier, ma anche alcune poesie e numerosi brani di prosa comparsi per la prima volta nel 1924 da Jacques Rivière con il titolo Miracles, libro poco conosciuto e raramente tradotto. Ecco in una versione inedita, “L’amore cerca luoghi abbandonati”
«Nelle lunghe sere piovose l’amore cerca luoghi abbandonati. Abbiamo seguito il sentiero d’erba che andava non so dove una domenica di settembre. Ci ha portati su un’altura dove la pioggia si raccoglieva come una bianca foresta perduta. Là, in una vigna terrosa e annerita, mi precedeva il mio amore. Con tenerezza guardavo le sue spalle trasparenti sotto la seta bagnata e la sua mano, il gesto che accompagnava la sciarpa rossa, fradicia, dicendo: “Ancora più lontano! Ancora più persi!” Abbiamo trovato un boschetto deserto con grandi archi di ferro rovinati a terra, vestigia di un pergolato. In lontananza, nella vallata, si scorgeva un paese fumante di pioggia. Volti umani che guardate dietro le finestre, com’era lento davanti a voi lo scorrere delle ore nelle strade e monotono alle orecchie il suono dell’acqua nel canale – accanto la sera randagia lungo i viali del nostro rifugio di frasche! Ci siamo gettati pioggia sulla faccia, ci siamo ubriacati del suo gusto denso. Siamo saliti sui rami fino a bagnarci la testa nel grande lago del cielo mosso dal vento. Il ramo più alto, dov’eravamo seduti, si è spezzato e siamo caduti entrambi in una cascata di foglie e di risate, come in primavera due uccelli impacciati nell’amore. E talvolta, amore, avevi questo gesto selvaggio, scostare coi capelli dagli occhi, i rami del pergolato, perché il giorno continui nella nostra tenuta le cavalcate sui sentieri incerti, gli incontri colpevoli, le attese ai cancelli, e le feste misteriose che portano la pioggia, il vento e gli spazi perduti.»
Questi passi sembrano un estratto dell’immaginario che Alain-Fournier riserva al narratore del Grand Meaulnes: con la distanza che separa l’Eden amoroso dal villaggio, con una pioggia sensuale che isola gli amanti e li relega in un mondo “altro” senza il tedio, senza le contingenze del quotidiano. Ugualmente le poesie di Miracles insistono su questo registro: l’amore vi si affaccia come salvazione e momento epifanico come nei versi di “Attesa”.
Una poesia di Alain-Fournier
Attesa Attraverso noiose estati in classe
in silenzio
e che piangono di noia,
Sotto l’antico sole dei miei pomeriggi
Pesanti di silenzio
solitari e sognanti d'amore
d’amore sotto i glicini, in ombra, nel cortile
di qualche casa tranquilla e persa tra i rami,
Attraverso mie lontane infantili estati,
per chi sognava l’amore
per chi piangeva l’infanzia,
Sei arrivata,
un caldo pomeriggio nei viali
sotto un ombrellino bianco
con un’aria stupita, seria,
un po'
sospesa come la mia infanzia,
con un ombrellino bianco.
Sorpresa del tutto
insperata per essere venuta ed essere bionda,
d’esserti messa
d’improvviso
sul mio sentiero,
e subito regalare la freschezza delle tue mani
e nei capelli tutte le estati del Mondo.
La biografia con le parole di Jacques Rivière
Un’aula scolastica di Épineuil-le-Fleuriel ai tempi del Grande Meaulnes. Dal 1991 la scuola è un museo (F.to. G. Savino)
Il cortile e la scuola-museo di Épineuil-le-Fleuriel dove visse coi genitori, insegnanti, Alain-Fourier (f.to G. Savino)
Il critico letterario Jacques Rivière conobbe Alain-Fournier nell’adolescenza e ne sposò la sorella, Isabelle, nel 1909. Introducendo Miracles, scrive: «Sono il solo ad averlo davvero conosciuto. Abbiamo legato al liceo Lakanal, dove eravamo entrati nell’ ottobre 1903 per prepararci all’Ecole Normale Supérieure. Avevamo la stessa età, diciassette anni. L’amicizia non fu immediata né si avvicinò senza peripezie». Rivière descrive lo scrittore animato da un forte spirito di indipendenza che più tardi «attribuì a Meaulnes» e che lo portò a prendere il comando di un gruppo di ribelli contro l’istituzione scolastica e le sue gerarchie. Nondimeno Alain-Fournier si confidava (l’incontro tra i due avvenne a Parigi): «parlava del suo paese con passione. Era nato alla Chapelle-d’Angillon, un piccolo capoluogo dello Cher, a una trentina di chilometri a nord di Bourges, sui confini della Sologne e del Sacerrois, nel centro della Francia. Ma era soprattutto di Épineuil-le-Fleuriel, un ancora più piccolo villaggio, situato all’estemità opposta del dipartimento, tra Saint-Amand e Montluçon, dove i genitori furono a lungo insegnanti e dove aveva trascorso l’infanzia, che mi faceva lunghe descrizioni entusiaste da innamorato. Vedevo la sua vita di giovane contadino in questa campagna priva di pittoresco, lenta, pura e ricca e di cui la sua anima era intrisa.» Per Rivière il mondo dell’amico si concentrava in ciò che aveva scoperto dalle finestre della scuola di Épineuil. Ma nonostante tante diversità i due finiranno col comprendersi profondamente. Dal punto di vista letterario, secondo Rivière, la loro giovinezza era immersa nel clima del simbolismo: «Un clima spirituale – scrive ancora il critico- un luogo di delizioso esilio, o di rimpatrio piuttosto, un paradiso. Tutte quelle immagini che oggi spenzolano sbrindellate e flosce, ci parlavano, ci circondavano, ineffabilemte ci accompagnavano.»
Gli altri libri postumi
Il nome anagrafico dello scrittore era Henri Alban Fournier (3 ottobre 1886-22 settembre 1914). F.to wikimedia
Alain-Fournier morì nel 1914 in una delle prima battaglie nei pressi di Verdun. Il suo corpo venne identificato solo nel 1991 in una fossa comune tedesca. Dopo Il grande Meaulnes aveva continuato a scrivere. Ha lasciato incompiuta una commedia e un altro romanzo intitolato Colombe Blanchet. Proprio Jacques Rivière, che è stato il curatore dei brani sparsi di Miracles, risulta coautore della una cospicua corrispondenza con Alain-Fournier editata nel 1925. Nel tempo si sono aggiunti a questo primo carteggio quelli con la famiglia e con un’amante, Pauline Benda, un’attrice nota alle scene come Madame Simone: le loro lettere sono state pubblicate nel 1992 da Fayard: Alain-Fournier, Madame Simone, Correspondance 1912-1914.
Jack Kerouac e la fortuna del grande Meaulnes
Il ruolo dell’amico Rivière, prima redattore e poi direttore della Nouvelle Revue Française, fu cruciale per far conoscere Il grande Meaulnes. Il romanzo, come detto, uscì sulla Nrf a puntate e, nello stesso anno, in volume, sollevando immediatamente grande interesse. Non si conosce il numero di edizioni fatte dopo la comparsa dei “tascabili” all’inizio degli anni Sessanta. L’opera ha influenzato il Salinger autore di un altro romanzo-culto e di formazione, “Il giovane Holden”. Certamente ha affascinato Jack Kerouac che infila una copia del Grande Meaulnes nel bagaglio del protagonista di “Sulla strada”, Sal Paradise: unica scorta letteraria del suo viaggio. Forse inaspettatamente per un’opera del primo Novecento, i critici Robert Baudry e Francine Mora-Lebrun hanno messo in evidenza come il tema centrale riprenda la La Quête du Graal. Perceval e Gaalad in questa lettura sono gli antesignani di una ricerca di perfezione dell’anima che Agostino Meaulnes e François incarnano con altre vesti; Baudry ha parlato esplicitamente di “un romanzo iniziatico” in cui è l’ideale ad essere il vero oggetto dell’itinerario dei moderni cavalieri. Ma al di là dei parallelismi, delle simbologie, degli affondi nel corpo della storia letteraria, il cuore della seduzione esercitata della scrittura di Fournier prende in prestito l’atmosfera della leggenda per farne un capolavoro della modernità con una scrittura limpida, capace di raccogliere in ogni pagina quella visualità che immerge il lettore in un altro spazio. Per non dire dell’incipit dove nostalgia e mistero ci prendono subito per mano pronunciando quasi sommessamente una promessa:
«Arrivò a casa nostra una domenica del novembre 189… Dico sempre “casa nostra”, anche se la casa non è più nostra. Abbiamo lasciato il paese da quasi quindici anni e certo non ci torneremo mai più.»
Ambientato nel 1980 Il passeggero è un libro autonomo e al medesimo tempo un libro che dialoga con l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Stella Maris. Il protagonista è Bobby Western, un uomo che vive nel Mississippi, fa il sommozzatore ed ha un legame affettivo strettissimo con la sorella, Alicia, una matematica afflitta da una forma di psicosi. Sarà quest’ultima il personaggio centrale della seconda parte della dilogia. Come ci si può attendere da McCarthy, la narrazione scava nell’interiorità di queste due figure interpellando la loro storia, il loro destino attraverso un movimento narrativo che alterna il presente al passato, la figura del protagonista a quella della sorella, ricoverata in una clinica psichiatrica. Tuttavia il plot narrativo è strutturato intorno a un accadimento esterno dal momento in cui Bobby Western trova un aereo incagliato nei fondali della costa del Mississippi con nove cadaveri. Poco oltre si scopre che non solo manca la scatola nera del velivolo, ma anche un decimo passeggero. E che forse questo ritrovamento non è gradito a tutti poiché Bobby sarà seguito giorno per giorno da due funzionari del governo che, come nei serial più ovvi, si tengono distanti ma seguono le mosse del protagonista. Tanto basta perché Bobby si decida a far perdere ogni traccia di sé… Tanto è bastato, ugualmente, perché si parlasse di un thriller di Cormac McCarthy anche se la definizione è metaforicamente possibile quanto fuorviante rispetto al genere.
Due tempi narrativi
Il romanzo avvicenda dunque due tempi narrativi fin dalle prime pagine. L’incipit è tagliente e lirico insieme come sa esserlo la pagina di questo scrittore. Si inizia con la scena del ritrovamento del corpo di Alicia impiccato in una boscaglia nevosa e con un dialogo allucinatorio tra la sorella del protagonista e Talidomide Kid, personaggio fittizio che prende il nome dello psicofarmaco (appunto il Talidomide), responsabile in passato di danni diversi, come la nascita di bambini con malformazioni. Ma per tornare alla prima pagina, ecco l’avvio:
Nella notte era scesa una leggera nevicata e i suoi capelli ghiacciati erano aurei e cristallini e i suoi occhi gelidi e duri come pietre. Uno degli stivali gialli le si era sfilato e spuntava dalla neve sotto lei.
Un inizio collocato nel passato (e contrassegnato nel romanzo dalla scrittura in corsivo) che ha una brusca cesura al terzo capitolo dove l’autore non indugia entrando allo stesso modo in medias res nel presente del narratore: «Sedeva avvolto in una delle coperte di salvataggio grigie contenute nella borsa di pronto soccorso e beveva tè bollente. Intorno sciabordava il mare scuro.» Uno scorcio che racconta altre morti con il ritrovamento dell’aereo nei fondali. Da qui ha inizio quella che diventerà la lunga fuga del protagonista.
Il mondo de “Il passeggero”
Il vagabondaggio, la marginalità, sono elementi costitutivi dell’opera di Cormac McCarty che trovano l’espressione più estrema nel romanzo La strada ma, diversamente da quanto avviene altrove, qui, e con grande maestria, il percorso del protagonista è costantemente accompagnato dalla riflessione attraverso una fitta serie di dialoghi. Incontri on the road che si succedono sulla strada della fuga chiamando in causa personaggi inconsueti come uno studioso di storia della fisica (il padre di Bobby e Alicia è stato un fisico) e un travestito, che intrecciano speculazioni metafisiche sull’essere e il non essere, puntualmente calate e alleggerite dai registri di una conversazione serrata ma essenziale. L’autore, che il celebre critico Harold Bloom, ha messo in vetta alla narrativa contemporanea statunitense, scrivendo che Meridiano di sangue è stato il miglior esito del romanzo americano «dai tempi di Faulkner», si concede dunque una digressione dalla propria poetica. Il tema dell’eredità della storia umana (ciò che non è stato scritto, dice a un tratto un personaggio, non è mai avvenuto, «la storia è una collezione di carta») si intreccia allora con altri vettori di pensiero – nell’accezione latina più stringente – inerenti tanto l’essere al mondo quanto al linguaggio simbolico.
Chi tuttavia pensasse di trovarsi di fronte a un meditabondo congedo dello scrittore – morto lo scorso giugno a 90 anni – sbaglierebbe di grosso. La pagina di McCarthy conserva una energica vitalità, come accade raramente di leggere: nelle scene come attraverso i lunghi colloqui dove lo scrittore semina ombre e frammenti dei suoi personaggi. Con Stella Maris, in fase di pubblicazione, il lettore completerà il dittico a breve.
François Morane
Corman McCarthy, Il passeggero, trad. Maurizia Balmelli, pp. 385, Einaudi, 2023; euro 21,00
Non si sono mai lette, né viste, tante storie. Un romanzo di successo propone una versione digitale, un film, un serial, qualche volta un fumetto o un gioco, oppure ancora un parco, due, tre parchi tematici come è accaduto per la saga di Harry Potter. Una storia di successo può essere tradotta nel giro di pochi giorni o contemporaneamente al lancio in più lingue e può persino avvenire che le traduzioni siano oltre cinquanta. E’ quindi cruciale la domanda che si pone Giuliana Benvenuti nel saggio introduttivo al libro da lei curato, La letteratura oggi. Romanzo, editoria, transmedialità, edito da Einaudi nella collana Pbe: quale funzione riveste oggi la letteratura? E inoltre: c’è una relazione di continuità con la tradizione? Un interrogativo che ci mette subito di fronte a una seconda questione: la letteratura è ancora conoscenza critica e condivisione dell’esperienza umana e storica, oppure è divenuta intrattenimento? Il saggio risponde che la linea di demarcazione tra i due volti prefigurati è meno netto di quanto si possa pensare. Ma al di là dell’elaborazione critica il libro è anche una antologia di “casi”, una esplorazione nel cuore delle lettere e del mercato editoriale e digitale del nuovo millennio che presenta una sequenza di undici saggi dedicati ad altrettanti autori e al loro successo: José Saramago, Umberto Eco, Salman Rushdie, Murakami Haruki, Stephen King, J.K. Rowling, Michel Houellebecq, Margaret Atwood, Orhan Pamuk, Elena Ferrante.
Qui comincia l’avventura
Tra il 1960 e il 1980 il mercato statunitense (qui preso come unità di misura delle trasformazioni dell’editoria avvenute in occidente) si registrarono 573 fusioni e acquisizioni che alla fine comportarono il dominio di 15 grandi aziende con il 72,4 per cento delle proprietà del settore. Editori come Schiffrin e Epstein contestarono più tardi che fino agli anni Cinquanta l’editoria faceva ricerca di qualità dando corpo a una missione culturale, mentre alla fine del ‘900 ogni sforzo è stato concentrato sul profitto. Ad ogni passo i grandi editori di oggi invocano le leggi del “mercato”, cercando persino di dare un’immagine democratica alle politiche speculative con la scusa che il pubblico deve scegliere quel che vuole. Ma se queste sono le motivazioni sempre in corso (in fondo anche il feuilleton era un media popolare a basso costo per tutti), il discrimine intervenuto alla fine del Novecento è ovvio: la nascita di piattaforme digitali dedicate, la brandizzazione degli autori di culto, cioè il corrispettivo dello star system del cinema, gli investimenti fatti sull’ebook.
Giuliana Benvenuti scrive: «Se prima del 1980 la lista del titoli più venduti vedeva ancora la letteratura “alta” accanto alla fiction popolare, attorno a quell’anno cominciò a essere dominata da un piccolo gruppo di autori il cui nome assomigliava sempre più a un brand: Tom Clancy, Michael Crichton, John Grisham, Stephen King, Danielle Steel e altri.» La comparsa di internet nel decennio successivo trasformò e moltiplicò il carattere remunerativo degli investimenti. Il caso emblematico è quello di Scribner che in una joint venture con la casa editrice di Stephen King (Philtrum Press) pubblicò nel marzo del 2000 il racconto Passaggio per il nulla in formato ebook, disponibile per 2, 50 dollari, una piccolissima somma che del resto per gli editori comportava solo oneri contrattuali. «Nelle prime ventiquattro ore dalla messa in rete fu scaricato 400.000 volte, toccando le 600.000 copie elettroniche nelle prime due settimane.» Nel giugno dello stesso anno il pubblisher, ovvero l’agente di King, annunciava che lo scrittore stava scrivendo un altro testo destinato all’ebook, ma a puntate, e senza alcuna mediazione editoriale chiedendo ai lettori un’offerta qualsiasi. La prima puntata fu scaricata 152.132 volte nel corso di una settimana.
Il corollario della pubblicazione digitale è che l’offerta è condizionata oltre che dai nomi brandizzati, dai gusti e dalla preparazione letteraria dei “clienti”. La stessa offerta on line è dominata di pari passo da libri stampati e digitalizzati da scrittori improvvisati. Nel gennaio 2015 il 40% dei ricavi di Amazon (che su questa strategia è stata la prima azienda a investire in maniera cospicua) «provengono dalla vendita di ebook di self-published authors». In certo modo lo stesso accade con le piattaforme digitali e per quello che costituiva il setaccio critico, il giudizio di valore. Mentre scomparivano le costose pubblicazioni cartacee si sono fatte strada quelle su internet, dove è cospicua la percentuale “amatoriale”, cioè di appassionati di letteratura (non è il nostro caso; chi scrive qui lo ha fatto e fa di professione) o di redattori di pubblicità promozionale collocati in vari contesti. Ma almeno su una circostanza, il bilancio è positivo: diversamente da quanto si temeva il digitale non divora affatto la letteratura cartacea.
I nuovi media e le star
Al di là degli esiti popolari, la globalizzazione modula anche le scelte tematiche: un successo comporta il tentativo da parte di altri autori e produttori di replicarlo in tempi stretti con un effetto di serializzazione dei contenuti. Il caso più eclatante di diffusione dei prodotti culturali, è quello della nascita di Bollywood, nome affibbiato ironicamente al cinema popolare indiano, mentre in ambito letterario valga per tutti la serializzazione dei generi e la contaminazione tra visualità e scrittura. Il contrappasso di questo scenario avrebbe dato luogo, secondo una tesi, al fenomeno letterario dell’autofiction. Benvenuti cita The conglomerate Era di Sinykin dove si ipotizza che i conglomerati di media abbiano creato un perenne stato di ansia autoriale. Gli scrittori, decisi a richiamare la centralità della loro funzione di fronte ai vari compromessi e alle negoziazioni, avrebbero cioè dato luogo a un nuovo approccio tematico, facendo dell’autore e dei rapporti con gli editori, gli agenti, i promotori, un nuovo genere letterario di non fiction: saggi in prima persona e memoir. Altrettanto problematico è l’effetto della trasmedialità sul canone letterario su cui, peraltro, il saggio non insiste ricordando che «Non è facile abbandonare il paradigma modernista che stabilisce un’equazione tra valore e originalità, intesa anche come continua ricerca della novità, con il corollario di una vera e propria lotta con la tradizione letteraria illustre, sempre richiamata ma sempre avvertita come minaccia».
La mappa e i numeri dei successi: in principio fu Umberto Eco
La selezione degli scrittori di successo la cui opera ha avuto un ventaglio di esiti mediali ha tenuto conto soprattutto degli autori di rilevanza letteraria e critica cominciando con un caso-limite, quello di José Saramago, scrittore per il quale il Nobel e il successo internazionale erano tutt’altro che iscritti nel tempo. Una sorta di premessa temporale che immette in una esperienza ugualmente lontana ma condivisa, vale a dire le autofinzioni di John Maxwell Coetzee (di Chiara Lombardi) e in maniera più importante – rispetto al tema del dialogo tra media – nell’avventura di Umberto Eco ( nella f.to sopra) con Il nome della rosa raccontanta dal saggio di Beniamo Della Gala. Il romanzo di Eco è edito nel 1980; nel 1981 e ’82 ottiene i premi Strega e Médicis, il New York Times lo include nell’ ’83 nella sua prestigiosa lista di “Scelte editoriali”. In Italia permane per 170 settimane nelle classifiche dei romanzi più venduti, negli Usa per 23. Il nome della rosa viene tradotto in 50 lingue e nel corso degli anni sono state vendute 55 milioni di copie. Il libro avrà due nuove edizioni nel 2012 e nel 2020: la prima con disegni dell’autore, la seconda con gli appunti che accompagnarono la scrittura. A parte il film di successo di Jean-Jacques Annaud nel 1986, nel 2003 il plot di Eco diede luogo a un nuovo bestseller popolare, Il codice da Vinci di Dan Brown nel 2003, mentre il successivo libro di Eco, Il pendolo di Foucault, nonostante traduzioni e vendite non ottenne neppure lontanamente un successo analogo. Ma si crearono videogiochi ispirati ai personaggi (Murder in the abbey, 2008), serial, un adattamento radiofonico, un audiolibro. Milo Manara su Linus creò un fumetto a puntate ispirato alla storia, parodie vennero pubblicate da Topolino; Zagor, un altro fumetto, ospitò nel 1992 L’abbazia del mistero. Di nessun successo fu invece il serial in inglese di Turturro ed Everett.
Stephen King, un brand da 600 milioni di dollari
Umberto Eco nel momento in cui scrisse il suo primo romanzo era un semiologo e un saggista affermato. La sua diversione nella fiction sorprese. Viceversa Stephen King (di cui ci parla Massimo De Angelis) nasce come uno scrittore isolato il cui primo libro, Carrie, nel 1974 non ottiene grande attenzione finché due anni dopo non ne fa un film Brian De Palma. Tra il ’77 e il 1984 King pubblica cinque romanzi di cui quattro scritti in precedenza con lo pseudonimo di Richard Bachman che otterranno attenzione solo dopo la scoperta dell’autentica firma autoriale. Come Eco e diversamente da Eco, King è comunque il prototipo dell’autore-brand. Tra libri e versioni transmediali è titolare di un’attività il cui valore, nel 2022, è stimato in 600 milioni di dollari. I suoi soli romanzi hanno venduto 350 milioni di copie.
J.K. Rowling: come vendere 500 milioni di copie
La copertina della prima edizione di Harry Potter; il volume che conteneva alcuni errori tipografici è stato battuto all’asta per 250 mila dollari. Sotto il titolo uno dei giochi ispirati alla saga
La saga di Harry Potter, sette romanzi editi tra il 1997 e il 2007, sono attualmente il fenomeno letterario più cospicuo, redditizio e globale di tutti i tempi. E come scrive il saggio di Marina Guglielmi, Rowling «è lo scrittore più ricco del mondo». I suoi romanzi sono tradotti in più di 80 lingue e ad oggi le copie vendute si aggirano su 500 milioni, più di quanto non accade per tutta la corposa produzione di King. Dopo i romanzi della saga sono usciti tre libri che costituiscono la Hogarts Library, cioè i manuali scolastici usati dalla scuola di magia di cui ci racconta la storia di Harry Potter a cui si aggiunge una raccolta di racconti e una saga dedicata agli animali fantastici. Guglielmi prende nota ugualmente del vasto mondo trasmediale interessato al fenomeno: adattamenti cinematografici, un sequel in forma teatrale, tre prequel, giochi da tavolo, videogames, musical, due siti web, tre parchi a tema, uno Studio Tour della Warner Bross a Londra, negozi di marchandise. I fan hanno pubblicato diversi libri ispirati al mondo di Harry Potter così come sono state prodotte opere d’arte, brani musicali, canali dedicati e associazioni (compreso il sodalizio sportivo di Quidditch). Ogni anno si hanno eventi, e conferenze ospitate da college e università. Gugliemi traccia inoltre il profilo delle narrazioni parallele che tra web e carta stampata hanno seguito parallelamente l’autrice: la madre sola e indigente, la passione letteraria della Rowling, il viaggio in treno da Manchester a King’s Cross nel 1990 dove la saga di Potter le appare «come un’epifania» e i rifiuti degli editori con il seguito di una prima tiratura del primo romanzo di 500 copie. Infine l’acquisto dei diritti da parte della casa editrice americana Scholastic a un prezzo importante, precedentemente mai pagato per un libro che doveva essere destinato ai bambini.
Houellebeck, lo sfregio alla correttezza liberal dell’Occidente
La transmedialità richiamata dal libro di Giuliana Benvenuti si rispecchia evidentemente in maniera diversa, più o meno evidente, rispetto non solo ai tempi storici più o meno digitalizzati ma anche in relazione ai caratteri delle opere e alla ricezione. Sia Coetzee, sia Michel Houellebecq partecipano alla ricerca sotto profili sensibilmente diversi, così come accade per Margaret Atwood, Haruki, Pamuk e Ferrante. Il caso di Houellebecq, autore esordito con un saggio su Lovercraft e una raccolta di poesie, e divenuto celebre con romanzi destinati in principio a pochi intellettuali, non può evidentemente dar luogo a un impatto paragonabile a quello della Rowling. Un dato economico per tutti: i libri dello scrittore de Le particelle elementari e Sottomissione si aggirano sui 5 milioni di copie. Il saggio di Filippo Pennacchio richiama il successo su diversi mercati internazionali, i premi Impac e Goncourt, le versioni cinematografiche ma è chiaro che la prosa di Houellebcq nasce con un crisma autoriale alla vecchia maniera (come per Saramago): lo scrittore provoca i contemporanei, non accetta i diktat del costume intellettuale sul “politicamente corretto”, interseca con i suoi romanzi tematiche diverse: la perdita di valori nel mondo liberista, la cancellazione di identità e tradizioni mentre i suoi protagonisti (percepiti come alter ego dell’autore) avanzano richieste libertarie. E non basta. La narrativa di Houellebecq ha un versante distopico dove si delinea un futuro di clonazione dell’essere umano, di sessualità avulsa dall’identità, di disvalori. Ma è aleatorio chiedersi se al suo successo contribuisca la “scrittura bianca” barthesiana in un paesaggio letterario in cui la lingua narrativa è comunque orientata verso la lingua denotativa d’uso o a una “classicità” senza fisionomie ritagliate (per confronto si potrebbe citare tanto Gadda quanto Nabokov, tanto Tondelli quanto il Saramago qui convocato). Certo non sono estranei al successo dell’autore francese, come racconta con dovizia Pennacchio, le circostanze storiche. Non solo la sicumera del politicamente corretto e del “futuro che avanza” con i suoi corollari legati agli interessi di capitale ma alcuni episodi in particolare: nel 2001 esce Piattaforma dove si racconta di un poderoso attentato islamico in un villaggio turistico e pochi giorni dopo avviene l’attentato alle Torri Gemelle; il 7 gennaio 2015 compare Sottomissione e nello stesso giorno un altro attentato islamico colpisce la sede del settimanale Charlie Hebdo, reo di aver offeso Maometto con le sue vignette satiriche. In breve «il romanzo e il suo autore si ritrovano al centro di infinite polemiche sulla libertà di espressione, sull’idendità nazionale, sui conflitti religiosi e culturali che attraversano il presente.» Se Houellebecq è considerato tra gli autori più lucidi di oggi, nondimeno al successo hanno contribuito le sue provocazioni, come l’articolo “Trump è un buon presidente” o la sua stessa immagine pubblica: scarmigliato, con una sigaretta perennemente fumante tra le mani, vestiti casual stazzonati.
Una postilla
L’intelligente scelta della curatrice di convocare esperienze letterarie tanto diverse ma convergenti sulle valenze economiche, sociali e strumentali, richiama un ulteriore aspetto esterno agli interessi degli autori ma non eludibile: dalle allegorie di Saramago, alle distopie di Houellebecq passando dai mondi medioevali, gotici e fantastici di Eco, di Stephen King e dalla Rowling, dall’alterità evocata in molte opere di Murakami Haruki, all’ambientalismo di Atwood, si disegna una letteratura che delega all’immaginario due movenze opposte: lo scantonamento dal presente o la polemica con il presente. Una dualità convergente e sulla quale la transmedialità capitalizza attraverso quello che Barthes avrebbe sicuramente definito “il piacere del testo”. Finora questa dialettica non ha avuto sintesi. Per dirlo con Murakami abbiamo il nostro mondo e il mondo “altro”.
Marco Conti
Giuliana Benvenuti (a cura di), La letteratura oggi. Romanzo, editoria, transmedialità, pp. 332, Einaudi Pbe, 2023; euro 24,00
Il manoscritto recuperato con altre migliaia di carte era stato trafugato dall’abitazione di Céline nel primo dopoguerra
Il 17 giugno 1944 Louis-Ferdinand Céline decide in fretta e furia di lasciare Parigi, ormai prossima alla liberazione, per scappare in Germania con la moglie Lucette e il suo gatto. E’ già autore di due tra i più notevoli romanzi europei della prima metà del secolo: Viaggio al termine della notte, nel 1932, e Morte a credito, nel 1936. Il punto è che, nella sua rabbia contro il mondo e gli uomini, ha scelto di schierarsi sia contro la guerra, sia con la Germania e non solo: è autore di tre pamphlet che incolpano ebrei, capitalisti e comunisti del degrado della Francia. Abbandonando la sua casa , Céline (il nome d’arte è stato mutuato da quello della nonna: lo scrittore all’anagrafe è Louis-Ferdinand Destouches) lascia dietro sé un’enorme quantità di manoscritti che rivendicherà fino all’ultimo giorno senza poter mai entrarne in possesso. Dopo essere scappato ed essere stato catturato in Danimarca, dove sconterà la prigione per collaborazionismo, sarà di ritorno in Francia nel ’51, ma non scoprirà mai come reperire gli scritti rubati, a quanto pare quindicimila fogli. Né lo potrà fare l’erede degli inediti, la moglie, che morirà solo nel 2019, a 107 anni.
Il mistero si risolve però nello stesso anno. Un giornalista di “Liberation”, Jean-Pierre Thibaudat, rivela di essere stato per oltre vent’anni il possessore degli inediti avendo ricevuto i manoscritti da un combattente della resistenza francese, Yves Morandat che, nell’affidarglieli, aveva preteso il segreto fino alla morte della vedova Celine. Non voleva forse che i testi fossero usati politicamente dai movimenti di destra e del resto si trattava di materiali trafugati indebitamente.
E’ così che Guerra – cronologicamente una premessa autobiografica del Viaggio al termine della notte – diventa un eclatante caso letterario, oggi proposto nella versione italiana di Ottavio Fatica edita da Adelphi, a tre anni di distanza da quella originale. Fin d’ora si sa che a Guerra seguirà un altro romanzo inedito, Londres (giù stampato in Francia l’anno scorso da Gallimard) e una più ampia versione di Casse-pipe. Una storia, quella degli inediti ritrovati, che parrebbe fatta per essere scritta da Céline…Benché il finale della vicenda, tutto sommato edificante, non avrebbe forse convinto l’ autore che, sul genere umano, nutriva la più sconfortante sfiducia spinta fino alla soglia della paranoia o del nichilismo.
Il romanzo
«Sarò rimasto lì ancora una parte della notte dopo. A sinistra tutto l’orecchio era appiccicato a terra con il sangue, la bocca pure. Fra l’uno e l’altra un rumore immenso. In quel rumore ho dormito e poi è piovuto, pioggia di quella fitta fitta.»
Un incipit che restituisce immediatamente la voce di Céline: il monologo in prima persona come in tutti i romanzi di Céline, il colloquio intimo in argot. Lo scrittore torna idealmente indietro nella propria autobiografia rispetto alla vicenda di Viaggio al termine della notte dove il protagonista è un medico che, dopo aver preso parte alla prima guerra mondiale, si imbarca su una nave diretto nelle colonie. Con Guerra Céline ferma l’attenzione sul momento in cui rimase ferito durante un’azione militare e sopravvisse, unico della sua pattuglia, restando per ore sul terreno prima di tentare di tornare, ferito, nelle retrovie. La narrazione si sposta quindi nell’ospedale in cui viene ricoverato dove prende corpo ancora una volta la visione di un’umanità sofferente e grottesca, tra derelitti, canaglie, bugie, perbenismo di maniera. Anche nelle corsie ospedaliere di sofferenti e moribondi c’è in sostanza lo spettacolo infimo che lo scrittore ha sempre paventato con furfanti che cercano di trarne qualche guadagno, con la pietà e l’eros incarnati dell’infermiera L’Espinasse. Figura estrema anche questa che offre il piacere della masturbazione anche ai moribondi. Il timbro è quello consueto, inconfondibile, di una voce sardonica, a tratti grottesca nell’impasto di tragedia e humor nero. Emozioni e piccolezze sono raccontate con un linguaggio basso ma capace di ritagliare scorci lirici: «Guardavamo i giardini, gli alberi sopra i muretti di mattoni. In cielo c’erano grasse cannonate e poi anche grasse nuvole tutte rosa e tutte pallide», scrive quando, con un commilitone, riesce a uscire dall’ospedale dove è ancora degente senza farlo sapere agli altri ricoverati.
La medaglia al caporale Céline
Il caporale Céline, nella realtà come in questa prosa, sarà insignito di una medaglia. E dire che, interrogato da un ufficiale durante il ricovero ospedaliero, temeva di finire davanti al plotone di esecuzione. Ma così come ogni accusa sarebbe stata demenziale, per il caporale è demenziale anche il premio ricevuto e il suo corollario, con commilitoni e genitori emozionati per l’onore che dà lustro alla famiglia:
«Mio padre era come paralizzato. Di punto in bianco ero diventato qualcuno. Ne parlavano già tutti al passage des Bérésinas della mia medaglia, dicevano. Mia madre aveva la lacrimuccia, la voce commossa. A me però mi dava pure il voltastomaco.»
Céline avrebbe voluto invece che finisse il frastuono, il rumore di fondo incessante che avvertiva nella sua testa, uno sferragliare dovuto all’esplosione di un ordigno che lo aveva scagliato contro un albero e colpito alla testa. Ma se il corpo, la precarietà che vi è inscritta, sono una costante in queste pagine, lo stesso vale per l’eros e per il fragilissimo velo di ragioni morali. La narrazione, in principio del tutto filtrata dalle preoccupazioni del protagonista, sposta poco a poco il baricentro verso la vita dell’ospedale, l’amicizia con il vicino di letto, Cascade (in principio nel manoscritto chiamato Bébert, come il gatto dello scrittore!), i traffici e il lenocinio della moglie di quest’ultimo con i soldati inglesi acquartierati nella cittadina, riuscendo fino alla fine a mantenere viva la sospensione tra i personaggi e le loro sorti.
Nella premessa François Gibault osserva che il manoscritto era una prima stesura; il testo avrà la sua naturale continuazione con il romanzo già citato, Londra, concomitante peraltro con la tappa successiva della vita reale di Celine.
François Morane
Louis-Ferdinand Céline, Guerra (a cura di Pascal Fouché), pp. 156, Adelphi, 2023; euro 18,00
Salerno Editrice pubblica un’ampia edizione critica di “Cadenza d’inganno”, libro-chiave che riunì 17 anni di vita del poeta lombardo
Parler de loin, ou bien se taire…L’invito di La Fontaine messo in epigrafe da Giovanni Raboni alla prima raccolta di poesie, “Le case della Vetra”, non è mai stato così dissonante rispetto alla moneta corrente del XXI secolo. Ma quella nozione formale di poesia è stata la cifra più vistosa dell’opera di Raboni e la si apprezza ancora meglio oggi, con la vasta edizione critica del suo secondo libro, in origine pubblicato nel 1975: Cadenza d’inganno, curato da Concetta di Franza per Salerno Editrice con la prefazione di Giancarlo Alfano. Understatement che si apprezza tanto più nelle pagine di un libro composito che innesta continuamente privato e pubblico, motivazioni intime e le denunce degli anni brucianti della contestazione sessantottina: la morte dell’anarchico Pinelli, il sospetto che si allunga sulla stessa figura intellettuale e borghese di Raboni, sia da parte dell’apparato di potere, sia rispetto all’ideologia giovanile dominante nella piazza.
“Parlare di sé da lontano, oppure tacere” dunque. Raboni aprì Cadenza d’inganno con una sezione dedicata alla memoria della madre in cui il tema della morte (che contrassegna un parte significativa di tutta l’opera dell’autore) è visitato attraverso scorci che parrebbero neutri e stranianti e dunque destinati a rendere ancora più forte il sottaciuto attraverso scene indirette. Un esempio flagrante è il testo “Amen” dove la memoria è rievocata con le immagini prosaiche degli spazi di un appartamento: «Quando sei morta stavamo/ in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio/ da vendere per pianerottoli e scale./Dunque non t’è toccato di passare/ di spalla in spalla per angoli e fessure,/ d’essere calcolata a spanne, raddrizzata/ nel senso degli stipiti/. Sparire/ era più lento e facile quando sei sparita.(…)». Il registro, l’uso di locuzioni colloquiali, concordano con la scena dimessa, così come la conclusione del testo, formalmente distante ma feroce sul dolore della morte, quando rivolgendosi alla stessa morte pronuncia: «Scendi a pianterreno/ come ti pare (…) liberaci dall’estetica e così sia».
Pubblico e privato
Concetta di Franza mette in evidenza la struttura trasversale del libro che riunisce 17 anni di vita e percorre momenti diversi. Tuttavia in diverse occasioni gli ambiti, osserva la curatrice, gli tematici convergono. Così accade nella seconda sezione del libro, “Economia della paura”, articolata su tre prose dove il concetto di “economia” allude alla sorveglianza politica e contemporaneamente ai sospetti, alla complicità di due amanti durante una conversazione. Mentre il tema politico sarà vivo in un’altra intensa pagina prosastica, “Partendo da Boulevard Berthier” (che richiama un momento dei moti piazza parigini del ’68 in cui morì uno studente) , anche la storia amorosa sarà nuovamente voce lirica con i versi di “L’intoppo” : testo che stesso Raboni commentò in una intervista fatta dalla curatrice nel 2004 e poi pubblicata sulla rivista “Italianistica”. Il poeta definì questa parte del libro il «diario di una storia ancora in corso», vale a dire la vicenda di un amore clandestino «un po’ tumultuoso». Ecco allora il verso più spiccato ma ugualmente pronunciato con informale disinvoltura in “Cosa”:
Mi chiedi «cosa ti piace di me, cosa
più del resto». Una volta per ridere
ho detto il cappellino. Però pensando
la schiena, le ginocchia; e al labbro di sopra che quasi
non tocca quello di sotto: e come
s’impenna liquido, scatta il tuo profilo.
Ma ancora di più la faccia che non sai d’avere
dopo aver fatto l’amore, netta per saliva e sudore,
a una calma che c’era rifiorita.
Lo stesso timbro lo si ascolta con alcuni incipit che simulano un discorso intrapreso e l’inciso dell’espressione parentetica proprio come accade nei colloqui più informali: «Dei rimproveri che mi fa (certi/ non li discuto/ ce n’è uno quando arriva che fa/ male come il freddo sulle dita)» in “Le volte”.
Non solo nell’architettura del libro ma in un medesimo testo accade che Raboni unisca storia e quotidianità attraverso la stratificazione del vissuto, come in “Notizie false e tendenziose” dove l’unica certezza è quella evocata dall’esergo di Mandel’stam, ovvero che «il potere è ripugnante come le mani di un barbiere». Da qui si direbbe provenga la dialettica tra denuncia e puntuale complementare percorso tra le mura domestiche, gli amori e le occasioni affettive:
Il perito settore dice che le ferite
non sono incompatibili con la meccanica di
una caduta dall’alto. Il giornale conclude
che dunque il morto si è suicidato.
La lingua referenziale del verso conta qui solo sulla sintesi ellittica (il soggetto politico è quello di Pinelli precipitato nel cortile della questura) portando all’estremo una poetica che solo negli ultimi anni avrà un deciso contraltare con “Quare tristis”, dove rivive il metro del sonetto. Una parentesi. Poi, più estesamente di quanto non faccia Cadenza d’inganno, “Barlumi di storia” nel 2002 tornerà a prendere in consegna il tempo collettivo: e questa volta la voce lirica del verso avrà la distanza del distacco. Ricordando Pasolini che parlava della bellezza dell’Italia durante il fascismo, Raboni scriverà: «Il punto/ è che è tanto più facile/immaginare d’essere felici/ all’ombra d’un potere ripugnante/ che pensare di doverci morire.» Come non dargli ragione…
Marco Conti
Giovanni Raboni, Cadenza d’inganno (a cura di Concetta di Franza), pp. 325, Salerno Editrice, 2023; euro 42,00
Con “Brick for stone”, Alessandro Barbero immagina un thriller che accompagna l’attentato alle Torri Gemelle di New York
«Poi sentirono di nuovo urlare la folla, ma come non aveva mai urlato finora, e si volsero a guardare laddove guardavano tutti. Una delle due Torri non c’era più. L’altra continuava a bruciare, come bruciava da più di un’ora, vomitando fiotti di fumo infernale.» L’immagine è vivida e il finale dell’ultimo romanzo di Alessandro Barbero, Brick for stone, è noto: le Twin Tower crollano e sembrano svanire nell’aria.
Il circo dei mostri
La narrazione termina, quindi, con l’attentato dell’11 settembre 2001 e cosa racconta? Racconta i mesi precedenti, durante i quali una squadra organizzata dall’agente della CIA, Harvey Sonnenfeld, indaga, cerca indizi, formula ipotesi. I consulenti di Harvey sono un ingegnere russo, Grišunja, esperto in attentati; uno studioso di frasi offensive e graffiti osceni, il prof Kosellech; il direttore del Mc Donald’s del centoduesimo piano della Torre Nord, Francy Flores; lo scacchista Bobby Fischer. Le scelte di Harvey sono a dir poco discutibili tanto che i suoi colleghi definiscono questo gruppo mal assortito “il circo dei mostri di Sonnenfeld”. La Ditta, come la chiama Harvey, è a conoscenza di un possibile attentato a New York, a Manhattan, ma non ne conosce modalità e tempistiche; pertanto, l’agente ottiene i finanziamenti necessari e sguinzaglia i suoi uomini. Il loro compito consiste nell’andare in giro per l’isola osservare ed ascoltare e, soprattutto, riferire ogni deduzione, ogni segno, ogni premonizione. Kosellech analizza i graffiti nei bagni pubblici e le scritte sui treni della metropolitana perché vi è la certezza che gli attentatori debbano comunicare fra loro anche attraverso canali inconsueti. Effettivamente, individua due scritte che compaiono sui treni “burn Manhattan” e “hit the Toweers”; la seconda scritta oltre l’errore ortografico è accompagnata da due tratti verticali.
Obiettivo confermato
«Secondo lei è da pazzi pensare che quelle scritte possano essere messaggi in codice scambiati dai terroristi?» chiede l’agente al suo informatore, mentre si fa strada in lui la conferma dell’obiettivo e la risposta «quando si tratta della specie umana può succedere di tutto» fuga ogni dubbio. Il problema diventa capire come possano essere abbattute le Torri Gemelle dato che l’impresa sembra quasi impossibile, ma Harvey, anche in questo caso, ha la persona giusta: Bobby-boy Fischer, ovvero l’uomo che immagina le combinazioni impossibili.
Hey Torri, stiamo arrivando
In metropolitana, Harvey trova un biglietto incollato al suo sedile del treno “Hey Towers we’re coming” e si rende improvvisamente conto che il tempo è finito, che solo lui può fermare tutto. Barbero, però, è affascinato dalle disfatte, dai grandi sforzi organizzati che finiscono malissimo e questa storia non fa eccezione. L’impegno profuso finisce in quella nuvola bianca finale originata dal crollo della Torre Sud, che porta con sé anche il coronamento di una delle storie d’amore raccontate nel libro.
Tra realtà e finzione
A differenza delle opere narrative preceenti l’ultimo lavoro di Barbero non è un romanzo storico. Brick for stone è totalmente finzione letteraria, così come lo è la moltitudine di personaggi, ad eccezione del campione del mondo di scacchi Robert James Fischer, che nel settembre 2001 era ancora in vita, ma non a New York. Il personaggio Bobby Fischer è costruito con tutte le caratteristiche note dell’uomo, ma Barbero ne inventa il rapimento e la collaborazione con la Cia. Del resto le vicende e i loro protagonisti sono inventati ma verosimili, credibili nell’ America di inizio Millennio, come altrettanto credibili sono i linguaggi utilizzati, adeguati ai diversi contesti sociali, non solo nei dialoghi, spesso indiretti liberi, ma nei pensieri, nelle riflessioni. Il narratore è esterno, ma contiguo, quasi mimetizzato nel contesto, capace di calarsi via via nella focalizzazione dei singoli personaggi rendendo così l’opera corale e multifocale.
Alessandro Barbero durante la presentazione del suo ultimo romanzo
Un romanzo “diverso”
Un filo conduttore che unisce questo romanzo “diverso” agli altri dello storico più seguito d’Italia è certamente l’interesse per la centralità della città, attraversata dai personaggi, vissuta, respirata e perciò ricreata nelle pagine. È stato così per Atene, per Fiume, per Parigi, per Venezia e ora per New York, che è mostrata nei suoi quartieri, nelle vie e colpita nel suo cuore economico. Un tratto, invece, non caratteristico di Barbero è evidente fin dalla copertina: il titolo del romanzo e delle tre parti che lo compongono sono in inglese. Brick for stone, cioè Mattone al posto di pietra, proviene dalla Bibbia di re Giacomo, in particolare dall’episodio della Torre di Babele come riportato in esergo; mentre l’ultima è una citazione di Marx All that is solid melts into air, ovvero tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Una sequenza di riferimenti storici che si accompagnano a quelli meno evidenti, come quando, en passant, è possibile cogliere una parte di una delle sue conferenze sull’Editto di Rotari: «Una volta Harvey aveva letto di chissà quale popolo barbaro, nei secoli bui, che stabiliva per legge delle compensazioni, nel caso che qualcuno fosse ammazzato o malmenato: se ti danno un colpo di spada in testa, ma senza romperla, la cifra è fissa; se invece schizzano via pezzi d’osso, hai diritto a una certa cifra per ogni frammento. Il legislatore era barbaro, ma non stupido: anche lui si era chiesto come bisognava contarle, le schegge.» Una voce che si fa riconoscere anche attraverso il piglio ironico, come quando, a poche ore dall’attentato si avverte la tranquillità di Bobby Fischer che riflette su cosa possa mai andare storto su un aereo, sul quale si sente ormai al sicuro.
Giancarla Savino
Alessandro Barbero, Brick for stone, Sellerio, pp. 346, Sellerio, 2023; euro 16, 00
Ventun romanzi, dieci libri di poesia. Roberto Pazzi è forse il solo scrittore italiano del secondo ‘900 che ha percorso un itinerario poetico tanto ampio e significativo quanto lo è la sua opera narrativa. Per Pazzi non è avvenuto insomma ciò che è capitato a tanti come prometteva Rodolfo J. Wilcock per l’iniziazione letteraria: prima una raccolta di liriche, poi un romanzo, come una obbligata prassi ministeriale.
Per l’autore di Cercando l’imperatore le cose hanno felicemente seguito partiture diverse. Lo dice del resto in maniera implicita il carteggio intrattenuto con Vittorio Sereni uscito due anni fa (Come nasce un poeta, Minerva), e lo spiega ora perentoriamente l’antologia Un giorno senza sera (La nave di Teseo) che riunisce una selezione di versi che va dal 1966 al 2019.
Sotto gli auspici di Sereni
Le prime due raccolte, sotto l’ala protettiva o quantomeno con gli auspici di Sereni, fanno pensare ad una lirica imbevuta degli estri della Linea Lombarda, eppure le cose non stanno precisamente e solamente così. Alberto Bertoni, nella postfazione all’antologia, mette in evidenza «la vitalità e la specificità delle singole raccolte» e di pari passo l’autonomia presto raggiunta da Pazzi: distante negli anni Settanta dalla cosiddetta “parola innamorata”, a quei tempi scortata da una nutrita pattuglia di autori, distante dagli sperimentalismi, ma anche – aggiungerei – dai dettati altrove tematicamente orientati sopra la poetica teorizzata di Luciano Anceschi.
Il carteggio dal 1965 al 1982, curato da Federico Migliorati, è edito da Minerva
C’era invece nelle prime due raccolte una pronuncia parallela a quella “lombarda”, dove già si leggeva appieno l’enunciazione del tema del tempo; tema che resterà a permeare e a qualificare tutta l’opera, prima con la nominazione dialogica dei luoghi, poi con uno scarto che rivela l’autore, vale a dire un dettato allegorico intenso e asciutto. Ma – andando con ordine – ecco un testo della prima raccolta, “Da un belvedere della val di Magra”, che Pazzi ripropone dalle pagine di Ultime notizie e altre poesie (De Luca, 1969):
Una volta, io lo so, qui c’è stata la gioia. L’aria ne trema ancora.
Ancora non si è spento lo stupore della valle a vedersela un giorno andar via.
La lingua, il grado zero
Il linguaggio è quello d’uso, di grado zero si sarebbe segnalato in quegli anni citando Barthes; una lingua che ritaglia un verso spiccato, che si contagia con le locuzioni del parlato fino a diventare più composita nel libro successivo, L’esperienza anteriore, dove la voce pronuncia un discorso che implica dialettica tra sé e sé e tra il sé e l’alterità:
la certezza che ho certi giorni di seguire piste fatte da altri di ricopiare pensieri non miei – il rosso dei gerani che va nei fiori e diventa lucepetalo segue canali prefissati? – Così occhi di dietro posso guidarmi come quando sul marciapiede mi fermo per allacciarmi una scarpa – ma fingo – e lasciare passare chi seguiva. (da “Autostrade”)
All’interno di questi testi sembra tuttavia di cogliere, oltre al disporsi di scorci quotidiani, la ricerca di parallelismi tra i luoghi e l’essere, tra lo spazio e l’esperienza esemplare. Così come in fondo sancisce la poesia appena citata, negli ultimi versi: « non ho ancora trovato / gli spilli che attaccano le parole/ a “quello che c’è dentro – » dicendoci che quegli “spilli” Pazzi li ha già trovati.
Partendo da questi scorci per raggiungere la maturità con Calma di vento (1987) e da qui aprendo poi le pagine di Talismani (2003), si ha l’impressione che Roberto Pazzi svolga una sorta di alchimia passando dalle occorrenze del mondo nel tempo, alle occorrenze del tempo nel mondo: privilegiando cioè prima la fisicità, lo spazio, le contingenze che riflettono l’essere, poi lasciando protagonista della scena poetica la scansione simbolica del tempo attraverso un avvenimento evenemenziale che vive sullo sfondo come semplice contingenza. Proprio questo rovesciare la dialettica dei termini dice la personalità dell’opera, come cambiando cromatismi ma procedendo in sostanza dalla stessa radice, dall’identica motivazione.
Calma di vento comincia a proporre questo ribaltamento. I titoli ne sono la spia: non più la circostanza vissuta, “Ferrara”, “La bicicletta”, “Un nome nella via”, “A Emma”; piuttosto “Astrologica”, “L’anima”, “ I nomi”, “Fine di un millennio” e più avanti, in La gravità dei corpi (1994), “Corpo mistico”, “La penna nuova”, “La mattina”, “L’amnesia”, “Il fiume”. L’idea, il sostantivo legato alla condizione dell’essere, sostituisce spesso in questo secondo tempo l’occorrenza storica, strumentale, geografica. In una delle poesie più belle, “L’anima”, l’incipit di registro alto («Alcune volte ho pensato all’anima»), vive allora della fortuna che gli accorda il suo correlativo oggettuale, prosaico e inatteso: ecco allora l’anima «che trattengo come la sabbia/nel risvolto dei pantaloni,/come la terra che non si stacca/dalla suola delle scarpe».
La partitura è analoga a quella di altre poesie, ma Pazzi esplicita il tema impervio e metafisico, poi lo trasla nella pianura della prosa, quasi antinomicamente sposando campi semantici opposti, le stelle e il fango. I versi successivi declinano un immaginario ammiccante, ironico, paradossale, che circolarmente riporta però il lettore al primo verso.
Alcune volte ho pensato all’anima che trattengo come la sabbia nel risvolto dei pantaloni, come la terra che non si stacca dalla suola delle scarpe, come una macchia di frutta di stagione: la fragola non va più via, nemmeno le ciliegie, ma la più terribile è la pesca. Anche i cachi, le mele, le pere facevano impazzire mia madre, ma solo l’erba era come la pesca. Ci si può macchiare anche di pioggia, rimane l’ombra dell’acqua, una piccola zona più scura. Dei colori solo l’acqua diventa odore di muffa: le stagioni non lasciano odore.
Ho cercato d’immaginare quale parte del viso porteremo, come sarà fatta l’anima, se avrà un naso, degli occhi, una bocca. A che serviranno gli altri sensi, se restano solo i colori?
Il tempo e il sonno
Nella stessa raccolta Pazzi procede con passo lieve e questa leggerezza diviene filigrana delle pagine, si fa qualche volta ironia e divertimento; più spesso circoscrive il tema del tempo ( «Per otto anni il mio orologio/ritardava un minuto e mezzo/ ogni sette giorni/» in “Il ritardo”), si fa avanti la scansione dei giorni della provincia, con i suoi cortili, le acacie, i colombi solo per assumere un’ identità definitiva poiché in quel mondo «vivere è superare un esame/, accumulare giorni bianchi,/ le prove dell’innocenza.» (“Lettera da Ferrara a un amico romano”). In questa sospensione rituale dell’esistenza si incunea un altro tema, l’alterità del sonno. Scomparso o assottigliato il valore mitico del luogo, l’identità sembra dislocarsi in un immaginario altrettanto esemplare, appunto il sonno, magari disabitato:
Roberto Pazzi
Senza fine e senza inizio è il sonno
La condizione opposta alla veglia può persino essere disconosciuta poiché «In nessun luogo si dorme,/ senza fine e senza inizio/ è il sonno.»… E’ un tempo autosufficiente dell’essere, un altrove dotato di una propria lingua, appena «un dialetto più povero». Viceversa, questo tempo onirico può figurare come compensazione. In “Il sonno” leggiamo:
Sciogli nel sonno qualche anno della mia attesa di te, riscalda le fredde stanze a cui il sole non giungeva mai (…)
Da Calma di vento, il tema approda a La gravità dei corpi (1998), raccolta che non a caso ha in epigrafe i versi di Shakespeare di “Misura per misura”: «Tu non hai giovinezza né vecchia, ma come un sonno pomeridiano, in cui sogni entrambe».
Tuttavia Pazzi si scansa subito da una nozione psicologica (la maturità) per avvicinare quella della dissoluzione. O almeno così pare di capire leggendo “Alle mie ombre”, dove il verso modellato sulle locuzioni del “parlato” così come si definiva nei primi libri è ormai poco frequente e la scansione, le iterazioni del dettato, danno luogo a una lettura più grave:
E’ notte, le ombre che ho amato sono ancora vive, dormono nei loro letti lontane. Dormono le mie ombre e sognando i corpi ne rinforzano l’oblio col ricordo vago che anch’io divengo. Chi ho amato? (…)
Alla luce di Roma
Il romanzo d’esordio di Roberto Pazzi (Marietti, 1985) è stato tra le opere di narrativa italiana più tradotte. La prefazione porta la firma di Giovanni Raboni
I versi di questa raccolta segnano un esito di straordinaria intensità. L’antologia ne riporta interamente la nozione. La storia lirica dell’autore e le sue voci si leggono in trasparenza mentre si consolida una forma nuova. Penso in particolare alla poesia “Alla luce di Roma” dove si disegna una sorta di riappropriazione del tema del viaggio in senso metafisico, in cui la mente è «lavagna sporca/ di segni non cancellati, teatro dove i sogni/ sono e non sono sfumati» e dove «questo va e vieni dagli inferi,/ della luce rinnova la fame». Certo qui si può parlare, come fa Bertoni, anche di metapoesia. Eppure il dato saliente è che il tema della scrittura partecipa a un dettato più ampio dove i rinvii al passato e alle visioni notturne si intersecano in una nuova cognizione del mondo, così come suggerisce la raccolta Talismani (2003): «Sto fra le parole e il nulla/, lavoro ad abitare la mia mente» (“La casa”); condizione dove si rifrangono quelle occorrenze del mondo nel tempo, di cui si diceva, nella circolarità del dettato. Di pari passo “Le nuvole” e “La pietra”, chiamano in causa con l’opposta percezione e sensibilità degli oggetti, la dissolvenza del vivere e del corpo più direttamente espressa con “La battaglia di Azio”:
Questi sono dunque gli ultimi anni, raccontarli è quasi parlare d’un altro, la terza persona è ormai mia, siamo sempre stati in tre io, l’Altro e quel che rimane del furto dell’io all’Altro (…)
Tuttavia, incontrando la nozione contingente al verso successivo («l’usura che vedono in me») potremmo essere tentati di leggere in questa chiave la almeno la lirica se non l’intera raccolta. Ma vorrebbe dire non cogliere una rete intertestuale fittissima all’interno e all’esterno del libro, come suggerisce anche il titolo successivo dell’antologia, Felicità di perdersi, del 2013.
Felicità di perdersi
In questa raccolta si scioglie ancora con versatilità il tema centrale, il tempo. Lo leggiamo tuttavia in un’occorrenza nuova che fa della vanità e circolarità dell’essere l’autentico motivo di fondo: «Oggi sono quel che potrei essere,/un foglietto bianco/ caduto per terra» (“Mutamenti”); oppure ricorrendo ancora all’allegoria, si scandisce: «Specchi dove non mi stanco/di guardarmi sono/ le stazioni di provincia» mentre si riaffaccia il tema visionario del sonno: «e mentre ruota il mondo,/ sono la sera che tu sarai/ nel letto che ti preparo». Anche questi ultimi versi si direbbero scritti in combutta con l’amichevole silenzio della luna di cui Roberto Pazzi parlò molti anni prima in Calma di vento, forse con un lirismo più stringato, per quanto, proprio questa nozione di essenzialità, percorra e partecipi alla fortuna dell’opera.
Marco Conti
Roberto Pazzi, Un giorno senza sera. Antologia personale di poesia 1966-2019, La nave di Teseo, 2020. Euro 18,00