Beppe Fenoglio, camminando tra i venti

Il centenario della nascita dello scrittore, autore ormai centrale del Novecento italiano

Prima edizione, Einaudi 1968

La fortuna letteraria di Beppe Fenoglio non ha fatto che crescere nel corso del Novecento e continua a farlo come hanno mostrato le manifestazioni e soprattutto il convegno (tra Torino e Alba) in occasione del centenario della nascita.  Le sue pagine appaiono ormai centrali non solamente nell’ambito del realismo. Autore che nel dopoguerra racconta il mondo partigiano, dove è stato ufficiale di collegamento con le truppe inglesi, esordiente nella collana dei Gettoni di Elio Vittorini con La malora (1954)  dopo alcuni racconti scorporati dalla raccolta che diventerà I ventitré giorni della città di Alba, Beppe Fenoglio ha ormai il profilo di un autore centrale del secondo Novecento.

Lorenzo Mondo, dopo la prima edizione del romanzo, peraltro incompiuto, Il partigiano Johnny, anticipò che l’autore di quella narrazione non era più il «fratellino di Pavese», non era più «il neorealista tardivo in sospetto di lesa Resistenza, ma un grande e compiuto scrittore epico, una delle esperienze narrative più trascinanti del Novecento italiano. Perfino i segnali esterni lo rivelavano: le radicate monomanie, la lingua splendente reinventata attraverso il filtro dell’inglese, la sovrana distanza dai circoli culturali, il dialogo solitario con i propri autori, il senso tragico e insieme reverente della vita, tutto lasciava presagire in Fenoglio uno scrittore di altura.» Così è stato.

Una lingua forgiata passo a passo

Le pure importanti questioni filologiche inerenti la redazione del Partigiano Johnny (Fenoglio  morì a quarant’anni e non aveva neppure suggerito un titolo) che Mondo assemblò da due testi, non hanno mai ridotto il valore e l’originalità del romanzo di cui esiste notoriamente anche un primo approccio, se non una redazione, in inglese. In certo modo è stato proprio questo romanzo a portare l’attenzione sulla precedente e superficiale lettura degli altri, dove autobiografia e graffio neorealistico sembrano esaurire tema e scrittura. In realtà ha avuto ragione la critica posteriore nel parlare di un mondo in cui dominano la connotazione epica e il simbolismo della morte. Differenti sono stati gli approcci, le tecniche narrative.  Il primo Fenoglio, ovvero i primi romanzi e racconti, era caratterizzato da una lingua con costrutti dialettali  (La malora e i Ventitré giorni della città di Alba) e un monologare fitto, tra scorci lirici e drammatici come in Primavera di bellezza .

Nella prosa de Il partigiano Johnny , è rilevante invece il calco sulla lingua inglese, ma anche  il percorso tematico-espressivo è sensibilmente diverso rispetto alle altre opere. La narrazione è mediata da una focalizzazione in terza persona che stempera il registro colloquiale più consueto di Fenoglio, senza con questo perdere la tensione del periodare. Gian Luigi Beccaria ha osservato in una sua pagina critica che il romanzo incompiuto di Fenoglio pare corrispondere a una prosa «frutto di volontà e non di dono: possesso, ricerca, conquista, come dopo un tenace corpo a corpo contro e con la lingua». Dato inequivocabile se si pensa che le due versioni sono anticipate da un testo narrativo in inglese. Ma non è solamente la lingua inglese, con le sue inserzioni nelle successive redazioni, a dar conto di una ricerca. La frase immediata, breve, sintetica, che si affaccia fin da La malora ( paradigmatico l’incipit: «Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.») resta un modello ma più diluita, talvolta pervasa dal commento.  Ugualmente in queste pagine la connotazione è frequeste e il traslato si accompagna  spesso al neologismo, per esempio con l’aggettivazione dei sostantivi:

«Le acque erano nere e, così dappresso, praticamente mute, l’impatto dell’altra sponda alle acque più lontane indiscernibile. Da dietro, veniva a tratti come il racconto del’incuboso dormire della città sul filo del rasoio»; aggettivazione che prende la strada del traslato in inglese: «I campanili della città batterono la mezzanotte, il freddo e l’umidità avevano influito sugli uomini, su quella loro briskness che li aveva fatti montare e pattugliare tutt’insieme.» Ecco  dunque l’aggettivo d’invenzione “incuboso” e quello inglese per “brio”, briskness, ma con valore figurato, in due momenti narrativi di descrizione (entrambi nel diciottesimo capitolo, p. 191, ed. Einaudi, 1968).

Dalla Resistenza all’ontologia

La narrazione stabilisce quindi le coordinate della realtà storica (geografia, date, eventi seguiti dall’autore durante il conflitto con l’aiuto di un taccuino) dalla quale l’espressione di Fenoglio prescinde come in un processo di smaterializzazione. Il processo diegetico coinvolge anche il piano storico. Fenoglio nel capitolo dodicesimo della prima redazione illustra in alcuni passi il senso di disagio, di non appartenenza rispetto alle prospettive sociali condivise: «La dolce comodità antica della poltrona». Johnny, l’alter ego, si sente viceversa un eterno partigiano, «unico passero» «che non cascherà mai» perché in definitiva l’impressione che gli perviene è che la Resistenza non sia, in ultima analisi, una circostanza evenemenziale, ma un dato dell’esistenza, un percorso obbligato. In questo contesto le sensazioni accompagnano questa nozione filosofica, come quando (nel capitolo diciannovesimo), in un momento di apparente tranquillità dopo una marcia, il partigiano Johnny si ferma lungo un torrente, si osserva come distante da sé medesimo, dal suo corpo. Così che nell’istante successivo, alla ripresa della marcia, egli avverte di procedere «in un libero aliare di venti».

In margine al centenario, che si concluderà il primo marzo 2023, ricordo un recente saggio sulla figura e l’opera dell’autore, Beppe Fenoglio. Vita, guerre e opere, scritto da Franco Vaccaneo per Priuli & Verlucca.

Osvaldo Enoch

 

 

Il romanzo dell’editoria italiana (2)

Gian Arturo Ferrari, ex direttore dei Libri Mondadori, si racconta narrando l’itinerario degli editori. I libri unici della Adelphi, le vicende di Mondadori e Berlusconi; i nuovi brand

Uno speciale contraltare di Einaudi, ma di altissima qualità, si definisce con la fondazione di Adelphi. Non per caso le fondamenta le costruisce Luciano Foà nel 1961, andandosene dalla Einaudi e portando con sé alcuni collaboratori come Giorgio Colli e Bobi Bazlen. Il capitale di partenza? Ci pensa il figlio di Adriano Olivetti, Roberto, con Alberto Zevi. Il primo passo è l’opera completa di Friedrich Nietzsche, al netto delle aggiunte dalla sorella del filosofo e con la competenza filologica di Giorgio Colli che restituisce l’opera in ben 22 tomi. Ma il banco di prova più importante sarà la “Biblioteca Adelphi”, «una collezione di libri letterari non categorizzabili in quanto deliberatamente “unici,  precipitati di fantasia e di vissuto che solo nella forma libro si solidificano e cristallizzano», scrive Gian Arturo Ferrari.

E per fortuna non c’è modo di dargli torto. Dopo i primi exploit la Biblioteca si è arricchita di testi, narrativa e saggistica, di indubbia qualità: da Strindberg a Grossman e Kundera (L’insostenibile leggerezza dell’essere fu un caso letterario clamoroso), dall’acquisizione di Landolfi  e Nabokov, alle opere di René Dumal, Marcel Granet, Emanuele Severino, a quelle riunite nella collana “Il ramo d’oro”.

 Feltrinelli e gli strani casi del “Dottor Živago” e del “Gattopardo”

Pochi anni prima, nel 1955,  erede di un capitale enorme (immobili, aziende in Austria, foreste, partecipazioni in società europee e statunitensi) Giangiacomo Feltrinelli mette insieme una squadra editoriale di tutto rispetto in cui spiccano i nomi di Valerio Riva, Luciano Bianciardi, Nanni Filippini, Mario Spagnol, Giampaolo Dossena. Con un imprenditore com’è Feltrinelli, di carattere ribelle, iniziano a pubblicare Bertrand Russel (Il flagello e la svastica)  e si avviano sulla strada dell’anticonformismo: di sinistra ma senza cipiglio. Arriva così due anni dopo la fondazione l’occasione che ogni editore vorrebbe: un caso internazionale, diritti da vendere, qualità dell’opera e – in più –in perfetta sintonia con il proprio temperamento: Boris Pasternak con il manoscritto inedito (e uscito dall’Unione sovietica di straforo) del Dottor Živago; sarà in libreria con 12 mila copie, poi ne venderà centinaia di migliaia e milioni nel mondo. Il Pci, perde l’occasione di stare zitto. Ferrari ricorda infatti che Rossana Rossanda scrive ad Alicata dicendo che i giornali appena l’hanno recensito e che finirà nel dimenticatoio. E invece…Ecco Collins e Gallimard che scalpitano per averlo, ecco New York con le vetrine inondate dal libro di  Pasternak a cui sarà a breve assegnato il Nobel.  Ma non è tutto.  Feltrinelli fa il “pieno” con un altro libro maltrattato: Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Lo hanno rifiutato tutti, Einaudi e Mondadori compresi, che in questo caso contano, entrambi,  sul giudizio di Vittorini. A voler incaponirsi sul nuovo, sia pure letterariamente inteso, si può far danni. E di fatto a dire sì al libro del principe siciliano sarà Bassani, una delle “Liale” arringate dal Gruppo ’63.

 Letteratura versus capitale

C’è da chiedersi, viaggiando con questo straordinario libro di Ferrari,  se questi ultimi trent’anni di editoria omogeneizzata dai diktat del profitto, avrebbero consentito non  la pubblicazione di un testo composto come Il Gattopardo, ma quelli di Pasolini e Gadda. Livio Garzanti negli anni del boom economico affida alla collana divulgativa “Saper tutto” il compito di far cassa ma pubblica su consiglio del poeta Attilio Bertolucci il romanzo Ragazzi di vita, una narrazione in una lingua gergale, frammentaria, in cui si parla di prostituzione maschile. Non contento l’editore dà la caccia a uno dei grandi del Novecento italiano, restio a mandare in vetrina le sue opere e di ardua lettura per i canoni ordinari: Carlo Emilio Gadda con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Più avanti è la volta di Fenoglio (portato via da Einaudi) e del giovanissimo Goffredo Parise.

 

Certo la questione del denaro non è ininfluente. L’autore e direttore della Mondadori lo sottolinea come meglio non potrebbe. Parlando delle sorti di Einaudi, scrive: «Il tallone d’Achille dell’Einaudi – sempre stato e sempre sarà – sono i soldi. Quelli che servirebbero, quelli che non ci sono. La casa editrice, per dirla in gergo tecnico, è cronicamente sottocapitalizzata. In parole povere non ha i denari sufficienti per sostenere, cioè finanziare, il grandioso programma in cui vuole impegnarsi.» Einaudi non cerca dei soci per non essere condizionato, ricorre ai prestiti e più tardi inventa la rateizzazione che – ancora oggi – è operativa con le varie agenzie Einaudi: dà al lettore la possibilità di acquisire molti libri con un piccolo esborso mensile. Ma i denari tornano lentamente.  Da qui nasce anche l’esigenza di “affittare” il proprio catalogo. Il che accade con la cessione alla Mondadori, nel 1957, del catalogo in edizioni economiche e per dieci anni. Gli Oscar Mondadori si avvantaggiano di titoli e autori di qualità e la casa editrice torinese può nuovamente respirare, così come  accade con la cessione del catalogo scientifico diventato patrimonio della Bollati Boringhieri.  Va detto peraltro sul fronte degli “economici” che il primo editore a creare una collana di grande tenuta fu Rizzoli su consiglio del suo direttore, Rusca: la Bur, fatta di classici della letteratura di ogni tempo e paese, si affacciò nelle librerie al costo di cento-duecento lire offrendo per ogni titolo una introduzione critica e traduzioni non raffazzonate.

Le cose cambiano. Einaudi in difficoltà;  Rizzoli  e “la P2”

Il primo sentore di concentrazioni pericolose nasce negli anni Ottanta. Mentre Einaudi cerca, senza riuscirci, di sopravvivere  editando una serie impressionante di grandi opere: la Storia d’Italia, la Storia della letteratura italiana, la Storia d’Europa, I Greci, La Storia di Roma,  e infine L’Enciclopedia Einaudi,  Rizzoli (siamo nel 1981) corre incontro alla catastrofe. Nel ’74 ha acquistato Il Corriere della Sera e sette anni dopo esplode il caso della Loggia massonica P2 a cui Angelone Rizzoli risulta affiliato con il suo factotum Bruno Tassan Din. L’amministrazione controllata mette una seria ipoteca sugli affari poiché anche gli autori non possono essere pagati. L’agente letterario Eric Linder – sottolinea Ferrari – finisce per trasferire tutti i “suoi” scrittori alla Mondadori: con Enzo Biagi anche John Le Carré, cioè due miniere. Ma i problemi investiranno ugualmente Segrate sotto un altro profilo: la Mondadori ha  fondato nel 1982  il  canale televisivo Rete 4 e la programmazione assorbe una parte gigantesca del fatturato. «Viene in soccorso Enrico Cuccia – spiega l’ex direttore di Mondadori –  che per evitare il fallimento costruisce una delle sue classiche scatole cinesi. Rete 4 viene ceduta a Berlusconi e la maggioranza della Mondadori, il 51 per cento, diventa una finanziaria la cui maggioranza, a sua volta il 51 per cento, resta in mano alla famiglia che in pratica con il 25 per cento mantiene il controllo dell’azienda.»

Ma qui già si può osservare l’anomalia italiana del connubio tra editoria libraria e mediatica, aggravato dalle vicende conflittuali che dagli anni Ottanta arriveranno alle soglie del nuovo secolo. L’autore di Storia confidenziale dell’editoria italiana recensisce i momenti importanti di questo percorso, ma la struttura del libro, a tappe alterne, tra vita vissuta, panorama editoriale ed episodi cruciali, non gli  permette una interpretazione complessiva di queste vicende. Di certo non ha cronaca esaustiva il percorso degli anni Ottanta tra l’acquisizione di quote della CIR di De Benedetti (che porterà L’Espresso in Mondadori)  e che vorrebbe ottenere la maggioranza della casa editrice milanese. Un progetto contrastato da Silvio Berlusconi il quale è già socio di minoranza. Da qui, come è noto, nascerà un lungo contenzioso giudiziario. La scaturigine sarà la morte del presidente di Mondadori Luca Formenton, marito di Cristina Mondadori, nel 1987. I due rami della famiglia si dividono con i rispettivi figli e «scendono in campo i rispettivi alleati, Berlusconi per Leonardo da una parte e De Benedetti, il partito Formenton-Debenedetti, grazie a un colpo di mano (o di stato?), prevale» commenta Ferrari.

La coda del drago

La storia del più grande editore italiano non è però finita con il capitolo De Benedetti. Di fatto la famiglia Mondadori-Formenton, forse sconcertata dai modi impositivi del nuovo presidente incaricato, cioè Caracciolo, fa una giravolta e vende le sue quote a Berlusconi che così le somma a quelle acquisite da Leonardo Mondadori.  Il seguito è guerra aperta nei tribunali. Il cosiddetto “Lodo Mondadori” si conclude momentaneamente solo nel gennaio 1991.

L’impero editoriale

Berlusconi diventa dunque il dominus di un impero mediatico con «tre reti televisive, il primo quotidiano italiano, un’infinità di altri giornali minori. i due principali news magazine. E non da ultimo una casa editrice di libri», chiosa Ferrari. E’ a questo punto che il presidente del Consiglio, Andreotti,  perché organizzi la spartizione. I libri con la vecchia Mondadori resteranno a Berlusconi ma il tema si riproporrà nel 1993 con la celebre «discesa in campo» del leader politico, tanto più che l’anno dopo Berlusconi vincerà le elezioni. Il frangente comporta, nel mondo letterario, qualche netto diniego: Sandro Veronesi e Walter Veltroni lasceranno la Mondadori. Ma Ferrari aggiunge alla questione di merito sul ruolo del leader in ambito letterario che Berlusconi non esercita alcun controllo diretto (il che, invece, secondo la testimonianza dell’autore, accade con Agnelli nel gruppo Rcs, quando Ferrari dirigeva il settore). Ci sono invece i conoscenti di Berlusconi che chiedono talvolta di pubblicare con la sigla di Segrate ma in quei contesti il leader di Forza Italia non impone niente. Invece, quando il giornalista economico Marco Borsa scrive «un libro non tenero su Agnelli, De Benedetti, Romiti, Ferruzzi, Gardini, Pirelli, intitolato Capitani di sventura, con la significativa omissione di Berlusconi», il dominus dell’editoria si ritrova chiamato in causa perché a un’assemblea di Confindustria «Romiti lo ha aggredito per via del libro. Romiti, nel suo stile, pensa che l’autore non conti niente e il direttore editoriale meno di niente. Secondo lui è stato chiaramente Berlusconi a ordire e ordinare questo agguato. Berlusconi mi ingiunge di ritirare il libro, l’ha promesso a Romiti, Io gli dico che non possibile perché i librai sono legalmente i proprietari delle copie che hanno acquistato, Ripiega sul divieto, assoluto, di ristamparlo. Lo ristampiamo due, tre volte senza scriversi copra “seconda edizione”, “terza edizione”».

Einaudi è in vendita

Anche Einaudi finisce tra le braccia di Mondadori. L’editore torinese dopo anni di amministrazione controllata può risolversi solo con la vendita. I candidati sono Guido Accornero (fondatore del Salone del Libro), Luciano Mauri delle Messaggerie Italiane che distribuisce Einaudi e proprietario con Mario Spagnol del gruppo Longanesi e Giorgio Fantoni, editore insieme a Emilio Vitta Zelman, di Electa. Prevarrà nel 1989 quest’ultimo che costituirà una nuova società accordandosi con Mondadori. Si chiamerà infatti Elemond, fusione dei due marchi. Il contratto stabilisce che «di lì a cinque anni (dunque nel ’94) uno dei due soci – presumibilmente Electa – potrà cedere la propria metà all’altro – presumibilmente Mondadori, che sarà obbligato ad acquistarla. In pratica è  una vendita a Mondadori rimandata di cinque anni».

Da questo nuovo accorpamento nasce anche un orientamento non più spiccatamente rivolto alla saggistica – aggiungo in margine al saggio di Ferrero –  come era nella tradizione einaudiana, ma un percorso narrativo che ha due orientamenti: gli autori di qualità letteraria più intellettuale (De Lillo, Roth, Auster, Modiano, Marìas, per restare tra gli “stranieri” ) verranno pubblicati da Einaudi e nascerà la collana dei tascabili  “Et”, secondo Ferrari il vero «pilastro economico della casa editrice». Resta però il fatto che, al di là del catalogo storico, la qualità einaudiana si è persa, né altrove nessuno ha la forza economica e la volontà per ritentare una analoga avventura di alto profilo e numero di titoli.

 I libri della Fiat

«La curiosa situazione per cui la medesima proprietà, la Fiat in ultima analisi, agisce nei libri con due braccia separate – la Rcs da una parte e il gruppo Fabbri (oltre alla Fabbri, Bompiani, Sonzogno ed Etas dall’altra – viene sanata nel ’90 quando il gruppo Fabbri confluisce (è acquistato) in Rcs». Dunque Berlusconi non è il solo a estendersi in quegli anni con grinta nell’impero di carta. Ma nel 2016 Fiat Chrysler lascia il gruppo. La Rcs Libri sarà acquistata per intero da Mondadori,  mentre i giornali, saranno acquisiti da Cairo Communication nello stesso anno.

Una mappa di sigle e concentrazioni

Se non la vetrina, dedicata ai best-seller e ai titoli più vendibili, gli scaffali delle librerie non sono forse mai stati così eterogenei in fatto di sigle editoriali. Almeno all’apparenza e al netto dei gruppi  che invece racchiudono, come il guscio delle noci, gherigli di nomi.  Gli editori che marciano in splendida solitudine sono pochi ma tra questi ci sono, per fortuna, alcune biblioteche di qualità: Adelphi innanzitutto, Sellerio, E/O, Neri Pozza, Nottetempo, Marcos y Marcos, Fazi, il Saggiatore, Cortina e naturalmente  La nave di Teseo, nata dal dispetto dell’omogeneizzazione per iniziativa di Umberto Eco quando ancora (ma qui è Ferrari a parlare) l’antitrust non si era pronunciata sulla Mondadori.   Dopo l’acquisto della Rizzoli Libri, l’antitrust chiese infatti l’alienazione di una parte delle case editrici. Bompiani, Marsilio furono così acquistate la prima da Giunti, la seconda da Feltrinelli.

A proposito di Feltrinelli, nel corso degli ultimi anni, l’editore ha proseguito la strategia legata alle librerie. Oggi rappresenta forse la prima catena di vendita nazionale. Ma nel 2005 dandosi la struttura di Gruppo con Carlo Feltrinelli ha acquisito non solo Marsilio ma Sonzogno, Gribaudo e in ultimo Crocetti, editore di poesia e fino a due anni fa dell’unica e forse più letta rivista di cultura poetica. Con il passaggio editoriale, la rivista è però cambiata: la cadenza è divenuta bimestrale, le recensioni sono scomparse, la grafica e l’edizione lussuosa ne hanno fatto un altro oggetto, prezioso ma meno ricco di contenuti. Nello stesso 2005 è nato anche il Gruppo Mauri Spagnol (Gems) «che comprende le case editrici pazientemente collezionate dagli anni Ottanta da Mario Spagnol e dunque, oltre a Longanesi, Guanda, Salani, Tea, Corbaccio, Ponte alle Grazie, Vallardi». Ma non solo. Del gruppo fanno parte Newton Compton e Chiarelettere, e soprattutto sia Garzanti che Bollati Boringhieri (dal 2009). Mondadori riunisce  invece con il suo brand storico, quelli di Einaudi, De Agosti, Sperling & Kupfer e Fabbri Editori. Ma naturalmente conta sul catalogo storico Rizzoli.

Un’ ultima compagine che, forse per la più discreta presenza in vetrina, rischia di essere dimenticato è Giunti Editore Spa. Ferrari ricorda che dopo l’acquisizione di Bemporad (poi divenuta Marzocco), il gruppo contava sul sempreverde di Collodi, Pinocchio, «maggior successo italiano di tutti i tempi e a quanto si dice il secondo libro più venduto nel mondo dopo la Bibbia».

 

Della fine degli anni Cinquanta è l’acquisizione di Barbèra. Dal ’75 Sergio Giunti orienta l’attività verso l’editoria d’arte e i libri per bambini. Ma ha creato anche una catena di librerie e, come si è detto, ha ottenuto Bompiani (e De Vecchi) senza venir meno a una attività editoriale legata all’infanzia di cui il capitolo forse più rilevante e recente è l’accordo, nel 2014 con Disney Italia e Marvel per i prodotti cartacei e digitali. Il fatturato è straordinario, oggi pare essere, sotto questo aspetto, il secondo editore italiano.

Marco Conti

(2-fine) 

Il romanzo dell’editoria italiana

Gian Arturo Ferrari, ex direttore dei Libri Mondadori, si racconta narrando l’itinerario degli editori: da Treves e Sonzogno alle grandi concentrazioni di oggi

Quante sigle editoriali possiede Mondadori? Quante il Gruppo Mauri Spagnol? Le grandi concentrazioni accompagnano il XXI secolo in gran parte dell’Occidente e sollecitano altre domande sul ruolo dell’editoria, da sempre divisa tra Mammona e la cultura.  Di questa dicotomia parla Gian Arturo Ferrari nel suo Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio, 2022), un corposo saggio scritto con agilità ma soprattutto con la competenza di chi nell’editoria è vissuto e ne ha a lungo osservato le due anime l’una contra l’altra armata. Ferrari, docente universitario di storia del pensiero scientifico prima di diventare direttore della saggistica di Mondadori, poi  direttore della Rizzoli, quindi direttore dell’intera divisione Libri del colosso mondadoriano,  racconta la passione di una vita attraverso un itinerario finora inedito. Inedito non solo perché dall’Unità d’Italia arriva a questi giorni, ma perché l’autore diviene narratore della propria esperienza in momenti cruciali di trasformazione.

Si comincia con una retrospezione: Treves e Sonzogno ai tempi dell’ Unità d’Italia. Treves figlio del rabbino di Trieste, Sonzogno «erede scapigliato di una dinastia di tipografi-librai-editori» fin dal Settecento. Entrambi colti (e giornalisti free lance si direbbe oggi) hanno in comune un tratto che diventerà caratteristico dell’editoria italiana: la contiguità tra giornali e libri. Treves fonda nel 1875 l’archetipo della rivista, L’Illustrazione italiana; Sonzogno diventa editore de Il secolo e di una decina di testate; Treves è un monarchico moderato, Sonzogno un democratico radicale. Il primo cerca soprattutto la qualità letteraria, l’altro punta sulle collane popolari e ospita sui suoi giornali i romanzi a puntate. Sembra di vedere lo specchio deformato dell’editoria del dopoguerra con ruoli rovesciati: da un canto i conservatori (Mondadori e Rizzoli), dall’altro Einaudi e Laterza impegnati nella cultura più alta e di sinistra. Ma questo lo aggiungiamo noi. Ferrari, con maggiore precisione, si limita a osservare che Treves si trasformerà da editore di libri a editore di autori (nel suo catalogo ci sono Fosca di Tarchetti, Senso di Camillo Boito, Verga con I Malavoglia e nel 1886 il primo best-seller italiano, Cuore di De Amicis; nel 1889  Il piacere di D’Annunzio); Sonzogno avvicina il popolo alla letteratura con libri di avventura, romanzi condensati e strappalacrime. Ma resta con ciò il vero propulsore democratico perché, come ricorda Ferrari, i votanti in quello scorcio di secolo  rappresentano il 2% della popolazione, donne escluse, e quello che legge è approssimativamente il 5%.

Arnoldo Mondadori e i successi di D’Annunzio

La parabola mondadoriana comincia negli anni Dieci. Arnoldo Mondadori è uno stampatore con sedi a Ostiglia, Verona, Roma, Mantova e con l’arrivo della guerra inizia a capitalizzare grazie  agli ordinativi dei ministeri: una valanga di giornaletti propagandistici, di stampati e moduli e poi libri per le scuole e l’infanzia. In breve, nel 1919 Arnoldo fonda la sua casa editrice, acquisisce l’opera di un romanziere di successo oggi sconosciuto, Virgilio Brocchi, e gli affida la sua prima collana di narrativa “Le Grazie” dove compariranno Alfredo Panzini, Marino Moretti, Corrado Govoni, ma anche i meno fortunati Michele Saponaro, Guelfo Cirinini, Guido Milanesi e Antonio Beltramelli. I successi veri arrivano solo qualche anno più tardi con Ada Negri e Trilussa prima, poi con D’Annunzio che l’editore vuole nella sua squadra per acquistare il prestigio che non ha. La casa editrice resterà a cavallo delle due  forze opposte, denaro e cultura, anche negli anni a venire per quanto alcuni autori importanti come il Fitzgerald del “Grande Gatsby” finisca in collane da edicola. Leggendo Ferrari si ha intanto nozione di quanto un singolo autore o, più spesso ancora, un singolo best-seller, diventino discriminanti per l’intera attività. E’ il caso di Via col vento, titolo fortunato scelto tra altri 17 nel pensatoio mondadoriano. Tra questi “Rapito dal turbine” e “Vento d’uragano”.

Rizzoli, stampatore dei ritratti del Re e del Duce

L’editore destinato a competere a lungo con Mondadori è Angelo Rizzoli che negli anni Trenta è il miglior stampatore della penisola. Tocca a lui mettere sotto i torchi i ritratti del Re e del Duce. Un affare non di poco conto visto che le immagini sono destinate a ornare le pareti di tutte le scuole e di tutti gli edifici pubblici. Ma già alla fine degli anni Venti, Rizzoli (come Mondadori  di umili origini e istruzione formale che si ferma alle elementari) si era aggiudicato la stampa dell’Enciclopedia italiana di scienze, lettere e arti in 36 volumi. Opera che comportò l’acquisizione di capitali nuovi, ovvero di soci: Giovanni Treccani, industriale tessile e fondatore dell’enciclopedia, Ettore Bocconi che fonderà l’università omonima insieme a Senatore (di nome e di fatto) Borletti.  Fatta l’operazione, Rizzoli liquidò i soci e restò unico proprietario. In questo stesso periodo l’editore va disegnando però un impero fondato soprattutto sui giornali. Acquista le riviste che furono di Sonzogno e  Novella (da Mondadori): un periodico che all’epoca pubblica racconti e vende settemila copie al mese. Rizzoli lo trasforma in un settimanale dedicato alle donne: ed ecco dal cappello a cilindro uscire centoventimila copie di tiratura.  Rizzoli  (siamo ancora negli anni Trenta) editerà anche il settimanale inventato da Leo Longanesi, Omnibus, dove collaborano narratori come Bacchelli e Soldati, poeti come Montale, Vittorini, Flaiano; infine viene creata una collana di opere in cui figureranno i nomi di Dino Buzzati (con Il deserto dei tartari) e tra gli altri autori destinati a rimanere, di Elsa Morante.

 

Einaudi, ovvero il profilo alto dell’editoria

Se si esclude Laterza, rinvigorita di idealismo crociano, il paesaggio culturale italiano non ha un editore di saggistica. Ci pensa, ad appena ventun anni, nel 1933, Giulio Einaudi che ottiene i capitali da un banchiere, Luigi Della Torre, da Nello Rosselli (antifascista già scappato in Francia), da un professore e senatore del Regno, Francesco Ruffini, che non ha prestato il giuramento fascista, e dal padre, Luigi, docente di economia e già senatore. Le origini del marchio, in questo caso, faranno la differenza. Tanto più che due anni dopo il “cervello” della Einaudi deve fare i conti con la repressione ideologica fascista: Mila, Pavese, Bobbio, vengono arrestati insieme a Giulio e con loro Vittorio Foa, Franco Antonicelli, Carlo Levi, Luigi Salvatorelli, mentre Leone Ginzburg, già in carcere, morirà in quegli anni torturato dai nazisti. Il confino a cui sono destinati Cesare Pavese e Carlo Levi si trasformerà in seguito in due opere letterarie: Il carcere e, con larghissimo successo di vendite, Cristo si è fermato a Eboli.

La fine della guerra sancisce quindi anche le migliori credenziali democratiche alla casa editrice, tanto più che Giulio Einaudi fu per un breve periodo partigiano garibaldino ad Aosta. D’altro canto la produzione einaudiana non ha rivali in fatto di qualità. Alberto Moravia, ricorda Gian Arturo Ferrari, commenterà lapidario: «Bisogna riconoscere che Einaudi è l’unico editore che non ha mai pubblicato un libro per far soldi.»  Nel dopoguerra, con il successo di Carlo Levi, delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci e della saggistica, arrivano anche i libri di Pavese, di Italo Calvino (Le fiabe Italiane nei Millenni sono del 1956),  di Natalia Ginzburg a cominciare da Lessico familiare, e quelli della collana “I coralli” fondata da Pavese con le opere di Hemingway, Mann, Fitzgerald, Sartre, e dove esordiscono Arbasino e Bassani. Poi è la volta della traduzione della Recherche proustiana, di Brecht, di Musil, del teatro di De Filippo, mentre Vittorini mette in fila esordienti come Lalla Romano, Ottiero Ottieri, Mario Rigoni Stern, Carlo Cassola, e infine, su altro versante, Jorge Luis Borges.

Ma al netto delle polemiche posteriori (ne fui testimone personale presentando Giulio Einaudi negli anni ’90), polemiche  che volevano ridurre il ruolo della casa editrice in considerazione dell’orientamento marxista, vale la pena di chiarire, come recensisce lo stesso Ferrari che, Einaudi, fu il primo editore italiano a tradurre e a valorizzare la storiografia delle Annales, un nuovo modo di fare storia. Un contributo di enorme valore che rompe un modello di pensiero. Basti pensare che uno dei consulenti Einaudi, Delio Cantimori, storico insigne, aveva dato parere negativo alla pubblicazione di Braudel. La storia all’epoca si faceva sostanzialmente dal punto di vista della politica e delle istituzioni. La storiografia della vita materiale, delle classi subordinate in relazione all’economia, alla cultura antropologica era off-limits. Viceversa furono i Braudel, i Bloch, i Le Roy Ladurie, a cambiare la percezione del mondo.  La collana PBE (e la NUE, sul versante letterario-filosofico), servì anche a questo.

Marco Conti

(1- Continua)

Natale, Natali… Tra Leopardi infreddolito e Virginia Woolf dedita al pâté

Natale tra i diari, nelle lettere, con le pagine di grandi autori. Di cosa era preoccupato Leopardi nel Natale 1827? Cosa si aspettava Sylvia Plath il giorno successivo ad un apparentemente quieto Natale del 1957? E Franz Kafka, praghese di famiglia ebraica? Virginia Woolf  nel 1938 ricevette dalla sua amica del cuore una strenna che le parve meravigliosa. Gli sterminati diari di Paul Léateaud non prestano, prevedibilmente,  troppa attenzione alla festività. Ma qualche giorno prima di Natale del 1913, durante una conversazione, egli si accorge di essere ormai un uomo maturo. Dylan Thomas, alla radio, inventa invece una fiaba per i bambini destinata a diventare un classico, mentre Ungaretti sta «con le quattro capriole di fumo del focolare».

 

Giacomo Leopardi

Il 24 dicembre 1827, il poeta dei “Canti” si trova a Pisa e risponde con una lettera al padre che l’ha rimproverato pochi giorni prima di non essere tornato a casa. Ma rispondendogli, Giacomo gli fa presente che Recanati è molto fredda e Pisa, al contrario, non conosce né vento, né nebbia.

«Il soggiorno poi di Recanati nell’inverno, quanto mi sarebbe stato caro per la presenza e la compagnia sua (del padre ndr) e de’ miei (che io preferisco ad ogni piacere), altrettanto, senza il minimo dubbio, mi sarebbe stato micidiale alla sanità. Ella si può ben accertare che l’uso del caminetto mi è impossibile assolutamente e totalmente; giacché anche lo scaldino, il quale adopero con moderazione infinita, m’incomoda assaissimo (…) Ma prescindendo dal fuoco, in Recanati io non avrei potuto vivere se non in casa, perché costì non v’è mai giorno senza vento o nebbia o pioggia: e se per miracolo si ha una giornata buona, io non posso passeggiare a causa del sole, giacché non v’è ombra né in città né fuori. (…) Qui non v’ è mai vento, mai nebbia; v’è sempre ombra, come in tutte le grandi città, e se si hanno giornate piovose, essendo io padrone delle mie ore e di pranzare la sera (come fo sempre), è ben difficile che non trovi un intervallo di tempo da poter passeggiare. Infatti dacché sono a Pisa, non è passato giorno che  io non abbia passeggiato per due in tre ore: cosa per me necessarissima, e la cui mancanza è la mia morte.»

Epistolario, Sansoni Editore, 1976

Franz Kafka

Kafka non scrive se non di sfuggita della Festa delle Luci ebraica, Hanukkah, che, come Natale pone al centro la storia sacra ma ha antecedenti nelle feste pagane per il solstizio. Tuttavia, il 25 dicembre 1911, scrive nel suo diario alcune belle pagine inerenti l’importanza delle letterature nazionali e di quella ebraica, soffermandosi su un curioso rito di circoncisione che si svolge in Russia dove è necessario tener lontani dalla madre del neonato gli spiriti malighi per sette giorni dopo la nascita  e ugualmente, quando i piccoli crescono, e diventano facile preda del Male nei giorni precedenti la circoncisione. Ma il giorno dopo Natale si dispiace soprattutto di non aver potuto scrivere quello che si riprometteva, forse per l’insonnia:

«Di nuovo ho dormito male ed è già la terza notte. Perciò ho passato in condizioni pietose i tre giorni di vacanza durante i quali speravo di scrivere cose che avrebbero dovuto aiutarmi a passare l’anno intero. La sera di Natale passeggiata con Löwy verso Stern. Ieri: Blümale oder die Perle von Werscahu, Fiorella, ossia la perla di Varsavia. Fiorella è onorata nel titolo con la definizione “perla di Varsavia” per il suo amore costante e per la sua fedeltà. Soltanto il collo libero alto e delicato della signora Tschissik spiega la formazione del suo viso. Il luccichio delle lacrime negli occhi della signora Klug, mentre cantava una melodia uniformemente ondulata, durante la quale gli ascoltatori stavano a capo chino, mi parve che per importanza sorpassasse di gran lunga il canto, il teatro, le preoccupazioni di tutto il pubblico, anzi anche la mia fantasia. (…) Ero solo con mia madre e anche ciò mi parve bello e facile: guardavo tutti con fermezza.»

da Confessioni e diari, Mondadori, 1972

Paul Léauteaud

I Diari di Léauteaud sono una miniera di bozzetti ma soprattutto di pagine di distesa narrazione e spesso di confessioni erotiche. Il 22 dicembre 1913, lo scrittore di Le petit ami, è però sorpreso perché un altro anno sta volgendo al termine e neppure si è accorto di essere ormai diretto verso la mezza età.

«Una scoperta non troppo divertente stamani. Parlavo più che altro con me stesso dell’anno che sta per finire. «Ancora un anno di più» dicevo. B…mi ha chiesto allora: «Quanti ne hai?» «Quarantuno compiuti presto» ho detto, «Presto entrerò nel quarantaduesimo.» Ne ero convinto. B…mi ha detto che sbagliavo. Son nato nel 1872. Dunque è il quarantaduesimo anno che compirò presto e presto entrerò nel quaratantreesimo. Il mio quarantatreesimo anno! E’ vero! Eccoli, dunque, arrivare gli anni che desideravo tanto ardentemente quando ne avevo 20! Gli anni della quarantina. Gli anni che portano alla cinquantina! Gli ultimi begli anni di un uomo! La cinquantina? Ah! alla velocità con cui procede la vita, ci arriverò domani o dopodomani al massimo.» (Qui sotto nella f.to  Léauteaud) 

da Diario, 1893-1956 Garzanti, 1969

Virginia Woolf

Qualche giorno prima del Natale 1938, Virginia Woolf scrive una lettera per ringraziare la sua amata Vita Sackville-West di un regalo che ha appena ricevuto da lei…E racconta la quotidianità invernale in un cottage dell’Hampshire dove in quei giorni è ospite:

«Sì, è arrivato un pensiero davvero principesco – anzi, più di un pensiero. Il pâté ha salvato le nostre vite, i tubi ghiacciati, l’elettricità saltata, niente da mangiare, o se c’era non si poteva cucinare. Ed ecco il pacco da Strasburgo, così abbiamo mangiato pâté a pranzo e a cena  – magari potessi mangiare sempre pâté, sarei contenta anche di congerlarmi, se potessi mangiare fegato d’oca per sempre. Ma che stravagante che sei! E com’è – o era – tremendamente in accordo con il rosa, e le perle e il pescivendolo e il delfino quella crema rosa con dentro il gioiello nero del pâté. Oh, sì. E certo che c’entra l’amore – a cui ti riferisci in modo così criptico, conturbante. Mettilo per iscritto e allora entrerò in argomento.»

da Un anno con Virginia Woolf, Neri Pozza, 2021

Cesare Pavese

Il 25 dicembre 1948, Pavese, nel suo Il mestiere di vivere, svolge una annotazione non priva di filosofica profondità, e più legata alla cultura occidentale che non alla psicologia:

«Chi rinuncia con convinzione e con metodo, ha costruito la sua vita sulle cose cui rinuncia. In sostanza, non vede che queste. Strana mania di volere il doppione di ogni cosa: del corpo, l’anima, del passato, il ricordo, dell’opera d’arte la valutazione, di se stesso, il figlio…Altrimenti, i primi termini ci parrebbero sprecati, vani. E i secondi allora? E’ perché tutto è imperfetto? o perché si “vedono le cose soltanto la seconda volta?”»

da Il mestiere di vivere, Einaudi, 1952

 

Dylan Thomas

Nel 1945 il produttore della BBC Lorraine Davies chiede al poeta di “Colle delle felci” di fare alla radio un discorso natalizio per Children’s Hours, il programma dei bambini. C’erano delle resistenze in merito in quanto Thomas era ritenuto imprevedibile e la trasmissione doveva viaggiare su binari sicuri. Ma Dylan Thomas fece ben di più. Scrisse uno dei suoi brani migliori, fiabeschi, immaginosi, rapiti. Tant’è vero che venne pubblicato: Il Natale di un bambino in Galles rimase un racconto classico per i bambini, edito da noi da Emme Edizioni. Potrebbe essere introdotto da questi suoi versi: «Tutti i Natali rotolano giù dalla collina verso il mare bilingue come una luna fredda e precipitosa». Ecco alcuni brani del racconto:

«Ogni Natale era così uguale all’altro, in quegli anni dietro l’angolo di quella cittadina di mare ora priva di qualsiasi rumore salvo quello di voci lontane che parlano e che a volte risento un attimo prima di addormentarmi, che non riesco mai a ricordarmi se è nevicato per sei giorni e sei notti quando avevo dodici anni o se è nevicato per dodici giorni e dodici notti quando ne avevo sei.

Anni e anni fa, quando ero bambino, quando c’erano i lupi nel Galles e uccelli del colore delle sottanine rosse di flanella sfrecciavano oltre le colline che avevano forma d’arpa (…) quando cavalcavamo senza sella per le folli e felici colline, nevicava e nevicava. (…) La nostra neve non veniva solo giù dal cielo da secchi di intonaco bianco, usciva dalla terra come uno scialle e nuotava e fluiva dalle braccia e le mani e i corpi degli alberi; la neve cresceva nottetempo sui tetti delle case come un muschio puro e bianco come un nonno, si posava minuta sui muri delle case come edera bianca e si posava sul postino, mentre apriva il cancello, come un turbine di stupidi, insensibili, bianchi e strappati auguri di Natale.(…) C’erano i Regali Utili: scialli del passato quando si andava in carrozza e che ti sommergevano, e guanti fatti per giganteschi bradipi; sciarpe zebrate fatte di una sostanza simile a una gomma setosa che tirandola, come al tiro alla fune, si allungava fino alle galosce; berretti scozzesi che ti accecavano come i copri-teiere accecano le teiere e cappelli da ussaro in pelle di coniglio e passamontagna per vittime di tribù di cacciatori di teste”; ma più strampalati ancora erano i “Regali Inutili”: sacchetti di gelatine umide e multicolori e una bandiera bella ripiegata e un naso di cartapesta e il berretto di un conducente del tram e una macchinetta che forava i biglietti e aveva un campanello che suonava; mai una catapulta; una volta, per sbaglio, sbaglio che nessuno ha mai saputo spiegarsi, una piccola accetta; e un’ochetta di celluloide che faceva, quando la schiacciavi, un suono assolutamente non da ochetta, una specie di muggito miagolante che avrebbe potuto fare un gatto con ambizioni di mucca; e un libro da pitturare nel quale potevo colorare con i colori che volevo l’erba, le piante, il mare e glia animali, e ancora oggi le pecore luminose blu-cielo stanno pascolando l’erba rossa sotto gli uccelli verdi dai becchi arco balenati (…). Guardando dalla finestra della mia stanza la luce della luna e l’infinita neve color fumo, potevo scorgere le finestre illuminate di tutte le altre case della nostra collina e sentivo la musica che da esse saliva verso la lunga notte che scendeva. Abbassavo la lampada a gas, entravo nel letto, dicevo delle parole al buio intimo e santo, e poi dormivo.»

da Il mio Natale nel Galles, Emme Edizioni, 1981

Sylvia Plath

Il giorno dopo Natale del 1958, Sylvia Plath fa il punto della sua vita e nonostante le impressioni di Ted Hughes sembra che sia tutt’altro che serena. Ha 26 anni e le domande che le si affacciano sono soprattutto quelle inerenti la propria stabilità economica. Il matrimonio col poeta inglese è ormai un dato accertato:

«Una fredda mattina postnatalizia. Un buon Natale. Perché ero felice, dice Ted. Ho giocato, scherzato, accolto mamma con affetto. Certo la odio, ma non solo. Le…voglio anche bene. Dopotutto, come si suol dire, è mia madre. «Non può essere invadente se non glielo permetti». Allora odio e paura derivano dalla mia insicurezza. Dovuta a che cosa? E come combatterla? Paura di fare scelte affrettate che escludono le alternative. Nessuna paura di sposare Ted, perché lui è elastico, non m’imprigionerà. Problema: vogliamo entrambi scrivere, abbiamo un anno. E poi? Niente lavoretti occasionali. Una professione sicura e lucrosa. Psicologia?»

da Diari, Adelphi, 1998

Giuseppe Ungaretti

Facendo deroga alla cronologia, alle note diaristiche e alle lettere, vale però forse la pena di chiudere questa sequenza con un frammento di una delle più luminose poesie di Ungaretti che porta la data di Napoli, 26 dicembre 1916 e il titolo di “Natale”: «Qui/ non si sente/ altro/ che il caldo buono.// Sto/ con le quattro/ capriole/di fumo/ del focolare».

da Poesie, Mondadori, 1974

 

 

Proust e Céleste, a un secolo dalla morte

«Vedrai, il signor Proust è un uomo gentilissimo. Bisogna star molto attenti, questo sì, a non dispiacergli, perché osserva tutto: ma una persona così squisita non l’incontrerai mai».  Così Odilon alla giovane moglie Céleste Albaret, destinata a condividere per nove anni la vita di Marcel Proust, vale a dire gli …

Letture in casa Einaudi: i promossi e i bocciati

Come pensa e come giudica il consulente di una grande e prestigiosa casa editrice? Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi 1941-1991 risponde, almeno sotto il profilo storico a questa domanda. Cinquant’anni di opere, di valutazioni, ma soprattutto di impliciti confronti tra lettori ormai parte della storia letteraria e …

Storie, storia e fiabe nell’Europa dei vagabondi

In una fiaba francese, I due viaggiatori, compaiono due soldati ormai in congedo che tirano ai dadi per stabilire chi dei due deve farsi cavare gli occhi. Il più fortunato farà l’accompagnatore del cieco ed entrambi potranno così mendicare con successo. Si direbbe un prezzo molto alto per un mestiere …

Némirowsky, Scrivere fa passare il tempo

  «Irène trasferita oggi improvvisamente destinazione Pithiviers (Loiret).» Con queste parole Michel Epstein comunica a André Sabatier, redattore della casa editrice Albin Michel, che la moglie, Irène Némirovsky, è stata arrestata il 13 luglio 1942. Il marito della scrittrice chiede di intervenire a chiunque gli venga in mente fra le …

Back to Top
error: Content is protected !!