Nei boschi e tra gli amori del Grande Meaulnes

Compie centodieci anni l’indimenticabile romanzo di Alain-Fournier

Disegno di Thévenet per Le Grand Meaulnes,Fayard, 1971

Centodieci anni fa,  nel luglio 1913, la Nouvelle Revue Française iniziava a pubblicare a puntate quello che sarebbe divenuto un romanzo di culto, Il grande Meaulnes, una storia ambientata nel cuore antico della Francia, tra boschi e campagna. Un romanzo di formazione, si è detto spesso, perché i due protagonisti si confrontano per la prima volta con l’amore, con lo slancio verso la vita e la condanna alla delusione. Ma la qualità che ha distinto il romanzo di Alain-Fournier rispetto alla vasta rassegna di opere narrative legate ai tempi inquieti dell’adolescenza, è la stessa che partecipa al sogno, alla confusione che accompagna l’infanzia quando si apre all’esperienza e ai desideri di una nuova stagione. Il paesaggio verde e incantato del Grande Meaulnes ne è parte integrante come lo è la quotidianità dei ragazzi. Ragazzi che portano gli zoccoli, che osservano i nonni lavarsi con un secchio d’acqua del pozzo, che aspettano in cortile che sia accesa la stufa della scuola. E’ la cornice che si è voluta definire rustica contro l’immaginario poetico che scaturisce da questi ambienti e di cui pochi indizi sono nondimeno formidabili: un castello nel bosco, una festa notturna, la seducente figura di Yvonne de Galais, le fughe misteriose e i racconti di Agostino Meaulnes fatti al narratore, suo coetaneo, François Seurel. Paradigmaticamente lo scrittore ha dato un nome vago e pressoché intraducibile all’oasi che i giovani cercano nei boschi: domaine. Parola che può indicare una vasta tenuta, oppure un regno, in ogni caso un particolare territorio. In una delle prime versioni italiane, il traduttore Piero Bianconi sottolineò l’ambiguità del termine mantenendo nel testo il corrispondente etimologico, “dominio”. E’ questo regno, dunque, il contraltare della vita del villaggio, il luogo dove gli amori sospesi nel cuore dei protagonisti prendono forma, si confrontano con inattese svolte del destino. Lo psicologismo, in Alain-Fournier, non è di casa. E la fortuna del romanzo è forse legata anche alle domande che pongono i personaggi con l’intreccio delle loro vite.

“Miracles”

Uno scorcio di Épineuil-le-Fleuriel dove lo scrittore è vissuto e dove è ambientato il romanzo (f.to G. Savino)

Di questo mondo romanticissimo restano non solo le pagine dell’unica opera pubblicata in vita da Alain-Fournier, ma anche alcune poesie e numerosi brani di prosa comparsi per la prima volta nel 1924 da Jacques Rivière con il titolo Miracles, libro poco conosciuto e raramente tradotto. Ecco in una versione inedita, “L’amore cerca luoghi abbandonati”

«Nelle lunghe sere piovose l’amore cerca luoghi abbandonati.   
Abbiamo seguito il sentiero d’erba che andava non so dove una domenica di settembre. Ci ha portati su un’altura dove la pioggia si raccoglieva come una bianca foresta perduta. Là, in una vigna terrosa e annerita, mi precedeva il mio amore. Con tenerezza guardavo le sue spalle trasparenti sotto la seta bagnata e la sua mano, il gesto che accompagnava la sciarpa rossa, fradicia, dicendo: “Ancora più lontano! Ancora più persi!”
Abbiamo trovato un boschetto deserto con grandi archi di ferro rovinati a terra, vestigia di un pergolato. In lontananza, nella vallata, si scorgeva un paese fumante di pioggia. Volti umani che guardate dietro le finestre, com’era lento davanti a voi lo scorrere delle ore nelle strade e monotono alle orecchie il suono dell’acqua nel canale – accanto la sera randagia  lungo i viali del nostro rifugio di frasche! Ci siamo gettati pioggia sulla faccia, ci siamo ubriacati del suo gusto denso. Siamo saliti sui rami fino a bagnarci la testa nel grande lago del cielo mosso dal vento. Il ramo più alto, dov’eravamo seduti, si è spezzato e siamo caduti entrambi in una cascata di foglie e di risate, come in primavera due uccelli impacciati nell’amore. E talvolta, amore,  avevi questo gesto selvaggio, scostare coi capelli dagli occhi, i rami del pergolato, perché il giorno continui nella nostra tenuta le cavalcate sui sentieri incerti,  gli incontri colpevoli, le attese ai cancelli, e le feste misteriose che portano la pioggia, il vento e gli spazi perduti.»

Questi passi sembrano  un estratto dell’immaginario che Alain-Fournier riserva al narratore del Grand Meaulnes: con la distanza che separa l’Eden amoroso dal villaggio, con una pioggia sensuale che isola gli amanti e li relega in  un mondo “altro” senza il tedio, senza le contingenze del quotidiano.  Ugualmente le poesie di Miracles insistono su questo registro: l’amore vi si affaccia come salvazione e momento epifanico come nei versi di “Attesa”.

Una poesia di Alain-Fournier

Attesa 
Attraverso noiose estati in classe
in silenzio
e che piangono di noia, 
Sotto l’antico sole dei miei pomeriggi 
Pesanti di silenzio 
solitari e sognanti d'amore 

d’amore sotto i glicini, in ombra, nel cortile 
di qualche casa tranquilla e persa tra i rami, 
Attraverso mie lontane infantili estati, 
per chi sognava l’amore
per chi  piangeva l’infanzia, 

Sei arrivata,
un caldo pomeriggio nei viali 
sotto un ombrellino bianco
con un’aria stupita, seria,
un po' 
sospesa come la mia infanzia, 
con un ombrellino bianco. 

Sorpresa del tutto
insperata per essere venuta ed essere bionda, 
d’esserti messa
d’improvviso
sul mio sentiero,
e subito regalare la freschezza delle tue mani 
e nei capelli tutte le estati del Mondo. 

La biografia con le parole di Jacques Rivière

Un’aula scolastica di Épineuil-le-Fleuriel ai tempi del Grande Meaulnes. Dal 1991 la scuola è un museo (F.to. G. Savino)
Il cortile e la scuola-museo di Épineuil-le-Fleuriel dove visse coi genitori, insegnanti, Alain-Fourier (f.to G. Savino)

Il critico letterario Jacques Rivière conobbe Alain-Fournier nell’adolescenza e ne sposò la sorella, Isabelle, nel 1909. Introducendo Miracles, scrive: «Sono il solo ad averlo davvero conosciuto. Abbiamo legato al liceo Lakanal, dove eravamo entrati nell’ ottobre 1903 per prepararci all’Ecole Normale Supérieure. Avevamo la stessa età, diciassette anni. L’amicizia non fu immediata né si avvicinò senza peripezie». Rivière descrive lo scrittore animato da un forte spirito di indipendenza che più tardi «attribuì a Meaulnes» e che lo portò a prendere il comando di un gruppo di ribelli contro l’istituzione scolastica e le sue gerarchie. Nondimeno Alain-Fournier si confidava (l’incontro tra i due avvenne a Parigi): «parlava del suo paese con passione. Era nato alla Chapelle-d’Angillon, un piccolo capoluogo dello Cher, a una trentina di chilometri a nord di Bourges, sui confini della Sologne e del Sacerrois, nel centro della Francia. Ma era soprattutto di Épineuil-le-Fleuriel, un ancora più piccolo villaggio, situato all’estemità opposta del dipartimento, tra Saint-Amand e Montluçon, dove i genitori furono a lungo insegnanti e dove aveva trascorso l’infanzia, che mi faceva lunghe descrizioni entusiaste da innamorato. Vedevo la sua vita di giovane contadino in questa campagna priva di pittoresco, lenta, pura e ricca e di cui la sua anima era intrisa.» Per Rivière il mondo dell’amico si concentrava in ciò che aveva scoperto dalle finestre della scuola di Épineuil. Ma nonostante tante diversità i due finiranno col comprendersi profondamente. Dal punto di vista letterario, secondo Rivière, la loro giovinezza era immersa nel clima del simbolismo: «Un clima spirituale – scrive ancora il critico- un luogo di delizioso esilio, o di rimpatrio piuttosto, un paradiso. Tutte quelle immagini che oggi spenzolano sbrindellate e flosce, ci parlavano, ci circondavano, ineffabilemte ci accompagnavano.»

Gli altri libri postumi

Il nome anagrafico dello scrittore era Henri Alban Fournier (3 ottobre 1886-22 settembre 1914). F.to wikimedia

Alain-Fournier morì nel 1914 in una delle prima battaglie nei pressi di Verdun. Il suo corpo venne identificato solo nel 1991 in una fossa comune tedesca. Dopo Il grande Meaulnes aveva continuato a scrivere. Ha lasciato incompiuta una commedia e un altro romanzo intitolato Colombe Blanchet. Proprio Jacques Rivière, che è stato il curatore dei brani sparsi di Miracles, risulta coautore della una cospicua corrispondenza con Alain-Fournier editata nel 1925. Nel tempo si sono aggiunti a questo primo carteggio quelli con la famiglia e con un’amante, Pauline Benda, un’attrice nota alle scene come Madame Simone: le loro lettere sono state pubblicate nel 1992 da Fayard: Alain-Fournier, Madame Simone, Correspondance 1912-1914.

Jack Kerouac e la fortuna del grande Meaulnes

Il ruolo dell’amico Rivière, prima redattore e poi direttore della Nouvelle Revue Française, fu cruciale per far conoscere Il grande Meaulnes. Il romanzo, come detto, uscì sulla Nrf a puntate e, nello stesso anno, in volume, sollevando immediatamente grande interesse. Non si conosce il numero di edizioni fatte dopo la comparsa dei “tascabili” all’inizio degli anni Sessanta. L’opera ha influenzato il Salinger autore di un altro romanzo-culto e di formazione, “Il giovane Holden”. Certamente ha affascinato Jack Kerouac che infila una copia del Grande Meaulnes nel bagaglio del protagonista di “Sulla strada”, Sal Paradise: unica scorta letteraria del suo viaggio. Forse inaspettatamente per un’opera del primo Novecento, i critici Robert Baudry e Francine Mora-Lebrun hanno messo in evidenza come il tema centrale riprenda la La Quête du Graal. Perceval e Gaalad in questa lettura sono gli antesignani di una ricerca di perfezione dell’anima che Agostino Meaulnes e François incarnano con altre vesti; Baudry ha parlato esplicitamente di “un romanzo iniziatico” in cui è l’ideale ad essere il vero oggetto dell’itinerario dei moderni cavalieri. Ma al di là dei parallelismi, delle simbologie, degli affondi nel corpo della storia letteraria, il cuore della seduzione esercitata della scrittura di Fournier prende in prestito l’atmosfera della leggenda per farne un capolavoro della modernità con una scrittura limpida, capace di raccogliere in ogni pagina quella visualità che immerge il lettore in un altro spazio. Per non dire dell’incipit dove nostalgia e mistero ci prendono subito per mano pronunciando quasi sommessamente una promessa:

«Arrivò a casa nostra una domenica del novembre 189… Dico sempre “casa nostra”, anche se la casa non è più nostra. Abbiamo lasciato il paese da quasi quindici anni e certo non ci torneremo mai più.»

Marco Conti

© riproduzione riservata

Frankenstein, la storia nata da un gioco

Lord Byron lasciò la villa dove nacque Frankenstein alle sette del mattino del 17 settembre 1816. Con la secchezza di un telegramma scrisse nel suo diario: «Sveglia alle cinque – lasciata villa Diodati alle sette – su una delle vetture del posto (char à bancs) – la servitù a cavallo –  Tempo magnifico, il lago calmo e limpido – il monte Bianco e l’Aiguille d’Argentière che spiccano nitidi – le sponde del lago stupende – raggiunta Losanna prima del tramonto».  Byron, diretto a un’escursione sulle Alpi non annota nulla sui giorni e le notti in compagnia di Percy e Mary Shelley e del suo medico personale, John Polidori. Neppure un accenno infine al suo lavoro sul terzo canto di Childe Herold, di cui sapremo attraverso l’autrice di Frankenstein.

Soltanto quattro mesi prima, il 14 maggio,  sulle sponde lago di Ginevra arrivano Percy Shelley, la sua amante Mary Goldwin (che sposerà alla fine di quell’anno)  e la sorellastra di lei, Claire Clairmont.  Undici giorni dopo  sono raggiunti da George Byron e Polidori. Le sistemazioni sono conseguenti alle finanze: Shelley affitta una casetta e il poeta di Mazzeppa la sontuosa Villa Diodati (nella fotografia sotto). Ma l’estate è una delle più turbolente del secolo. Freddo e pioggia limitano le passeggiate e le gite in barca. Il gruppetto si diverte come può leggendo storie di fantasmi «tradotte in francese dal tedesco», sinché Lord Byron lancia una sfida: ognuno di loro avrebbe dovuto inventare e scrivere una storia. Più incerta degli altri è proprio Mary che ogni giorno sembra doversi scusare per non saper imbastire nulla. Lo spiegherà lei stessa nel 1831 scrivendo l’introduzione a una nuova edizione del suo più famoso romanzo.

L’idea di Frankenstein e i vermi di Darwin

Una sera i loro discorsi accennano al galvanismo, alle idee espresse da Erasmus Darwin dopo un esperimento nel quale si dà conto di un frammento di verme conservato in un vasetto che, per qualche ragione, aveva iniziato «a muoversi di moto volontario». Nell’introduzione  del 1831, Mary Shelley scrive: «Su questo discorso passammo l’intera nottata, e anche l’ora delle streghe era passata prima che ci ritirassimo a riposare. Quando misi la testa sul cuscino non mi addormentai, né posso dire di essermi messa a riflettere. Spontaneamente la mia immaginazione prese possesso di me guidandomi, dandomi una dopo l’altra le immagini che si stagliavano nella mia mente.»

E più dettagliatamente specifica: «Vidi – a occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta – il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla “cosa” che aveva messo insieme. Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato, e poi, all’entrata in funzione di qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita e muoversi di un movimento impacciato, quasi vitale. Una cosa terrificante, perché terrificante sarebbe stato il risultato di un qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo» .

Castelli, vampiri, fantasmi

Il contesto in cui nasce il romanzo di Mary Shelley è già di per sé eloquente: un sodalizio letterario in un paesaggio romantico e un sogno o perlomeno un immaginario ossessivo. Tuttavia, in quel periodo, il romanzo gotico ha già i suoi capolavori: il capostipite, Il castello di Otranto  di Horace Walpole,  ha ormai mezzo secolo di vita quando la compagnia si riunisce sul lago di Ginevra (la prima edizione è del 1764). Nel 1796 compare Il Monaco di Mattew Gregory Lewis; l’anno dopo è la volta di  Ann Radcliffe con L’Italiano o il Confessionale dei penitenti neri. Così nel 1818, quando esce la prima e anonima edizione di Frankenstein prefata da Percy Shelley è già trascorsa la prima ondata letteraria che scrive di paesaggi tenebrosi, figure che incarnano il male e più grevi voci dell’inconscio.  La prima edizione del romanzo coincide addirittura con la pubblicazione del romanzo postumo L’abbazia di Northanger, dove  Jane Austen si diverte parodiando i terrori della Radcliff.

Un’altra storia

Forse alla scintilla da cui scaturì la storia di Mary Shelley non fu neppure estranea un’altra narrazione: Le Miroir des événemens actuels ou la Belle au plus offrant,  dove François-Felix Nogaret  raccontava i tentativi di uno studioso, un certo Frankestein, di animare un automa chiamato “L’uomo artificiale”. La storia è straordinariamente diversa ma non si può escludere che il nome di Frankestein fosse nell’aria. Del resto Mary Shelley aveva all’epoca 19 anni e le idee presenti nel suo romanzo non sono ricollegabili a Nogaret, piuttosto sono vicine a quelle del padre dell’autrice, William Godwin, protese verso un illuminismo individualista,  libertario colmo di sogni.

Mary aveva avuto una educazione da outsider: senza aver fatto studi regolari aveva a disposizione una ricca biblioteca e stimoli incomparabili per una ragazza di quel tempo. Il padre, romanziere ed editore, ospitava a casa sua il poeta Samuel Taylor Coleridge; lo stesso Percy Shelley fu un seguace delle tesi di Godwin, il quale credeva in una umanità perfettibile. Idea quest’ultima che si può leggere nella parabola di Frankenstein benché proprio la storia di Mary rovesci l’assunto circa la creazione di un uomo nuovo con il fallimento dell’impresa. Il titolo completo del libro lo annuncia: Frankenstein o il Prometeo moderno. L’ambizione della scienza sconvolge dunque l’ordine naturale  che si ribella al creatore.  Il “mostro” finirà per rimproverare allo scienziato le sue pretese e darsi la morte.

Lo stesso successo dell’opera non può essere del tutto assimilato al clima della letteratura gotica perché apre la strada alla narrazione fantascientifica e ai dubbi che questa implica. Se si assume questo punto di vista autoriale se ne trova conferma in  un altro libro di Mary Shelley, L’ultimo uomo, del 1826. Qui la matrice è del tutto fantascientifica e distopica poiché vi si racconta la fine dell’umanità nel XXI secolo a causa di un’epidemia di peste profetizzata dalla sibilla cumana, secoli prima. La storia finisce nel 2100 dopo una fuga dei protagonisti dall’Inghilterra, un viaggio tra la Svizzera e l’Italia e una tappa nella città eterna dove si salva un solo uomo. In margine va annotato che la critica  accolse male l’opera deridendo l’immaginario evocato. Viceversa L’ultimo uomo è considerato oggi un libro pionieristico della letteratura fantascientifica ed è continuamente oggetto di studio.

Tra le pagine di Frankenstein

Nel cuore della trama di Frankenstein compaiono marcati riflessi di angosce personali. Diversamente da quanto accade in molte opere pertinenti al romanticismo nero, quelle di Mary Shelley,  e di Dracula (1897) di Bram Stoker,  sono il frutto non solo delle idee del tempo ma della storia personale degli autori. Bram Stocker visse nella malattia parte dell’infanzia e nel suo letto trovò conforto con la lettura. Mary ugualmente contò su un’educazione informale, in compagnia soltanto del padre poiché  la  madre, la scrittrice Mary Wollstonecraft, morì undici giorni dopo il parto della figlia. Mary stessa perderà sua figlia concepita con Percy e nata prematuramente nel 1815; disgrazia che si ripeterà più tardi con la morte del secondo figlio. La vicenda di Frankestein come Prometeo moderno se da un canto nasce dall’ambiente famigliare anticonformista e rivoluzionario, dall’altro ha un legame sotterraneo con la ribellione al destino precario della vita umana, forse anche con un sentimento di colpa, sia per la morte dalla madre che consente la sua vita, sia per quella del suo primo figlio.

Un labirinto di storie: Il Vampiro 

Il viaggio a Ginevra e i commenti posteriori di Mary Shelley non precisano mai che dalle serate byroniane nacque un’altra opera importante per il romanticismo, vale a dire Il vampiro di John Polidori. Il medico e scrittore di origine italiana lo pubblicò nel 1819 a Londra quando ormai i rapporti con Byron si erano guastati. Forse al silenzio di Mary su questo racconto nella prefazione di Frankenstein contribuì la stessa malevolenza di Byron che prendeva in giro Polidori chiamandolo “Polly Dory”, cioè povero Polidori, nomignolo che viene indirettamente evocato  dalla Shelley nella prefazione riferendosi alla morte prematura dello scrittore nel 1821, forse per suicidio. Ma la scrittrice non cita neppure il brano che Byron ha scritto in quelle sere. Quest’ultimo comparirà in calce al racconto in versi Il giaurro  (dove si profila la figura di un vampiro) soltanto una edizione tardiva del 1818 che completa quella originaria del 1813.

Il vampiro ebbe ugualmente una storia degna del più torbido romanticismo. Ideato in un contesto sfarzosamente letterario ma tenuto in serbo per qualche tempo (Mary Shelley scrive: «Il povero Polidori ebbe qualche idea terrificante su una donna con la testa di teschio che era stata punita per aver guardato dal buco della serratura» e che finisce nella tomba dei Capuleti), Il vampiro è ispirato proprio a Lord George Byron in quanto personaggio aristocratico, narcisista e tenebroso. Nel libro il protagonista è Lord Ruthven, nome che non casualmente era stato usato da un’ex amante di Byron,  Caroline Lamb, in un suo romanzo dove  l’autrice voleva demolire il profilo del poeta. Come se non bastasse questo intreccio di rancori, per facilitare le vendite l’editore del Vampiro sostenne che l’autore poteva essere lo stesso Lord Byron. Byron negò recisamente la paternità, ma Polidori invece non mosse un dito per rivendicarlo, con questo godendosi forse l’imbarazzo degli ambienti aristocratici e dello stesso poeta.

In margine vale la pena di annotare che i diari di John Polidori vennero pubblicati solo nel 1911 (The Diary of John Polidori ) con la curatela di William Michael Rossetti, scrittore di famiglia poiché nipote dell’autore. La sorella di Polidori, Frances,  sposò infatti Gabriele Rossetti da cui nacquero con Michael e Maria anche Christina e Dante Gabriele Rossetti.

Marco Conti

Bibliografia: Mary Shelley, Frankenstein: or, The Modern Prometheus, Colburn and Bentley, London, 1831

Riccardo Reim (a cura di), I grandi romanzi gotici, Newton Compton Editori, Roma, 1993

Kamel Daoud & Raphaël Jerusalmy, BibliOdissées: 50 histories de livres sauvés, Imprimerie Nationale Éditions, Arles, 2019

Mary Shelley,  L’ultimo uomo, Giunti, Firenze, 1997 (prima edizione italiana)

John Polidori, Il vampiro, Studio Tesi, Roma, 2009

George G. Byron, Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno. Diari, Adelphi, Milano, 2018

George G. Byron, The Giaour, a fragment of a turkish tale, Jon Murray (publisher), London, 1813

Altre fonti:

Mary Shelley – Wikipedia 

 

 

 

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