Elisa Ruotolo: Alveare, ovvero il cuore del mondo

«Là dentro la Città vive una strana notte/ dove il riposo è bandito dalle opere/ e il chiasso accompagna le ore»; «E’ un roveto che scotta d’ira – questa casa». Le voci che parlano, rispettivamente quella del narratore e dell’ape Regina, sono voci totalizzanti. La città è l’alveare e l’alveare è il mondo. Elisa Ruotolo, autrice di Ho rubato la pioggia, evoca – proprio come ha fatto nei suoi racconti – il destino dell’essere. Lo fa con i versi di Alveare, un poemetto appena edito da Crocetti, dove  i punti di vista si intrecciano. Si ascoltano le voci dell’apicoltore, del narratore, ma soprattutto parla l’alveare, riflettendosi nelle voci  della Regina «madre di tutti» (ma, confessa, «non governo me stessa») e degli altri destini: La Pupa, La Bottinatrice, La Magazziniera, la Nutrice, Il  Fuco, fino alla Peste, per tornare in chiusura del libro al “noi” corale della collettività in viaggio: la Sciamatura verso nuovi campi, nuove arnie e quindi La Città Nuova.

Un’allegoria tra i classici

In seconda di copertina l’autrice commenta: «Sono voci piene o solo accennate, eppure ciascuna rivela il suo bisogno di essere, di vivere, di alimentare una ciclicità che rappresenta – per noi, come per le api – l’unica eternità possibile.» Alveare nasce come allegoria che rovescia il tema classico, quello che innerva il quarto Libro delle Georgiche virgiliane a cui, nel 1539, si unisce il poema didascalico Le api di Giovanni Rucellai: non sono le api ad essere come gli uomini ma è la storia umana a imitare quella dell’alveare. Se Virgilio credeva come Aristotele che «l’aerea rugiada del miele» fosse «dono celeste», anziché il prodotto dei fiori, nei versi di Alveare, il nettare è fatica e penuria:

Il dio della Città è feroce 
cura le nostre pesti, eppure
ci affama.

Vivere è allora «disfare l’eterno/ è scoprirne la menzogna», «da quando ogni fiore – negli occhi fa male». Nel gioco delle parti la storia umana irrompe solo per negare ogni presunzione bucolica con le parole dell’Apicoltore: «Il pastore può forse amare /la moltitudine che si dà ciecamente al suo governo?». «Come lui lo è del gregge/ io sono la creatura dell’alveare», «io dio d’un nettare che sgorga/ non in obbedienza di un volere/ ma in soddisfazione d’una necessità». Il suo sguardo è ugualmente quello di un escluso: «Osservo senza comprendere/ restando incompreso.»

Dove inizio e fine coincidono

Il verso di Elena Ruotolo, fitto di scenari più che di immagini, ha un registro compatto. Cambia il punto di vista dei monologanti chiamati in causa ma la visione resta ancorata a un destino che non ammette repliche, ad una storia cresciuta come l’alveare nel ciclo del tempo, tra luce e buio, vita e apparente stagnazione invernale. «Quanto serve per stare al mondo?», si chiede l’ape Magazziniera: «Un chicco o il campo in cui si perde?/ Un acino o la sua vite intera?/ Un fiore o il fondo che lo nutre?» Solo la Sciamatura, questo viaggio rituale al termine di un ciclo di lavoro e accumuli, forma uno scarto, un nuovo immaginario: «Esiste per noi una sola domenica/ allora smettiamo il rigore del gesto utile/ e l’esilio allenta il peso della rovina.»

Il disegno poetico di Elisa Ruotolo ha qualcosa di antico e vivido, porta in sé, col tema, quella cadenza ineludibile che è stata degli antichi senza appartenere a nessuno, dove fine e inizio coincidono. Ecco un frammento dell’incipit dedicato all’Inverno:

Ogni voce è persa e dagli occhi non arriva
grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire e ottunde
la profezia del verde. Tutto cade dall’alto
la pioggia lava, poi la neve imbianca
e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore
alla trincea e già raccontare non sanno
la propria memoria.  

Marco Conti

Elisa Ruotolo, Alveare, pp. 83, Crocetti Editore, 2023; euro 12,00

Api in un manoscritto medioevale

Sarner, Novantanove code in poesia

Coda come chiusura di un brano musicale, coda come ultima parte di una coreografia tripartita, coda infine come congedo di uno scritto. Éric Sarner, di cui due anni fa Gallimard ha ospitato una significativa silloge dell’opera poetica sotto il titolo di Sugar et autres poèmes, torna al verso con questo titolo evenemenziale, 99 Codas (sans Récits) edito da la rumeur libre editions, con una “partitura” che ha lo slancio della grazia breve e frammentaria ma che costruisce, di passo in passo, di testo in testo, un tema non eludibile. E al di sopra del tema pone un’epigrafe di Jacques Réda: «Comment finir? On ne sait pas./Et l’on ne sait pas parce qu’on ne veut pas. Personne ne veut finir.» Nessuno vuole finire…E tuttavia le scene si moltiplicano novantanove volte in questi versi. Qualche volta è un’immagine dai contorni contestuali sfumati, altrove un commento che sfugge alla sua storia. La parte parla, insomma, per il tutto.

Dice: vorrei vedermi con del bianco
Tutto attorno
Qualcosa di luminoso.
*
La notte non cadeva, piuttosto
si sporgeva sul tetto
Come una madre - sopra il letto.

Sarner sceglie un istante di una possibile diegesi, ovvero porta in evidenza briciole di vissuti, epifanie di figure entrate nella sua storia. Se in passato ha messo in versi un intero microcosmo, come nel caso del pugile Sugar (Ray) nel poema omonimo, qui di ogni figura vale il riflesso richiamato alla memoria con sintesi estreme. Il lettore di Sarner che confrontasse quest’ultimo testo con l’opera, scoprirà due momenti che quasi la preparano: Petits chants de proximité e Presque un chant d’errance. Come in 99 Codas  anche là si avverte un passo lirico-narrativo che procede per evidenze: con la prima raccolta Sarner entra per esempio in contatto con l’immaginario di alcuni autori prediletti come Pasolini: «Le notti bianche di Pasolini/le mani callose/ che cercava nel nero/ delle miserie di periferia»; sull’altro versante si esplicita una memoria dettagliata attraverso 80 parole di lessico sefardita. In entrambe la poesia vive in equilibrio tra il commento e l’immagine.

Le voci, i flashback, l’arte

La contrazione estrema che Sarner si è dato come misura in 99 Codas costituisce anche la forza dei suoi versi. Il racconto si raggruma in flashbeck, in voci improvvise che irrompono sulla scena per lasciarla conclusivamente.  «Elle ouvrit – les volets. / C’était 1895. Le soleil entra fort./ Son chigon blond un peu défait/. Il y avait cette musique/ Portée par l’eau du ruisseau,/ Just eau dessous – / Et / Par ce qui montait de son cœur.»

L’irruzione della voce talvolta è improvvisa e netta:

E concluse:
«Da quando sei morta,
Non ho mai smesso di invecchiare, lo sai?
Rifletté e aggiunse:
Ho fatto – come ho potuto.
Ho fatto finta di niente»

La misura breve del verso, la disposizione al centro della pagina, evidenziano il dettato come un’epigrafe che investe tanto la parola del vissuto quanto il discorso sulla parola e sull’arte. Ci sono in queste “code” diversi incisi sul desiderio di esemplarità dell’arte dove Sarner parteggia per la bellezza del non-finito. Come in questo scorcio: «Eugène reprit ancore le petit nuage/ Chiffoné de blanc, en haut à droite/ (le moyen, en fait, celui du milieu)./ Il lui sembla qu’il avait fini par finir./ On ne pouvait pas dire que’il était content,/ Mais ilétait – heureux. / Il resta longtemps a mâchouiller/ Le bois de sa brosse.»

…«Rimase a lungo a masticare/ Il legno del suo pennello». Viene in mente una scena descritta da André Breton in Nadja dove un altro pittore insegue, un tramonto e continua a cambiare colori cercando di prendere in consegna quella bellezza irraggiungibile nel flusso del tempo. Éric Sarner fa masticare il pennello al suo artista che non è convinto del risultato benché in qualche modo soddisfatto. La scena potrebbe essere la prima parte di un dittico di cui la seconda detta un commento totalizzante e pervasivo:

Improvvisamente, giudicò l’esistenza ridicola
Sì ridicola.
    Era quasi da ridere –
Ma non ci riuscì.

Tra esistenza e mimesi, tra l’artista e il suo lavoro si spalanca la tranquilla indifferenza del mondo: «Cette question qui ne se pose que – / Dans l’absence ou devant le drâme: Que ferai-je de toute cette lumière?»

Il sorriso, l’ironia

Il controtempo taumaturgico di 99 Codas  sposa assurdo e ironia come nella “fiaba” cattiva che ha per protagonista l’uccello quetzalcoatlus, «il più grande animale che abbia mai volato», ucciso da un meteorite mentre è intento a divorare piccoli sauri…O in questo ardente distico beckettiano:

La verità più bruciante
E’ nel verde dei pappagalli. 

E ancora nell’intraducibile sardonico sorriso che imprime questi versi: «Oh mon poète! s’écria-t – elle,/ Restez ancore!/ Vous me donnez envie de moi!»

Marco Conti

Éric Sarner, 88 codas (sans récits), pp. 107, la rumeur libre editions, 2023; euro 17,00

Raboni, la poesia parla da lontano

Salerno Editrice pubblica un’ampia edizione critica di “Cadenza d’inganno”, libro-chiave che riunì 17 anni di vita del poeta lombardo

Parler de loin, ou bien se taire…L’invito di La Fontaine  messo in epigrafe da Giovanni Raboni alla prima raccolta di poesie, “Le case della Vetra”, non è mai stato così dissonante  rispetto alla moneta corrente del XXI secolo. Ma quella nozione formale di poesia è stata la cifra più vistosa dell’opera di Raboni e la si apprezza ancora meglio oggi, con la vasta edizione critica del suo secondo libro, in origine pubblicato nel 1975: Cadenza d’inganno, curato da Concetta di Franza per Salerno Editrice con la prefazione di Giancarlo Alfano.  Understatement che si apprezza tanto più nelle pagine di un libro composito che innesta continuamente privato e pubblico, motivazioni intime e le denunce degli anni brucianti della contestazione sessantottina: la morte dell’anarchico Pinelli, il sospetto che si allunga sulla stessa figura intellettuale e borghese di Raboni, sia da parte dell’apparato di potere, sia rispetto all’ideologia giovanile dominante nella piazza.

“Parlare di sé da lontano, oppure tacere” dunque.  Raboni aprì Cadenza d’inganno con una sezione dedicata alla memoria della madre in cui il tema della morte (che contrassegna un parte significativa di tutta l’opera dell’autore) è visitato attraverso scorci che parrebbero neutri e stranianti e dunque destinati a rendere ancora più forte il sottaciuto attraverso scene indirette. Un esempio flagrante è il testo “Amen” dove la memoria è rievocata con le immagini prosaiche degli spazi di un appartamento: «Quando sei morta stavamo/ in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio/ da vendere per pianerottoli e scale./Dunque non t’è toccato di passare/ di spalla in spalla per angoli e fessure,/ d’essere calcolata a spanne, raddrizzata/ nel senso degli stipiti/. Sparire/ era più lento e facile quando sei sparita.(…)». Il registro, l’uso di locuzioni colloquiali, concordano con la scena dimessa, così come la conclusione del testo, formalmente distante ma feroce sul dolore della morte, quando rivolgendosi alla stessa morte pronuncia: «Scendi a pianterreno/ come ti pare (…) liberaci dall’estetica e così sia».

Pubblico e privato

Concetta di Franza mette in evidenza la struttura trasversale del libro che riunisce 17 anni di vita e percorre momenti diversi. Tuttavia in diverse occasioni gli ambiti, osserva la curatrice, gli tematici convergono.  Così accade nella seconda sezione del libro,  “Economia della paura”, articolata su tre prose dove  il concetto di “economia” allude alla sorveglianza politica e contemporaneamente ai sospetti, alla complicità di due amanti durante una conversazione. Mentre il tema politico sarà vivo in un’altra intensa pagina prosastica, “Partendo da Boulevard Berthier” (che richiama un momento dei moti piazza parigini del ’68 in cui morì uno studente) ,   anche la storia amorosa sarà nuovamente voce lirica con i versi di “L’intoppo” : testo che stesso Raboni commentò in una intervista fatta dalla curatrice nel 2004 e poi pubblicata sulla rivista “Italianistica”. Il poeta definì questa parte del libro il «diario di una storia ancora in corso», vale a dire la vicenda di un amore clandestino «un po’ tumultuoso».  Ecco allora il verso più spiccato ma ugualmente pronunciato con informale disinvoltura in “Cosa”:

Mi chiedi «cosa ti piace di me, cosa

più del resto». Una volta per ridere

ho detto il cappellino. Però pensando

la schiena, le ginocchia; e al labbro di sopra che quasi

non tocca quello di sotto: e come

s’impenna liquido, scatta il tuo profilo.

Ma ancora di più la faccia che non sai d’avere

dopo aver fatto l’amore, netta per saliva e sudore,

a una calma che c’era rifiorita.

Lo stesso timbro lo si ascolta con alcuni incipit che simulano un discorso intrapreso e l’inciso dell’espressione parentetica proprio come accade nei colloqui più informali: «Dei rimproveri che mi fa (certi/ non li discuto/ ce n’è uno quando arriva che fa/ male come il freddo sulle dita)» in “Le volte”.

Non solo nell’architettura del libro ma in un medesimo testo accade che Raboni unisca storia e quotidianità attraverso la stratificazione del vissuto, come in “Notizie false e tendenziose” dove l’unica certezza è quella evocata dall’esergo di Mandel’stam, ovvero che «il potere è ripugnante come le mani di un barbiere». Da qui si direbbe provenga  la dialettica tra denuncia e puntuale complementare  percorso tra le mura domestiche, gli amori e le occasioni affettive:

Il perito settore dice che le ferite

non sono incompatibili con la meccanica di

una caduta dall’alto. Il giornale conclude

che dunque il morto si è suicidato.

La lingua referenziale del verso conta qui solo sulla sintesi ellittica (il soggetto politico è quello di Pinelli precipitato nel cortile della questura) portando all’estremo una poetica che solo negli ultimi anni avrà un deciso contraltare con “Quare tristis”, dove rivive il metro del sonetto. Una parentesi.  Poi, più estesamente  di quanto non faccia Cadenza d’inganno,  “Barlumi di storia” nel 2002 tornerà a prendere in consegna il tempo collettivo: e questa volta la voce  lirica del verso avrà la distanza del distacco. Ricordando Pasolini che parlava della bellezza dell’Italia durante il fascismo,  Raboni scriverà: «Il punto/ è che è tanto più facile/immaginare d’essere felici/ all’ombra d’un potere ripugnante/ che pensare di doverci morire.» Come non dargli ragione…

Marco Conti

Giovanni Raboni, Cadenza d’inganno (a cura di Concetta di Franza), pp. 325, Salerno Editrice, 2023; euro 42,00

 

 

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