Le parole di Umberto Bellintani

 

Le mie parole sono capra

ed erano capra e pecora

le mie parole sono zappa

e asino vanga e pietra

Nella poesia italiana non c’è autore che più di Umberto Bellintani abbia fatto suo il tema del sodalizio con il mondo animale. Viene in mente, per confronto, l’immaginario di Giovanni Pascoli, fitto di rimandi familiari agresti e corrispondenze, ma un dichiarato sodalizio sotto il quale si sveli la semplice nozione di appartenenza, si trova solamente in Bellintani. Anche per questo la riproposta, oggi, nella collana Lo Specchio di Nella grande pianura, a venticinque anni di distanza dalla precedente stampa, avrebbe forse potuto essere accompagnata da uno studio critico che raccontasse il profilo di un autore così isolato, nato con l’attenzione di Vittorio Sereni. Nel 1963 fu infatti  Sereni, che dirigeva la stessa collana,  a pubblicare  E tu che m’ascolti.

I libri

La storia letteraria di Bellintani corrisponde  simbolicamente ad un monolite o, se si preferisce, a uno di quegli alberi secolari e solitari che splendono nella pianura mantovana  come nei versi dell’autore. Fin dall’inizio il poeta si presenta con una voce inconfondibile,  «appartata» come ripetono le note editoriali dell’ ultima edizione,  accresciuta ora di alcuni testi.

Umberto Bellintani (f.to Wikimedia) 

Bellintani (nato a San Benedetto del Po nel 1914 dove è morto nel 1999) pubblica  Forse un viso tra mille nel 1953 a cui segue due anni dopo Paria, una plaquette curata da Vittorio Sereni e prefata da Giansiro Ferrata. Un esordio dunque colmo di attenzione, tanto più che  l’autore vince alcuni premi prestigiosi, rafforzati nel 1963 dalla raccolta già citata, quella appunto mondadoriana.  Ma Bellintani non è uomo di mondo. Lavora come applicato nella segreteria della scuola media del posto, scrive, disegna (da ragazzo studiò in un istituto d’arte), non pubblica. E ritira persino dal commercio le copie del catalogo di una mostra fatta in una galleria fiorentina. Trascorreranno 35 anni prima del congedo letterario con Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, vale a dire un anno prima della morte.

L’itinerario, i temi

Fermiamoci un momento, amici.

Quest’albero era

quando ancora non erano

i nostri padri i nostri avi.

Ed ecco io sento che qualcosa gli devo,

ma non so cosa, amici, ma la mano

mia ecco lo accosta e lo carezza,

e tutta trema la mia mano, amici.

Così in una di una delle prime poesie degli anni Cinquanta. Un registro confidenziale che propone una  sorta di epifania con versi lineari, spesso ricorrenti all’anastrofe, e dove è raro il ricorso ai parallelismi (così frequentati viceversa dai suoi contemporanei) se non di ovvia trasparenza, in  qualche caso con metafore che richiamano quelle del racconto orale o «la ruvida popolare fiaba» di cui ha parlato Maurizio Cucchi in un breve profilo dell’autore:

Sono un topo di campagna, sono il grillo

che nel cuore ricanta ogni sera

se l’ascolto dal paterno focolare

Con Bellintani non compare neppure per antitesi il rutilante mondo del boom economico; non compare la fabbrica, non c’è posto per l’alienazione ma al contrario ha ruolo l’identificazione col paesaggio, con le abitudini.  Di pari passo è motivo ricorrente la ciclicità del tempo, l’orizzonte della precarietà e il rimedio della memoria, esplicito nei versi citati come,  più direttamente, altrove: la poesia “L’avo mio antico” propone così l’immagine dell’antenato: «Vorrei trovarlo con un’anfora bella/ e le falangi delle mani d’intorno/ come petali di un sottile bianco fiore».

Il lessico e la giustapposizione dell’iperbato tra oggetto e qualificativo (anfora bella, bianco fiore) richiamano la lingua del primo Novecento: si parla di corrucci, di murmure, di paterno focolare,  si elide perché con ché, ma questo ricalco del linguaggio lirico non scalfisce l’autenticità della voce. Di pari passo il contingente, la corte con gli animali della campagna, non subiscono alcuna trasfigurazione; la pronuncia di Bellitani le reclama come modello dell’essere. Così sarà per una delle sue liriche più caratteristiche, cioè “Caro vecchio manubrio” in E tu che m’ascolti:

Caro pezzo di latta

un giorno non ti vedrò mai più

caro pezzo di latta,

O tu che sei la vita

tutta la vita

un giorno non ti vedrò mai più

caro pezzo di latta

 

Caro vecchio manubrio

un giorno non ti vedrò mai più

caro vecchio manubrio.

O tu che sei la strada

tutta la strada

un giorno non ti vedrò mai più

caro vecchio manubrio.

Gli altri oggetti convocati sono una ciabatta, un segno nel muro e un catino. L’invenzione retorica risulta fondata sul contrasto tra l’anonimato dozzinale degli oggetti personali da un canto e l’afflato vocativo, l’iterazione, dall’altro. Due qualità queste ultime che,  da un punto di vista formale, sarebbero gli strumenti consueti della satira  (anche popolare e carnevalesca), in Bellintani  suggeriscono l’enormità dello scarto tra la contingenza del vissuto e il tempo, tra la povertà delle cose e la nostra adesione affettiva.

L’autore sembra allora sorridere con il lettore benché si tratti di un sorriso amaro sorretto da una visione che allaccia a tratti un sentimento religioso con accenti di misticismo cosmico. Così in “Dolce chiude l’ora di sera”, (ancora nella raccolta del ‘63), Bellintani pronuncia con chiarezza: «Forse non esiste Dio, forse/ solo il rapporto/ fra noi esiste e gli alberi/ annosi o appena d’anni/ uno e le erbe/ e i coccodrilli e il buon tepore/ della sera. Non v’è/ che poi la morte ed altro ancora/ innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto/ per lei si placa».  Vale la pena di osservare che il tema poderoso viene subito ridotto alla dimensione del quotidiano e che, a sua volta, questo è straniato da quei “coccodrilli” coniugati al “buon tepore”.

Animali

L’orizzonte di Bellitani, si diceva, è quello del suo paesaggio, “La grande pianura”.  Il mondo animale che compare nell’opera è quello contiguo al villaggio ( la capra come il gatto, gli uccelli, ma anche gli insetti, le formiche e le rane, il riccio). Ma non si tratta mai di sensualismo. Il mondo animale è in realtà testimone di una condivisione, dell’esserci nel mistero, nell’ignoto: «Il gatto che ritto si dorme/ al sommo del palo in questa quieta/ dell’aria al pomeriggio di fuoco, / e la rana che grida terrore/ dove il fosso s’incurva// sono voci dell’arcano, e la cetonia/ stremata sul sentiero e l’acqua/ infesta di torpore e morte; voci dell’arcano»  poiché  « Altro non sai che tu vivi/ di questo senso profondo della vita/ che ti snerva e che puoi/ affascinato dare il fianco alla morte », (“Voci dell’arcano”).

La compassione  verso l’innocenza tocca tanto il mondo animale quanto quello umano. In “Grido” (E tu che m’ascolti) , Bellintani  scrive una delle rare poesie dense di traslati: «Come ai miti occhi del vilucchio/ aperti nella siepe torna/ il temporale luponero e balza negli orti di furia,/ vedo ancora e mi rattrista una gatta riversa nella buca. Con gli occhi di cobalto verso il cielo/era mia (…)».  Lo stesso microcosmo che regala per contro una serenità  in apparenza naïf  attingibile dall’esperienza. In “I ragnolini d’agosto”, scrive:

Sarebbe pur bello

in una grande pianura

con un lago e un ruscello

e qualche albero e la giacca da distendere

nei pomeriggi di estate

sopra a quell’ombra e dormire,

con un ragnolino

verde sul cuore

con mille ragnolini rossi

e verdi d’intorno

e anche un usignolo

sull’albero lassù

gigante col tronco

e formiche che vanno

e vengono e formiche

matte d’allegria.

Bellintani convoca oggetti e animali, prepara come un affresco la suggestione dell’armonia. Il suo linguaggio è diretto rispetto al timore pasoliniano delle trasformazioni (“Spariranno anche le rondini”),  anche quando si avverte la voce  farsi più densa:«se un frullo appena si ode dei palmipedi,/avverti un grido irrompente di stupore/ e del tuo cuore se un nonnulla desta un legno, /il muover d’ali di quell’anatra smarrita, / un piccol sasso, un’inezia ti consola» scandisce “Aprile”. L’ultimo tempo, vale a dire la raccolta “Un abbaino in piazza Teofilo Folengo” affianca temi eterogenei pur restando radicata nell’alveo della natura. Si schierano emblematicamente alcune scene notturne dove non viene mai meno però l’immediatezza dello slancio: «La notte è la notte/ e i cani che abbaiano non mordono la notte/ ma la notte dicono/ e il suo silenzio si fa ancora più intenso/ quando tacciono i cani.»

Marco Conti

Umberto Bellintani, Nella grande pianura, pp. 296, Mondadori, 2023; euro 20,00

 

 

 

 

 

 

 

 

Raboni, la poesia parla da lontano

Salerno Editrice pubblica un’ampia edizione critica di “Cadenza d’inganno”, libro-chiave che riunì 17 anni di vita del poeta lombardo

Parler de loin, ou bien se taire…L’invito di La Fontaine  messo in epigrafe da Giovanni Raboni alla prima raccolta di poesie, “Le case della Vetra”, non è mai stato così dissonante  rispetto alla moneta corrente del XXI secolo. Ma quella nozione formale di poesia è stata la cifra più vistosa dell’opera di Raboni e la si apprezza ancora meglio oggi, con la vasta edizione critica del suo secondo libro, in origine pubblicato nel 1975: Cadenza d’inganno, curato da Concetta di Franza per Salerno Editrice con la prefazione di Giancarlo Alfano.  Understatement che si apprezza tanto più nelle pagine di un libro composito che innesta continuamente privato e pubblico, motivazioni intime e le denunce degli anni brucianti della contestazione sessantottina: la morte dell’anarchico Pinelli, il sospetto che si allunga sulla stessa figura intellettuale e borghese di Raboni, sia da parte dell’apparato di potere, sia rispetto all’ideologia giovanile dominante nella piazza.

“Parlare di sé da lontano, oppure tacere” dunque.  Raboni aprì Cadenza d’inganno con una sezione dedicata alla memoria della madre in cui il tema della morte (che contrassegna un parte significativa di tutta l’opera dell’autore) è visitato attraverso scorci che parrebbero neutri e stranianti e dunque destinati a rendere ancora più forte il sottaciuto attraverso scene indirette. Un esempio flagrante è il testo “Amen” dove la memoria è rievocata con le immagini prosaiche degli spazi di un appartamento: «Quando sei morta stavamo/ in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio/ da vendere per pianerottoli e scale./Dunque non t’è toccato di passare/ di spalla in spalla per angoli e fessure,/ d’essere calcolata a spanne, raddrizzata/ nel senso degli stipiti/. Sparire/ era più lento e facile quando sei sparita.(…)». Il registro, l’uso di locuzioni colloquiali, concordano con la scena dimessa, così come la conclusione del testo, formalmente distante ma feroce sul dolore della morte, quando rivolgendosi alla stessa morte pronuncia: «Scendi a pianterreno/ come ti pare (…) liberaci dall’estetica e così sia».

Pubblico e privato

Concetta di Franza mette in evidenza la struttura trasversale del libro che riunisce 17 anni di vita e percorre momenti diversi. Tuttavia in diverse occasioni gli ambiti, osserva la curatrice, gli tematici convergono.  Così accade nella seconda sezione del libro,  “Economia della paura”, articolata su tre prose dove  il concetto di “economia” allude alla sorveglianza politica e contemporaneamente ai sospetti, alla complicità di due amanti durante una conversazione. Mentre il tema politico sarà vivo in un’altra intensa pagina prosastica, “Partendo da Boulevard Berthier” (che richiama un momento dei moti piazza parigini del ’68 in cui morì uno studente) ,   anche la storia amorosa sarà nuovamente voce lirica con i versi di “L’intoppo” : testo che stesso Raboni commentò in una intervista fatta dalla curatrice nel 2004 e poi pubblicata sulla rivista “Italianistica”. Il poeta definì questa parte del libro il «diario di una storia ancora in corso», vale a dire la vicenda di un amore clandestino «un po’ tumultuoso».  Ecco allora il verso più spiccato ma ugualmente pronunciato con informale disinvoltura in “Cosa”:

Mi chiedi «cosa ti piace di me, cosa

più del resto». Una volta per ridere

ho detto il cappellino. Però pensando

la schiena, le ginocchia; e al labbro di sopra che quasi

non tocca quello di sotto: e come

s’impenna liquido, scatta il tuo profilo.

Ma ancora di più la faccia che non sai d’avere

dopo aver fatto l’amore, netta per saliva e sudore,

a una calma che c’era rifiorita.

Lo stesso timbro lo si ascolta con alcuni incipit che simulano un discorso intrapreso e l’inciso dell’espressione parentetica proprio come accade nei colloqui più informali: «Dei rimproveri che mi fa (certi/ non li discuto/ ce n’è uno quando arriva che fa/ male come il freddo sulle dita)» in “Le volte”.

Non solo nell’architettura del libro ma in un medesimo testo accade che Raboni unisca storia e quotidianità attraverso la stratificazione del vissuto, come in “Notizie false e tendenziose” dove l’unica certezza è quella evocata dall’esergo di Mandel’stam, ovvero che «il potere è ripugnante come le mani di un barbiere». Da qui si direbbe provenga  la dialettica tra denuncia e puntuale complementare  percorso tra le mura domestiche, gli amori e le occasioni affettive:

Il perito settore dice che le ferite

non sono incompatibili con la meccanica di

una caduta dall’alto. Il giornale conclude

che dunque il morto si è suicidato.

La lingua referenziale del verso conta qui solo sulla sintesi ellittica (il soggetto politico è quello di Pinelli precipitato nel cortile della questura) portando all’estremo una poetica che solo negli ultimi anni avrà un deciso contraltare con “Quare tristis”, dove rivive il metro del sonetto. Una parentesi.  Poi, più estesamente  di quanto non faccia Cadenza d’inganno,  “Barlumi di storia” nel 2002 tornerà a prendere in consegna il tempo collettivo: e questa volta la voce  lirica del verso avrà la distanza del distacco. Ricordando Pasolini che parlava della bellezza dell’Italia durante il fascismo,  Raboni scriverà: «Il punto/ è che è tanto più facile/immaginare d’essere felici/ all’ombra d’un potere ripugnante/ che pensare di doverci morire.» Come non dargli ragione…

Marco Conti

Giovanni Raboni, Cadenza d’inganno (a cura di Concetta di Franza), pp. 325, Salerno Editrice, 2023; euro 42,00

 

 

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