Giovanni Ibello, Amin e gli specchi del mito

In un paesaggio eterogeneo come quello della poesia contemporanea, Giovanni Ibello scrive con  I dialoghi di Amin un libro che  si ritaglia uno spazio proprio, lirico quanto possono essere lirici gli slanci nel corpo variegato del mito. In ognuna delle quattro parti in cui è divisa questa partitura, i versi  sono uno specchio che riflette gli altri e dove il tempo non è quello secolare a cui ci ha abituati il secondo Novecento. Nell’introduzione Milo De Angelis parla degli archetipi a cui rinviano queste pagine, e certo di archetipi si può parlare in ordine a una natura copiosa e trascendente e ad un dialogo che talvolta sembra forgiato con la conoscenza  del mito.
L’esergo del poeta siriano Adonis è eloquente: «L’universo tutt’uno con me/le mie palpebre chiudono le sue/ l’Universo alla mia libertà fuso/chi di noi due ha partorito l’altro?».  Nel libro corre tra le pagine l’appartenenza orfica che stabilisce prima d’ogni altra cosa, con le parole di  Elémire Zolla, «la metamorfosi del poeta stesso», da presenza storica a spirito libero.

Lo specchio del mito

Se questo è lo sfondo su cui Ibello crea la sua tela, i versi mostrano una linea diegetica, un racconto, in cui la soggettività è pronunciata  attraverso lo specchio di Amin («Io sono Amin,/ colui che restò nel noncanto») e sembra via via avviarsi all’insussistenza. Palpebra, appunto, che chiude palpebra. Del resto il concetto non si potrebbe ribadire meglio di quanto fanno i versi di Ibello: «Dio, gheriglio di stella/ insegnaci a svanire/ poco a poco/ insegnaci il dialogo amoroso/ tra i picchi delle braci e l’arpionata notte.» La metafora di Ibello sostiene una visione. Se i «picchi di brace» ci immergono insospettabilmente  nel cuore della forza tellurica, altrove  l’immaginario disegna «l’assillo di aranceti» dentro il  «perimetro di un grido»  e l’alba, che sorprende Amin in ciò che è «ignota rovina». La parola sembra scandita con una pronuncia sapienziale e del dettato sapienziale ha la densità che porge l’allegoria in tutta la sua ambiguità. Ecco i primi versi di  “Io non torno più”, il  testo che apre la seconda sezione:

Ricavo dai roghi autunnali

un altare di gemme,

è il menhir dell’esiliata luna.

Io sono Giovanni

e non ho mai chiesto di essere amato.

L’amore stringe nel seno

la sorte del tuono:

frantumare il vetro dell’esistenza.

Sembra di cogliere nella voce dell’autore, nel suo io lirico ma trascendente anziché empirico,  una censura rispetto alla mondanità  mentre le fisionomie dell’immaginario acquistano una valenza assoluta: «Mai nessuno/ ci ha chiesto di essere vivi»  scrive in “E’ Questo il destino dei corpi”.

Luce cariata dall’avvenire

Nell’ultima parte del libro il tempo sorgivo dell’alba si fa ossimoro, notte portentosa, splendore del disastro e infine messaggio, soffio poetico:

Morte all’incanto,

alba di macellazione.

Un vitellino soffia alla luna:

sei tu l’hiroshima dello splendore.

Sei tu la mia regina assira,

l’ambasciata del vento,

la poesia che mi farà sole.

Per una analoga ragione, la mondanità a un tratto viene citata con il profilo evenemenziale di Maradona: «C’era l’immagine di Maradona/ sopra un muro di cemento/ ma l’arco degli occhi era sporcato/ da brandelli di manifesti mortuari». La colpa originaria, orfica si potrebbe aggiungere, per insistere sulle radici del mito, è  in certo modo ribadita nell’ultima esergo della quarta parte sotto il titolo “Luce cariata dall’avvenire”: «Scrivere è ammettere la colpa.»

Marco Conti

Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin, pp. 72; Crocetti Editore, 2022; euro, 11,00

 

Simic: due fette di pane su un piatto crepato

Non ha mai avuto nome

e neanche ricordo come l’ho trovata.

Me la portavo in tasca

come un bottone perduto

ma non era un bottone.

Basta questo incipit per entrare nella magia dei versi di Charles Simic. Serbo di origine, emigrato negli Stati Uniti adolescente, è scomparso lo scorso 9 gennaio a Dover. Aveva 84 anni. Le sue liriche coniugavano la prosa della quotidianità con le ombre e le sensazioni di una visione metafisica. Qualcuno, presentandone l’opera tempo fa, scrisse che le sue pagine migliori ricordavano la pittura di Edward Hopper. Una felice intuizione. Anche in Simic i paesaggi urbani, gli interni di appartamenti in cui si staglia, giorno e notte, un profilo solitario, dipinto con esattezza essenziale, scandiscono la sua lirica.

Charles Simic.  L’esordio poetico avvenne con “What the grass says” (1967). “Selected poems 1963-2003” è attualmente l’antologia più completa uscita negli Stati Uniti. In Italia è stato editato da Adelphi: “Hotel Insonnia”, “Club midnight”, “Il mostro ma il suo labirinto” sono i suoi libri più noti

Per definire la qualità dei suoi  paesaggi in versi, la critica ha parlato di minimalismo. Definizione giunta con una certa tempestività poiché i libri di poesia di Simic cominciarono a farsi conoscere nel mondo anglosassone proprio negli anni Ottanta,  insieme ai racconti di Raymond Carver.  Ma nei testi di Simic, in realtà, agisce un altro filtro lirico: quello del tempo, degli straniamenti onirici che si accompagnano con l’esperienza quotidiana. Per questo è facile entrare nei versi e nell’immaginario dell’autore, dove un’analogia, uno scatto  improvviso, cambia, come una pennellata più intensa, l’atmosfera della lirica.

Hotel Insonnia

«Ogni giorno – scrive in Hotel Insonnia – dimentico com’è. / Guardo il fumo salire/ a grandi passi sopra la città./ A nessuno appartengo.// Poi mi ricordo delle scarpe, / come calzarle, / come curvarmi per allacciarle/ e scrutare la terra.»

Andrea Molesini, il curatore e traduttore di Hotel Insonnia (Adelphi, 2002)  osserva nella postfazione che Simic è un maestro della sprezzatura, della lirica breve.  E parlando dei temi in filigrana al  libro, aggiunge: «l’insonnia è la malattia che lo ha reso poeta della solitudine, della visione estrema, della crepa che apre improvvisi spifferi metafisici». Da qui dirama anche il sorriso ironico che gli fa dire, nello stesso libro: «Alberi, miei cari, non vi riconosco/ più in questa luce invernale. Siete un promemoria di cui farei a meno:/  il mondo è vecchio, è sempre stato vecchio,/ e nel pomeriggio non c’è niente di nuovo. Il giardino potrebbe essere stato la finestra con lucchetto/ in quel banco dei pegni di cui studiavo/ ogni oggetto ricoperto di polvere.»

La pronuncia asciutta, il registro della lingua apparentemente così vicino alla prosa e alieno all’apparenza da ogni ricerca letteraria, hanno ottenuto il plauso di critica e pubblico. Dal canto suo Simic diceva che la ricetta usata era quella di fare piatti gustosi con gli ingredienti più semplici: «Soccorrere il banale è l’ambizione di ogni poeta lirico.» Ma il rischio della banalità non l’ha mai neppure sfiorato. Le immagini dei versi trattengono il silenzio, si fanno scudo delle apparenze, vivono di domande non fatte. E qualche volta di ironie davvero inarrivabili. Come in questa breve chiosa, tra le tante del suo taccuino: «Il cameriere si chiamava Bartleby – o così avrebbe dovuto. Mi servì due fette di pane carbonizzato sopra un piatto crepato».

m.c.

Houellebecq, la poesia e la fisica quantistica

Michel Houellebecq ama la poesia. Ma come ogni poeta detesta i cliché. Forse per questo il primo articolo compreso nel volume Interventi è un vigoroso attacco alla fortuna di Jacques Prévert.  Prévert è presente nei libri di scuola, è entrato nella prestigiosa “Pléiade” e soprattutto rappresenta  un’idea di poesia condivisa, facile, fatta spesso di giochi di parole. Evocando quel mondo lirico, Houellebecq scrive: «Ci sono graziose ragazze nude, borghesi che sanguinano come maiali sgozzati. I bambini sono di una simpatica immoralità, i mascalzoni seducenti e virili, le graziose ragazze nude offrono il proprio corpo ai mascalzoni; i borghesi sono anziani, obesi e impotenti, insigniti della Legion d’onore con mogli frigide; i parroci sono vecchi bruchi disgustosi che hanno inventato il peccato per impedirci di vivere. Conosciamo bene tutto questo. E’ preferibile Baudelaire.» L’autore di Estensione del dominio di lotta non sopporta in sostanza la mediocrità, un vocabolario di trasgressioni passato ormai agli archivi della buoncostume, il surrealismo da chansonnier. «L’intelligenza non aiuta affatto a scrivere belle poesie – commenta – tuttavia  può evitare di scriverne di pessime.»

Scrittore combattuto da una visione catastrofica dell’Occidente di questo XXI secolo, altrettanto deciso a contestare la bugiarda proiezione di un futuro migliore dell’imperante credo liberista tanto nella narrativa che in questi articoli,  Houellbecq è tuttavia interessato al linguaggio lirico fin dagli esordi.  Nel 1991 pubblica un saggio su Lovecraft e una prosa frammentaria, Rester vivant, dove  l’interesse per la poesia si unisce a una visione schopenhaueriana: «Il mondo è sofferenza dispiegata. Alla sua origine, c’è un nodo di sofferenza. Ogni esistenza è espansione e frantumazione.» E altrove: «Il primo passo della poesia consiste nel risalire all’origine. Vale a dire alla sofferenza». Ma proprio per avversione ai cliché, al modernismo, al Rimbaud condiviso di «occorre essere assolutamente moderni», scrive a questo proposito: «Non vi sentite obbligati ad inventare una forma nuova. Le forme nuove sono rare. Una per secolo è già molto. E non sono necessariamente i poeti più grandi ad esserne l’origine.» Visione che dovrebbe essere più insistita davanti ai molti autori di cruciverba in versi.

La bontà contro i sistemi

Il senso della lotta, nel 1996, intercala strofe in alessandrini rimati a stralci di prosa. Vi si fa strada il disagio, un sentimento di non appartenenza legato alla vita contemporanea: «Le antenne della televisione,/ come insetti ricettivi,/ s’aggrappano alla pelle dei prigionieri/i prigionieri rientrano a casa».
La leggibilità del verso di Houellebcq  non fa velo però a una sostanziale presa di posizione per il linguaggio alogico della lirica moderna. In un colloquio con Jean-Yves Jouannais e Christophe Duchâtelet  dove gli interlocutori chiedono quali sia l’elemento unificante dei suoi primi libri (Estensione del dominio di lotta, Restare vivi e la nuova raccolta di poesie La ricerca della felicità), Houellebecq, non ha esitazioni: «In primo luogo, credo, l’intuizione che l’universo sia fondato sulla separazione, sulla sofferenza e sul male; la decisione di descrivere questo stato di cose, e forse di superarlo. Il problema dei mezzi – letterari o no – è secondario. L’atto iniziale è il rifiuto radicale del mondo così com’è; nonché l’interesse per le nozioni di bene o male, la volontà di approfondire tali nozioni, di delimitare la loro egemonia, anche all’interno di me stesso.» In questo contesto, Houellebecq dice di rifiutare i sistemi gerarchici fondati sulla nascita o la fortuna, la bellezza o la forza fisica, l’intelligenza o il talento…«Tutti sistemi che ai miei occhi hanno qualcosa di spregevole; sistemi che rifiuto; l’unico fattore di superiorità che riconosco è la bontà. Oggi ci dibattiamo dentro un sistema a due dimensioni: l’attrazione erotica e il denaro. Da lì deriva tutto il resto, la felicità e l’infelicità delle persone.» La bontà dunque. Una sortita inattesa in un mondo che  sembra collocare la bontà con le preghiere del mattino. Tant’è che, nell’articolo successivo, Houellebecq conferma di essere stato interpellato in proposito. Non ne discuterà in dettaglio, ma l’impressione è che la bontà sia la virtù citata come contraltare di un secolo disposto ad accoglie e omogeneizzare anche il cinismo se condito da un appropriato bon ton ovvero di politically correct.

I quanti di Bohr e la  poesia

Scorrendo le pagine di Interventi, tra un testo che accompagna un’installazione mobile al Centre Pompidou di Parigi, gli apprezzamenti antieuropeisti e un conservatorismo distante da ogni idea corrente e scontata,  il tema della poesia si precisa ulteriormente con l’analisi del linguaggio svolta da Jean Cohen: «La poesia non è la prosa più qualcos’altro, è altro». Non è solo la moltiplicazione di significati, non la trasparenza di un significato soggiacente, ma piuttosto una «parola differente in relazione alla medesima realtà». Una lettura che propone in definitiva una diversa visione del mondo, alogica, rispetto alla lingua ordinaria:  Secondo Michel Houellebecq questo linguaggio ha un significativo punto di contatto con le proposizioni del fisico Niels Bohr in merito alla teoria dei quanti. «La poesia è la dimostrazione che l’impiego sottile e in parte contraddittorio del linguaggio comune aiuta a superarne i limiti. Il principio di complementarietà introdotto da Bohr è una sorta di gestion fine della contraddizione».
In termini più dettagliati, l’interpretazione del mondo referenziale può migliorare introducendo più punti di vista nello stesso tempo. La poesia, conclude lo scrittore, non è l’assurdo ma «l’assurdità resa creatrice».

Marco Conti
Michel Houellebecq, Interventi, pp. 476, La nave di Teseo, 2022, euro 22,00.

 


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Tempo d’opera, l’ultimo libro di Alberto Toni

I frammenti della vita, il paesaggio visto una volta da un balcone, una domanda che sopravviene improvvisa e subito si mescola con il vissuto, con l’incedere quieto di una passeggiata: un sasso, un uccello sulla via, una soglia: tutto nella poesia di Alberto Toni diviene misura della finitudine, tema di …

Il canzoniere di Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli, una delle voci più originali del secondo ‘900 italiano, è morta ieri a Roma. Era nata a Todi nel 1947

«Vado, ma dove? oh dei!»

In questo incipit di Patrizia Cavalli, c’è una parte cospicua dell’originalità di timbro e temi dell’autrice. La poesia, inclusa nella raccolta L’io singolare mio proprio, con il registro giocoso e lieve che accompagna l’opera fino alle ultime battute, porta il lettore al centro del canone classico. Come l’intera opera anche questa è una lirica intessuta di amore e disamore, scaturita dall’assenza, dal dubbio, come altrove dalla vacuità dell’essere. Non a caso molte poesie cominciano con una domanda o un periodo ipotetico, non a caso il discorso si dissolve nell’attimo e nella circostanza richiamata dal testo attraverso lunghi enjambement. Ecco la lettura completa della poesia citata:

«Vado, ma dove? oh dei!»
Sempre al bar, al ristorante, nei musei
a ciondolare anoressica o bulimica
sempre tra le due madri
quella che mi ama falsamente
e mi vorrebbe privare di ogni cibo
e l’altra che mi ama falsamente
e mi vorrebbe uccidere di cibo,
e io costretta a uno dei due eccessi
o l’astinenza o l’incontinenza
e intanto guardo il bel viso di un ragazzo
sempre lontano dai miei veri amori
spinta al turismo da cerberi
infelici viaggiatori.

Come si è spesso chiosato,  la poesia di Patrizia Cavalli assume la scena di un momento, la quotidianità (parola detestata dall’autrice peraltro) per portare il verso all’incontro con un’assenza, un limite, ma essi stessi pronunciati con una voce che sottrae peso, che induce alla leggerezza e dove la rima sembra quasi fortuita nell’incedere idiomatico, gli accenti tonici un caso come quegli dei che baciano i musei al secondo verso.

L’iperbole al rovescio e il classicismo

Il carattere che struttura fin dagli esordi il mondo di queste pagine è quello della riduzione: riduzione dell’io lirico, presente ma dimesso, e riduzione del tempo storico a incidentalità.  Il titolo del primo libro, Le mie poesie non cambieranno il mondo,  vive sotto questo segno benché  sia stato scelto da Elsa Morante…Nel 1974 (data della pubblicazione) la titolazione assertiva sembra infatti un annuncio polemico fatto per sottrarsi al dibattito intellettuale in corso. L’iperbole retorica percorre così ampiamente il senso più raro della figura. E fin dall’inizio è una contingenza dichiarata, non una epifania, a dare energia al testo facendo convergere ogni elemento ai confini di quanto è pronunciabile.

Anche quando sembra che la giornata 
 sia passata come un’ala di rondine, 
come una manciata di polvere
 gettata e che non è possibile
 raccogliere e la descrizione 
il racconto non trovano necessità
 né ascolto, c’è sempre una parola 
una paroletta da dire
 magari per dire 
che non c’è niente da dire.

Il contrappasso è clamoroso: si addensano in questi versi con l’evocazione (in assenza) del crepuscolo, la fugacità (l’ala di rondine) e l’inconsistenza del reale (una manciata di polvere) mentre l’ispirazione è contraddetta per affermarsi: la descrizione e il racconto non trovano necessità, tanto che una paroletta espressa coincide con la sua vacuità. Eppure mentre il dibattito critico ferve intorno alla neo-sperimentalismo e l’orfismo, mentre la poesia diventa oggetto tematico, Patrizia Cavalli adopera gli strumenti del canone per ribaltare ogni pretesa necessità intrinseca nel lavoro letterario del tempo. E’ vero che risulta frequente qui la pronuncia dell’epigramma diaristico («Ma per favore con leggerezza/ raccontami ogni cosa/ anche la tua tristezza», scrive nella stessa raccolta d’esordio) ma in realtà – e senza il ricorso a quella adesione del verso al modello del sonetto come farà negli anni ’80 Patrizia Valduga – proprio questo primo libro sembra incuneare la “prosa”, l’idioma, a cui tendono molti versi degli anni Settanta nell’alveo della classicità e di una indefettibile chiarezza. Dato che inserisce Patrizia Cavalli in una linea di tendenza alla pronuncia classica del verso, linea che congiunge Saba a Penna e a cui sono tutt’altro che estranei sia Pasolini, sia Dario Bellezza. Nel fervore un po’ artefatto della critica engagé, la poesia di Cavalli piacque anche ad Alfonso Berardinelli, polemico nei confronti della lirica “oscura”.

Il cielo

La seconda raccolta, Il cielo (1981) privilegia il tema dell’assenza, del disamore, non senza una sottostante visione filosofica. Ecco in apertura del libro il “paesaggio emotivo” con immagini decisive della vacuità e del desiderio:

Quella nuvola bianca nella sua differenza 
insegue l’azzurro sempre uguale:
lentamente si straccia nella trasparenza
 ma per un po’ mi consola del vuoto universale. 
E quando cammino per le strade 
e vedo in ogni passo una partenza
vorrei accanto a me un bel viso naturale. 

Più avanti l’assenza riprende corpo ed è allora marcatamente la banalità dell’ambiente familiare a controbilanciare una “nuvola che si scolora” con la sua promessa di libertà. Anzi è la prigione delle passioni, confermano i versi di Patrizia Cavalli, ad essere desiderata:

Adesso che il tempo sembra tutto mio
 e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
 adesso che posso rimanere a guardare
 come si scioglie una nuvola e come si scolora,
 come cammina un gatto per il tetto
 nel lusso immenso di una esplorazione, adesso 
che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte
 dove non c’è richiamo e non c’è più ragione 
di spogliarsi in fretta per riposare dentro 
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta, 
 adesso che il mattino non ha mai principio 
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
 a tutte le cadenze della voce, 
adesso vorrei improvvisamente la prigione.  

E’ forse uno dei testi più belli e compatti della silloge dove il discorso monologante cresce e si carica di tensione attraverso l’iterazione quasi percussiva dell’avverbio adesso.

Pigre divinità e pigra sorte

Risalendo tra gli esiti e le matrici, in Pigre divinità e pigra sorte (2006) dopo Sempre aperto teatro (1999), sembra che Patrizia Cavalli radicalizzi l’interrogazione filosofica, ne voglia osservare l’ampiezza come aprendo un ventaglio. Un versante che diviene cospicuo perché se la scena quotidiana, il gioco del «Sempre aperto teatro»  sono state le costanti, altrettanto decisivi sono l’orrore della gratuità esistenziale e le domande esplicite sull’identità e il tempo. Tant’è vero che la compattezza dell’opera appare indiscutibile, come ha scritto John Ashbery  in poche parole presentando nel paratesto la traduzione americana: «Come Emerson Patrizia Cavalli dice sempre la stessa cosa e ogni volta è incredibilmente fresca e sorprendente. Il mondo cambia raccontandolo». Ed eccoci quindi a ridosso di quella scorrevole discorsività che contraddistingue i testi della Cavalli: l’incontro con il nume, con la fortuna, o meglio con l’ineffabile casualità del mondo.

Pigre divinità e pigra sorte
cosa non faccio per incoraggiarvi,
quante occasioni con fatica vi offro
solo perché possiate rivelarvi!
A voi mi espongo e faccio vuoto il campo
e non per me, non è nel mio interesse,
solo per farvi esistere mi rendo
facile visibile bersaglio. Vi do
anche un vantaggio, a voi l'ultima mossa,
io non rispondo, a voi quell'imprevisto
ultimo tocco, rivelazione
di potenza e grazia: ci fosse un merito
sarebbe solo vostro. Perché io non voglio
essere fabbrica della fortuna
mia, vile virtù operaia che
mi annoia. Avevo altre ambizioni, sognavo
altre giustizie, altre armonie: ripulse
superiori, predilezioni oscure,
d'immeritati amori regalie.

L’ultimo tempo

Elsa Morante con Bernardo Bertolucci, Adriana Asti, Pier Paolo Pasolini.  Elsa Morante propiziò l’esordio del primo libro della Cavalli, “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (1974), una sorta di controcanto del libro della Morante, “Il mondo salvato dai ragazzini” del 1967

Il desiderio di conoscere e la prospettiva etica dell’esistenza, si fanno più perentori negli ultimi due libri: Datura nel 2013 e Vita meravigliosa nel 2020. I paesaggi interiori prima articolati con poche movenze e immagini, emergono in entrambi i libri ma in “Datura” prende corpo una voce a tratti più ampia di volute monologanti. Lo stesso titolo,  allusivo della pianta che induce la visione (Datura Stramonium),  sembra allontanare la poetessa dal dato circostanziale, dall’immagine colta al volo mentre  resta quasi immutata  l’essenzialità del dettato. La lirica “Ma io non voglio andarmene così”  esprime con assoluta chiarezza la ricerca svolta in poesia assumendo proprio la lingua poetica come tema:

Ma io non voglio andarmene così, 
lasciando tutto come ho trovato 
in questa scialba geografia che assegna
 l’effetto alla sua causa e tutti e due consegna
 all’umile solerzia dell’interpretazione.  
Un altro è il mio progetto, la mia ambizione
 è accogliere la lingua che mi è data
 e, oltre il dolore muto, oltre il loquace 
il suo significato, giocare alle parole
 immaginando, senza un’identità, una visione.  

Altrove, nello stesso, libro Patrizia Cavalli dispiega un verso poematico. Così accade in La patria e L’angelo labiale. Ma sorprende soprattutto un terzo poemetto, La maestà barbarica. Qui l’autrice  dà voce alla fisionomia di un personaggio per parlare di poesia, di una donna invischiata nella propria capacità retorica. Tanto che dalla terza persona Cavalli passa alla prima per soggiungere: «Io non oso parlarle, / ma la guardo sempre, / discosta e laterale. Ogni giorno/ ho bisogno di vederla. se non la vedo, la vado a cercare (…)». La ricerca, l’interrogazione, trascorre dal passato al futuro con Vita meravigliosa  dove l’immaginario torna formalmente dentro le misure consuete dell’autrice per chiosare intorno all’ultimo approdo, ad un paradiso incerto come ogni cosa: «prima di morire/ forse potrò capire/ la mia incerta e oscura condizione/. Forse per non morire/continuo a non capire/sicura in questa chiara confusione.»  Il predominio del tema, che isola e percuote, non toglie leggerezza al verso a cominciare dal poemetto dedicato all’autrice e amica scrittrice, Con Elsa in paradiso, per proseguire e voltarsi per traguardare l’esiguità del suo tempo. «Ma quel che ho visto si è tutto cancellato./ E quasi non avevo cominciato». Sbagliava Patrizia Cavalli parlando di un disegno incompiuto. La tela in questione è qui, forte più di quanto non prometta molta poesia di ieri e di oggi.

Marco Conti

Guglielmo Aprile: la poesia civile, la poesia dipinta

E’ poesia civile, e dunque controcorrente, l’ultima scritta da Guglielmo Aprile con Falò di carnevale, un titolo che come i suoi testi gioca sulla valenza della consuetudine e dell’allegoria. Allegoria nel suo significato più ampio di metafora costante, continuata, insistita. Il discorso poetico di Aprile (tra i suoi libri Nessun …

Amelia Rosselli, il desiderio e la letteratura

AMELIA ROSSELLI 1997

Più di qualsiasi altra opera poetica del Novecento italiano, quella di Amelia Rosselli sembra formarsi omogenea intorno a un paesaggio di esclusione dove l’identità è frantumata e la follia riconosciuta come un non vedere, un non sapere. Nelle sue pagine non si incontrerà mai la voce orfica delle visioni salvifiche, né si fa strada quella incantata accettazione della vicenda esistenziale, come avviene nella lirica avvolgente di Alda Merini, ugualmente segnata da una lunga malattia mentale.

La poesia di Rosselli, da Primi Scritti a Documento, porta con sé l’autentica forza eversiva delle opere assolutamente necessarie. La sua poetica nasce dal continuo distruggere e riplasmare la lingua in cerca di una possibile forma. Stare sull’orlo del codice linguistico, come stare sull’orlo incerto della coscienza, in ascolto del proprio sé,  è la condizione che ne ha contrassegnato l’opera e la vita. Il suo verso, così come è avvenuto per le ossessioni persecutorie che l’hanno accompagnata nella quotidianità[1], pare procedere da una continua inconclusa scoperta del mondo, con i rischi che vi sono connessi, con i tracolli e le rivelazioni di nuove possibilità. Tra queste, il presunto lapsus  rilevato da Pier Paolo Pasolini e che  Rosselli rivendicò invece come «invenzione linguistica»[2].

L’itinerario poetico

L’intero suo corpus  poetico  parla attraverso una continua instabilità semantica da cui proliferano nuove possibilità di senso.  Meno visitato ma ugualmente ricco di energia, è invece il paesaggio lirico disegnato da un lessico che compone  ossessivamente la nozione di marginalità: sia sotto il profilo dell’esperienza, nel mondo controverso della Storia e nel vissuto dei ricoveri ospedalieri, sia, e a maggior ragione, nella straordinaria immaginazione analogica.

La lingua segue questo percorso di vagabondaggio dal mondo della Storia (e della sua presunta idealità) verso quello di una poesia intesa come spazio autonomo, come luogo distante e solitario omologo a quello della soggettività. Ne La Libellula, leggiamo: «La giacchetta di tutte le destrezze mi pigliava/ forte sul lato debole: oh io amo forse le colline e le fresche brezze e le verdescuro pinete, che i giganti passi dell’uomo”»[3].

Panegirico della libertà

Lo stesso poemetto, che risale al 1958, porta il sottotitolo “Panegirico della libertà” aprendo con ciò il sipario di due campi semantici opposti. Nel primo c’è la simbologia trasparente e immediata della libellula (con il suo librarsi, con il «movimento rotatorio delle ali della libellula» e il rinvio all’omofono «libello», come annota l’autrice al termine del libro), nel secondo si richiama il modello retorico della lode, appunto il “panegirico” e dunque una convenzione. Nell’intervista fatta da Giacinto Spagnoletti[4], Rosselli sottolineò questa ironia fondata dallo scarto tra il vissuto mondano (il panegirico) e l’immagine personale della libellula come traslato della poesia. Questo primo porsi nell’alterità  immerge il lettore nella terra straniata che si troverà  nei versi successivi dove la poesia sembra avvertita come antitesi al vivere e soccorso all’esclusione. Più esplicitamente nei testi lirici in inglese di Sleep scritti tra il 1953 e il 1966, quindi nello stesso arco di tempo che vede nascere La Libellula, si trova questa opposizione: «Un tenero sonetto è tutta la forza che ho/ di creare, piena facile vita che io ho sempre e poi sempre/ di nuovo e di nuovo distrutta, ma era dio a gridare/ dentro di me spegnete tutte/ le luci! Nessun amore sia concesso a colui che/ odia ogni amore  tranne la vita/ scritta su carta, là scorre il mio/ seme folle alla morte».

L’esilio

Il tema dell’esilio del poeta, qui addirittura motivato da una sorta di trascendenza, sarebbe da ascrivere al mito romantico non vi fossero incluse nel breve cerchio di questa rappresentazione anche le nozioni della  punizione e della scrittura come colpa. Poesia come assenza, dunque, e poesia come eccesso. Sull’altro versante, l’esistenza appare ustionante, una autentica discesa agli inferi poiché ogni cosa, slancio, sentimento, scelta, ha una metà destinata al male. In Variazioni Belliche (edito nel 1964, ma nel quale il primo gruppo di poesie risale al 1959) Rosselli  affida all’anafora questa progressiva caduta: «L’inferno della luce era l’amore. L’inferno dell’amore/ era il sesso. L’inferno del mondo era l’oblio delle/ semplici regole della vita: carta bollata ed un semplice protocollo».

La lingua instabile

Linguisticamente la sua opera continua ad adoperare una struttura sintattica discorsiva ma, inaspettatamente, quasi sempre subordinata al dominio di immagini dotate di  una prepotente visualità fitta di elementi simbolici: «Io mi fingevo pazza e correvo a sollevare i pazzi dal suolo, fiori spetalati»; «Temo la rossa onda del vero vivere, e le piante che ti dicono addio»; «La pazzia amorosa non è che una stella filante nel deserto. Il mio corsetto mi stringe troppo forte»[5].

La follia stessa, con l’isolamento che vi è implicito,  diventa un tema perlustrato, frammentato in paesaggi, spazi  domestici, servitù quotidiane e in squarci allegorici dove l’esperienza del male, sempre allusa e spesso intesa metafisicamente, sovrasta l’intera esistenza. «Io sono una – scrive ancora in La Libellula– fra/ di tanti voraci come me ma per Iddio io forgerò/ se posso un altro canale al mio bisogno e le/ mie voglie saranno d’altro stampo». Ma non ci sarà nella vicenda di Rosselli ribellione diversa da quella promessa dalla poesia.

Disamore

L’io e il travaglio della propria esperienza interiore si travestono con gli elementi di un paesaggio funestato, avverso, gonfio di segni premonitori e di calamità conseguenti al disamore, con tratti espressionisti che, qualche volta, sembrano richiamare la desolata brughiera di Emily Bronte. Così è per il paesaggio della campagna  battuta dal vento, lacerata dalla tempesta, che si rivela essere la sentenza di un amore funesto: «Sono così sola e ti amo tanto, il vento morde in mezzo alla campagna, gli opuscoli volano nei miei occhi e tutta la grandine dice: “Non sei dei nostri”»[6]. Altrove il grumo del disamore ha per emblema una capanna desolata: «Vi è solo ombra attorno alla capanna, solo/ monti  morti e vuoto attorno il mio segreto».[7] In Diario Ottuso, cheraccoglie le uniche prose rosselliane, scritte tra il 1954 e il 1968, un’allusione sembra richiamare il ruolo e l’irruenza dell’inconscio nella scrittura: «Intenta a descrivere il paesaggio mi intromisi, ne sgorgava irrequieta la scena primaria: trottole, caverne, demistificatorie scene». L’intensità del linguaggio simbolico viene allora a ridosso di una vertigine. Con il surrealista  Jacques Rigaut si potrebbe dire che la follia definisce l’evenienza in cui la persona perde il proprio specchio e l’amore resta l’irraggiungibile altrove, che presuppone il riconoscimento di sé attraverso l’altro.

Viceversa «quello stormire violento di uccelli, quel loro vezzoso/ rialzarsi in sciami dagli alberi più duri» e «quel loro posarsi sulle punte più sottili», «questo», soggiunge Rosselli,  «è il tuo desio», osservando così l’oggetto della propria passione, «che sorvola» i suoi «monti d’angoscia»[8]. Il binomio di eros e solitudine corre in filigrana in tutta l’opera dell’autrice, spesso anche attraverso una dichiarata valenza erotica che amplifica l’intensità emotiva e l’inavvicinabilità dell’esperienza talvolta in modo esplicito, là  dove il desiderio prende la strada della passione e del gioco alliterativo: «Per le notti che presero la lungaggine/ di un infarto rimai lussureggiante lussuria permanente»[9].

Documento

Nei versi di Dialogo con i Morti in Documento, il desiderio tocca l’assunto batailliano[10] per cui l’amore è l’approvazione della vita fin dentro la morte: «E il massacro volge in lussuria: e/ la lussuria in estasi contemplata nel/ grano sifilitico che s’attorciglia al/ mio collo, stremato dai troppi abbandoni.// Abbandonarsi al vuoto sesso e poi ritenersi/ anche insudiciati dalla nera pece del/ fare». Ancora con il filosofo francese si delinea come necessario il parallelo tra  l’esperienza erotica, in sé inavvicinabile nel suo eccesso, e la solitudine.

L’ultima raccolta di poesie, riconferma anche l’impossibilità del dialogo e rivisita ancora una volta l’universo frantumato della propria diversità. E’ il luogo dove «i fiori vengono in dono e poi si dilatano», dove il mondo «è un dente strappato» ma anche una fragile superficie «sottile» e piana in cui «pochi elefanti vi girano, ottusi». Il sentimento di esclusione, la «solitudine quadrata», la «stella nera» del destino,  tornano a confrontarsi inutilmente con il desiderio e ad accendere l’ “eccesso” della letteratura.

Marco Conti

Note:

[1] Amelia Rosselli, “Storia di una malattia”,  in «Nuovi Argomenti», ottobre-dicembre 1977.

[2] Giacinto Spagnoletti (a cura di)  Antologia poetica, Garzanti, Milano, 1987.  L’antologia contiene una intervista del curatore del volume in cui  Rosselli spiega che, a suo avviso, «il  lapsus sarebbe dimenticanza mnemonica, mentre l’invenzione linguistica è di solito conscia», p. 157.

[3] Amelia Rosselli, La Libellula. Panegirico della libertà, SE, Milano, 1985, p. 15.

[4] Giacinto Spagnoletti, op. cit  p. 157

[5] Amelia Rosselli, Variazioni belliche,  in Le Poesie, Garzanti, Milano, 1997. Le tre diverse citazioni esemplificative contenute nel paragrafo sono tratte dalla stessa raccolta.

[6] Amelia Rosselli, Serie Ospedaliera in Le Poesie, op. cit. p. 403.

[7] Amelia Rosselli, ibidem. p. 400

[8] Amelia Rosselli, Variazioni belliche,  in Le Poesie, op. cit. p. 189.

[9] Amelia Rosselli, Serie ospedaliera, in Le Poesie, op. cit. p. 356.

[10] Georges Bataille, L’erotismo, Mondadori, Milano, 1972


Quarant’anni di poesia campana

La precarietà delle antologie, specie quelle poetiche, è generalmente garantita dalla attualità delle stesse. Sembra far eccezione la rivista “La Clessidra” che quest’anno ha pubblicato un corposo “speciale” dedicato alla poesia campana, vale a dire  un’antologia con 59 voci, inclusive di più generazioni. Dal primo libro di Franco Cavallo, negli …

Corrado Costa, poesie edite e inedite

Il sortilegio della parola può scaturire da molte strade. Nel caso di Corrado Costa nasce dal piacere del gioco e dall’incontro con la linguistica di Ferdinand de Saussure prima ancora di trovare altre e cospicue ragioni. Significante e significato vivono nella poesia di Costa l’attimo sufficiente a ricreare un caos non privo di humor, dove la lingua si muove verso la cosa e se ne ritrae moltiplicando allusioni e sensi. Nanni Balestrini, nel 2008, scrivendo un ritratto dell’autore  commentò: «Penso che lo specifico della ricerca poetica di Corrado sia il gioco continuo del linguaggio, l’ironia, la giocosità. La vitalità e la freschezza che lui ha trasmesso è qualcosa che resta.» L’essenziale non poteva essere detto meglio. In Le nostre posizioni , seconda raccolta di testi del 1972 (titolo tra l’altro ironico rispetto alle locuzioni politiche e ai cliché di quegli anni), Costa scrive:

se si scrive 
lepre
non è detto se si scrive lepre che sarà una lepre
che correrà sull’erba
non è detto che ci sarà dell’erba se si scrive
erba erba erba erba erba erba erba 

"Collocazione dei nomi":



Malebolge e Pseudobaudelaire

Il commento di Balstrini compare ora sulla quarta di copertina del secondo volume delle opere poetiche (Poesie edite e inedite 1947-1991), edito da Argolibri, curato da Chiara Portesine e con una bella, vissuta introduzione di Aldo Tagliaferri,  editor di Feltrinelli negli anni in cui l’opera di Costa si affacciò nel paesaggio letterario. Un paesaggio percorso dai sussulti della neoavanguardia di Anceschi e del  Gruppo 63. Ma,  fatalmente, lo spirito libero e originale dell’autore di Pseudobaudelaire, finì per restare ai margini di quella pattuglia. Il profilo del poeta emiliano (1929-1991) identificò soprattutto un outsider, nonostante una vocazione poetica  corsa a fianco dell’avanguardia, tanto che, con Adriano Spatola, Giorgio Celli, Antonio Porta,  Costa fu tra i fondatori della rivista Malebolge nel 1964. Tagliaferri rimarca inoltre, come pregiudiziale alla fortuna dell’opera, la scissione e il chiasmo tra la vita di Costa avvocato e quella di Costa poeta, tra il lavoro borghese e ordinario e l’avventura letteraria. Eppure quante volte questo chiasmo si è riprodotto e si riproduce con la vita accademica senza altri intoppi e magari con fortune ingiustificate.

Costa patafisico

Viceversa furono molti i poeti e gli artisti a entrare in sintonia con la sua opera. Lo sottolinea ancora l’introduzione mettendo di pari passo in risalto il ruolo positivo svolto dai piccoli editori «che cercarono di ospitare dei testi di Corrado» in anni in cui spettò soprattutto a loro «l’onore e l’onere di dare una mano ai poeti meno noti e più “arrischianti”, secondo l’esattissima definizione heideggeriana, e di pensare in grande alle sorti della letteratura mentre la “grande” editoria corrosa dall’ossessione del fatturato, incominciava a ripiegare su scelte determinate da un consenso popolare eterodiretto o blindate per via accademica.»

L’opera riunita in questo secondo volume, dopo quello dedicato alle pagine giovanili, appare del resto oggi più viva  di quanto non lo siano quelle di molti avanguardisti di quegli anni puntualmente antologizzati, nei quali, per lo più, si legge uno sperimentalismo programmatico, sostanzialmente intellettualistico. Proprio il piacere del gioco, il senso dell’umorismo, la dedizione a una scrittura che genera allusioni e nonsense,  emergono ora in Costa come una forza innovativa e originale non priva di un versante e un’ascendenza filosofici.  Intanto, per trovare al nostro autore degli antecedenti degni di nota bisognerebbe risalire fino ai dintorni del dadaismo e del surrealismo. E  a consolidare questa impressione  è lo stesso Tagliaferri quando circoscrive i riferimenti della poesia di Costa a «tòpoi di ascendenza orientale» (il pensiero buddista) che si innestano sui paradossi della patafisica e precisamente nel Jarry di Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico,  dove  il lessico e i campi semantici del linguaggio burocratico cercano invenzioni surreali trasferiti alla descrizione della complessità del mondo.

Un punto di vista dove la prospettiva di Costa circoscrive l’assoluta assenza di fede nella realtà fattuale delle cose rimarcandone soprattutto la precarietà come accade nella poesia de Il fiume (1974) che l’autore amava leggere e interpretare come gran parte delle sue pagine.

A proposito de Il fiume (1987), il cui nucleo originario venne più volte ripreso ed elaborato, il linguaggio si incarica di richiamarne gli aspetti metonimici (la “fiumità” si potrebbe dire in estrema sintesi) in modo da suggerire l’idea che “il corso” del fiume possa essere altro da sé:

Un brano de “Il fiume”

noi d’inverno 
vediamo sotto i ponti di legno
fiumi 
degli anni precedenti
sotto l’ombra dei ponti 
chi chi
di chi 
è la voce?
chi? chi? 
come si chiama
il poeta che navigando in me stesso 
sale lentamente  
e scorre in senso 
contrario il senso
delle cose che dico? 

Costa disarticola l’ordine naturale e giustappone poi il concetto di tempo soggiacente all’immagine del fiume ad una seconda immagine – esterna al campo semantico – vale a dire  quella di Greta Garbo che guarda “scorrere” (si dovrà dire),  un film di Greta Garbo:

L’immagine del fiume 
va nello stesso senso del fiume. 
L’immagine di Greta Garbo
va in senso contrario  

L’autore disarticola il suo discorso lirico rispetto ai referenti naturalistici e suggerisce riflessioni paradossali, come nel testo apparso su North (I, 1975) ora compreso in questo secondo volume:

Da quelle montagne 
che non si possono vedere
scorrono fiumi
che non si sono ancora mossi
Si sente solamente scorrere
Non possiamo sapere dove c’è
una riva del fiume
o l’altra – Si sente – 
voglio dire – ci sono
fiumi
che scorrono senza niente
attorno
ancora
indenni
Si sente solamente
scorrere
non si può vedere
che riva c’è del fiume
o due
o tre 

La disposizione a de-costruire il reale imponendo con questo non solo un semplice straniamento ma una nozione di fragilità dell’essere, è costante e corre in filigrana a gran parte dell’opera rafforzata dalla semplicità del linguaggio. Tra le poesie inedite oggi riunite nel volume, troviamo:

Mi piace correre allora sopra un sacco
tesa sul filo la vela che asciuga con le
maniche rovesciate – abbandonante una
lunghissima scia di lavori da fare.

Sotto sera l’onda del cielo batte più
calma a questa radura di gente dove
oggi trebbia una macchina e l’allegria
dei chicchi ha catturato i passeri. 

Qui è evidente la confusione dei campi semantici inerenti l’aia e il mare dove gli oggetti (il sacco con i chicchi, gli abiti ad asciugare con le maniche rovesciate, la scia del mare, la vela e un’altra “scia”, ovvero la trafila di lavori, la radura e il cielo ondoso) producono un caos ricomposto dalla notazione “l’allegria/ dei chicchi ha catturato i passeri”. Altrove le valenze si caricano invece di significati allusivi come nella celebre “I due passanti” da Pseudobaudelaire (1964),  raccolta di esordio:

Un’opera visuale di Costa
I due passanti: quello distinto con il vestito grigio
e quello distinto con il vestito grigio, quello con un certo
portamento elegante e l’altro con un certo portamento
elegante, uno che rideva con uno che rideva
uno però più taciturno e l’altro
però più taciturno, quello con le sue idee
sulla situazione e quello con le sue idee
sulla situazione: i due passanti: uno improvvisamente
con gli attrezzi e l’altro improvvisamente nudo
uno che tortura e l’altro senza speranza
una imprecisabile bestia una imprecisabile preda:
i due passanti: quello alto uguale e quello
alto uguale, uno affettuoso signorile l’altro
affettuoso signorile, quello che si raccomanda e
quello che si raccomanda

Qualche ulteriore osservazione formale

La forma, ovvero la cosa referenziale, i passanti,  ha un primo esito umoristico nella ripetizione delle locuzioni finché la “diversità” si evidenzia tra le spoglie della referenzialità per divenire opposizione e approccia il concetto di convenzionalità borghese. La scrittura di Costa esclude la soggettività, l’ io ugualmente rigettato dai Novissimi, ma il tratto decisivo dell’autore non è assertivo, piuttosto si può individuare  nello scarto, nel disorientamento  che dal profilo linguistico e giocoso scivola altrove, ovvero su temi di cui viene interrogata la loro conoscibilità.  Il tema più volte ripreso del fiume circolare, trova un parallelo, rispetto al movimento e alla nozione di tempo, nelle poesie di The complete films (1983), dove l’opera cinematografica è di fatto metafora di se stessa, ovvero specchio di uno specchio. I versi procedono  per successive provocazioni  fino ad assecondare per Giulia Niccolai  (nelle appendici è proposta una sua lettura con il saggio “Le sue meravigliose posizioni”) la nozione buddista di impermanenza  con l’abolizione del dualismo essere e non essere. In “Differenze fra due film uguali” si legge:

in alto
manca l’ultimo gabbiano
a destra
in alto
manca la parete destra
della casa
manca il fumo
della casa
in alto
manca
il bottone del soldato
al polsino sinistro
in basso
sotto il fucile
manca l’erba
in alto
manca il mare
manca il primo
manca anche l’altro
dei due gabbiani
in alto
manca il bambino
in basso
chi non
c’è
più
ora
Grida

Specularità e humor

Ovvia è la nozione (nel testo sopra citato) di una specularità irrisolta e canzonatoria (mentre altrove, per esempio in “Film con attori presi dalla strada” si ha la coincidenza puntuale di una scena esterna al film che costituisce il film facendo coincidere esterno e interno fino alla conseguenza conclusiva per cui «qualcuno viene dentro a vedere/qualcuno esce fuori a vedere»). Ma assai meno ovvia – perché implicita nel testo-  è la nozione interrogata del movimento e del flusso temporale. E’ ancora una volta l’immagine di Greta Garbo che osserva un suo film andando in «senso contrario».

In Corrado Costa la referenzialità è illusoria e ha lo statuto di una convenzione. L’immaginario può intraprendervi allora un proprio colloquio, divenire autonomo, scoprire infine che si rifiuta di assomigliare alle sue promesse, come in questi cinque versi di “Due si fermano sul ponte”:

cosa aspettano, hanno la loro immagine, l’immagine
che hanno
è ferma giù nel fiume, in basso sulle acque che
cosa aspettano cosa dicono
«va via»

Marco Conti

Corrado Costa, Poesie edite e inedite (1947-1991) – Opere Poetiche II; a cura di Chiara Portesine, Argolibri. 2021: Euro 24,00

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