Trevi: una coperta infeltrita nella casa del mago

Se l’autobiografia presuppone certezza e l’autofiction l’interrogazione sul proprio tema, non c’è dubbio che Emanuele Trevi con La casa del mago aggiunga un altro tassello a quest’ultimo genere,  fra storie vissute e sospese. Protagonista, come annuncia il titolo, non è soltanto la figura del mago, ovvero del padre del narratore; lo è di pari passo la sua casa, l’appartamento dove il narratore trasloca dopo qualche incertezza e con una inquietudine che resterà tra le mura delle stanze e tra i ricordi. Il romanzo diventa così il tragitto tra la memoria del padre, Mario, psicoanalista junghiano e l’identità del narratore. Un mistero insomma che sollecita altre domande. Tanto che Emanuele Trevi commenta: «Non ho una grande inclinazione a interpretare in modo vincolante i fatti che racconto. Di ogni storia, anche di quella confezionata con la maggiore efficacia, basterebbe tirare un filo per far venire tutto giù, riducendola a un nugolo di fatti insensati. Tanto più con storie di questo tipo, pescate nei fondali limacciosi della vita, della memoria, senza che ci sia bisogno di ricorrere ai trucchi sempre efficaci del mestiere.»

Il cubo di Rubik

In Due vite (2020), Emanuele Trevi  perlustrava le attitudini dei protagonisti, due amici scrittori prematuramente scomparsi  disegnando i loro percorsi attraverso episodi che sancivano tanto i rapporti quanto l’ evidente inconciliabilità dei caratteri. Nel nuovo romanzo la perlustrazione dello spazio e delle parole del padre appare più problematica. Il primo nodo da sciogliere è l’evidenza di un profilo elusivo. « “Lo sai com’è fatto”. Quando mia madre mi parlava di mio padre ci metteva poco ad arrivare al punto, sempre lo stesso: per affrontare qualunque faccenda con quell’uomo enigmatico, quel cubo di Rubik sorridente e baffuto, bisognava sapere-come-era-fatto.» Ma la formula idiomatica nasconde un sapere tutt’al più intuitivo. Emanuele Trevi gioca con sovrana ironia intorno all’enigma: il suo atteggiamento taciturno, la sbadataggine, gli interessi che dalla psicoanalisi trascorrono alla simbologia e all’astrologia, campi questi ultimi condivisi dal suo maestro, il guaritore Ernst Bernhard, i passatempi che che lo hanno accompagnato per una vita: disegnare complesse figure geometriche e lucidare sassi. Tutto ciò non fa che rendere più arduo il ritratto. Emanuele Trevi pesca dunque nella memoria, traccia qualche parallelo con la propria vita, racconta come lo psicanalista perse il figlio durante un soggiorno veneziano nell’istante in cui Emanuele acciuffò per strada la cintura del trench sbagliato seguendolo tra le calli; così come di ritorno a Venezia con il padre, in età adulta, si fecero derubare entrambi perché, nottetempo, non chiusero lo scompartimento della cuccetta

La coperta di lana

Mentre le domande si riconcorrono l’una appresso all’altra, almeno di una cosa siamo certi: la casa, snobbata dalle giovani coppie di sposi che avvertono tra le mura qualche aura contraria se non misteriosa, diventa il fulcro della storia, il luogo dove Emanuele si decide a prendere residenza mantenendo tra tutte le suppellettili una maestosa scrivania che nasconde cassetti, sportelli, ripostigli. E’ il primo oggetto di una lunga sequenza che Trevi adopera per circoscrivere l’ansia del presente e l’incertezza del passato. La scrivania sgombra, ordinata, luogo di lavoro e cesura tra paziente e guaritore, tra domande e risposte, ma anche il posto che separa padre e figlio nell’intervista di Emanuele allo psicoanalista, ormai ottantenne. Più oltre l’attenzione si sposta sui quaderni di appunti e la calligrafia paterna, «un corsivo così ordinato, così esattamente ricorrente nelle sue forme, da dare l’idea di un carattere stampato, di tipo gotico». Anche per lo scrittore, infine, è difficile prendere possesso dell’appartamento. A lungo gli scatoloni del trasloco rimangono a terra in attesa di essere svuotati. Tanto basta per ricordare due preziosi vasi cinesi che ora risultano scomparsi. Ma ben più importante è una coperta di lana infeltrita e bucata: «Ci si avvolgeva per riposare, se la portava dietro in vacanza quando andava a Cortina, la teneva sempre a portata di mano.» Quella coperta sembra di fatto un amuleto. Il foro che la contraddistingue con la circonferenza bruciacchiata è quello un proiettile sparato nel 1945 quando il padre, ex partigiano, in marcia con la coperta sulle spalle, era stato preso di mira da un soldato tedesco.

La casualità, il destino

Come nelle altre opere Trevi lascia aperte le sue domande quanto più rimpiccioliscono le distanze tra lo sguardo e l’oggetto, convinto – come sembra essere – che la vita è condanna alla libertà (così si esprimeva Sartre) e dunque dominio del caso anche là dove si accenna al destino ipotizzando una catena di eventi. Parlando del colpo fuori bersaglio sparato dal cecchino, e pensando all’eventualità opposta, scrive: «Tutto l’intrico del futuro – compreso me stesso, che in questo momento scrivo queste parole – dissolto come una bolla di sapone. Noi siamo gli spettri di quello che non è accaduto».  Di eventi insoluti nella quotidianità della casa del mago, così come in quella più strettamente autobiografica, il libro è una fitta tessitura. La sua bellezza è richiamata proprio da questa voce, come i sassi che il padre smussava e lucidava con la carta vetrata.

Marco Conti

Emanuele Trevi, La casa del mago, pp. 249, Ponte alle Grazie, 2023; euro 18,00

Marta Cai, tipo una scrittrice

A sette mesi dal suo primo romanzo Centomilioni, uscito per Einaudi e finalista al premio Campiello, Marta Cai è tornata in libreria con un racconto che conferma intatte le sue prodigiose capacità di scrittura. Nella quartina di racconti pubblicati a ottobre da Tetra, un coraggioso progetto editoriale che ogni 4 mesi porta alla luce 4 testi delle migliori penne italiane al costo di 4 euro, Tipo psicanalisi occupa un ruolo di rilievo, nonostante la bontà dei testi di Dario Voltolini, Demetrio Paolin e Alessandro De Roma. Nelle 70 pagine confezionate in un formato grafico che induce i bibliofili al collezionismo, la scrittrice nata a Canelli e residente in Brasile trasla nuovamente i suoi temi più cari: la provincia, i rapporti famigliari, i soldi e il cibo.

La storia di Anita detta Nini

La vicenda è presto detta: la giovane Anita («detta “Nini” a casa, “Ani” a scuola e “Ano” tra i più facinorosi») accompagna i genitori, Dante il piemontese errante (che sogna viaggi lontani, ma passa le serate sul divano a bere Vecchia Romagna) e la moglie Lucia, imbottita di psicofarmaci che etichetta per praticità come «tipo Control» o «tipo Lexotan», in un viaggio verso un fantomatico guaritore svizzero (una macchietta che parodizza, anche linguisticamente, gli epigoni freudiani). Cai è compassionevole e spietata con la protagonista (una versione adolescenziale della zitella Teresa di Centomilioni), che al posto di seguire la famiglia vorrebbe andare al compleanno di Pietro di cui è innamorata, insieme all’amica Anna: esile e «cachettica» vive in una famiglia campagnola tra «le stagioni, le galline ovaiole, il punto di maturazione della frutta, le pere decane».

Proprio frutta e cibo diventano correlativo oggettivo di desideri frustrati e affetti mancati, un po’ come le faraone e gli ossibuchi nel romanzo precedente. Sembra di rivedere Pavese, quando in Lavorare stanca accostava le donne a frutti maturi, che cercava di assaporare, ma spesso vedeva cadere dagli alberi troppo maturi. In questo caso tutto ruota attorno a una pera, simbolo della normalità che Anita vede nella famiglia di Anna e al contempo figura fallica – «sembra il cazzo che c’è nei bagni delle femmine» – , di un incontro con l’altro sesso anelato dalla ragazza. Oppure nei pasti famigliari, che seguono riti precisi, sintomo di ruoli imposti e dinamiche tossiche: «al ristorante la regola lassa era di assaggiare le specialità locali, quella inderogabile di non ordinare per nessuna ragione pietanze che si potessero cucinare anche a casa».

Una via di fuga

Queste dinamiche finiscono per creare gabbie di solitudine e incomprensioni, a cui la clinica svizzera non può porre rimedio. Le uniche vie di fuga diventano per i genitori dei feticci come le cartine geografiche o le pillole della madre, mentre per Anita, schiacciata dai genitori, l’unico sfogo sembra essere la comunicazione telepatica con Anna e Pietro, una sorta di super potere che è l’evoluzione del diario di Teresa in Centomilioni: uno spazio libero, dove esprimere la propria interiorità senza remore e arrivare a fondo dei pensieri più intimi, un po’ «tipo psicanalisi».

Lorenzo Germano

Marta Cai, Tipopsicanalisi, pp.74, Tetra, 2023; euro 4,00

Nei boschi e tra gli amori del Grande Meaulnes

Compie centodieci anni l’indimenticabile romanzo di Alain-Fournier

Disegno di Thévenet per Le Grand Meaulnes,Fayard, 1971

Centodieci anni fa,  nel luglio 1913, la Nouvelle Revue Française iniziava a pubblicare a puntate quello che sarebbe divenuto un romanzo di culto, Il grande Meaulnes, una storia ambientata nel cuore antico della Francia, tra boschi e campagna. Un romanzo di formazione, si è detto spesso, perché i due protagonisti si confrontano per la prima volta con l’amore, con lo slancio verso la vita e la condanna alla delusione. Ma la qualità che ha distinto il romanzo di Alain-Fournier rispetto alla vasta rassegna di opere narrative legate ai tempi inquieti dell’adolescenza, è la stessa che partecipa al sogno, alla confusione che accompagna l’infanzia quando si apre all’esperienza e ai desideri di una nuova stagione. Il paesaggio verde e incantato del Grande Meaulnes ne è parte integrante come lo è la quotidianità dei ragazzi. Ragazzi che portano gli zoccoli, che osservano i nonni lavarsi con un secchio d’acqua del pozzo, che aspettano in cortile che sia accesa la stufa della scuola. E’ la cornice che si è voluta definire rustica contro l’immaginario poetico che scaturisce da questi ambienti e di cui pochi indizi sono nondimeno formidabili: un castello nel bosco, una festa notturna, la seducente figura di Yvonne de Galais, le fughe misteriose e i racconti di Agostino Meaulnes fatti al narratore, suo coetaneo, François Seurel. Paradigmaticamente lo scrittore ha dato un nome vago e pressoché intraducibile all’oasi che i giovani cercano nei boschi: domaine. Parola che può indicare una vasta tenuta, oppure un regno, in ogni caso un particolare territorio. In una delle prime versioni italiane, il traduttore Piero Bianconi sottolineò l’ambiguità del termine mantenendo nel testo il corrispondente etimologico, “dominio”. E’ questo regno, dunque, il contraltare della vita del villaggio, il luogo dove gli amori sospesi nel cuore dei protagonisti prendono forma, si confrontano con inattese svolte del destino. Lo psicologismo, in Alain-Fournier, non è di casa. E la fortuna del romanzo è forse legata anche alle domande che pongono i personaggi con l’intreccio delle loro vite.

“Miracles”

Uno scorcio di Épineuil-le-Fleuriel dove lo scrittore è vissuto e dove è ambientato il romanzo (f.to G. Savino)

Di questo mondo romanticissimo restano non solo le pagine dell’unica opera pubblicata in vita da Alain-Fournier, ma anche alcune poesie e numerosi brani di prosa comparsi per la prima volta nel 1924 da Jacques Rivière con il titolo Miracles, libro poco conosciuto e raramente tradotto. Ecco in una versione inedita, “L’amore cerca luoghi abbandonati”

«Nelle lunghe sere piovose l’amore cerca luoghi abbandonati.   
Abbiamo seguito il sentiero d’erba che andava non so dove una domenica di settembre. Ci ha portati su un’altura dove la pioggia si raccoglieva come una bianca foresta perduta. Là, in una vigna terrosa e annerita, mi precedeva il mio amore. Con tenerezza guardavo le sue spalle trasparenti sotto la seta bagnata e la sua mano, il gesto che accompagnava la sciarpa rossa, fradicia, dicendo: “Ancora più lontano! Ancora più persi!”
Abbiamo trovato un boschetto deserto con grandi archi di ferro rovinati a terra, vestigia di un pergolato. In lontananza, nella vallata, si scorgeva un paese fumante di pioggia. Volti umani che guardate dietro le finestre, com’era lento davanti a voi lo scorrere delle ore nelle strade e monotono alle orecchie il suono dell’acqua nel canale – accanto la sera randagia  lungo i viali del nostro rifugio di frasche! Ci siamo gettati pioggia sulla faccia, ci siamo ubriacati del suo gusto denso. Siamo saliti sui rami fino a bagnarci la testa nel grande lago del cielo mosso dal vento. Il ramo più alto, dov’eravamo seduti, si è spezzato e siamo caduti entrambi in una cascata di foglie e di risate, come in primavera due uccelli impacciati nell’amore. E talvolta, amore,  avevi questo gesto selvaggio, scostare coi capelli dagli occhi, i rami del pergolato, perché il giorno continui nella nostra tenuta le cavalcate sui sentieri incerti,  gli incontri colpevoli, le attese ai cancelli, e le feste misteriose che portano la pioggia, il vento e gli spazi perduti.»

Questi passi sembrano  un estratto dell’immaginario che Alain-Fournier riserva al narratore del Grand Meaulnes: con la distanza che separa l’Eden amoroso dal villaggio, con una pioggia sensuale che isola gli amanti e li relega in  un mondo “altro” senza il tedio, senza le contingenze del quotidiano.  Ugualmente le poesie di Miracles insistono su questo registro: l’amore vi si affaccia come salvazione e momento epifanico come nei versi di “Attesa”.

Una poesia di Alain-Fournier

Attesa 
Attraverso noiose estati in classe
in silenzio
e che piangono di noia, 
Sotto l’antico sole dei miei pomeriggi 
Pesanti di silenzio 
solitari e sognanti d'amore 

d’amore sotto i glicini, in ombra, nel cortile 
di qualche casa tranquilla e persa tra i rami, 
Attraverso mie lontane infantili estati, 
per chi sognava l’amore
per chi  piangeva l’infanzia, 

Sei arrivata,
un caldo pomeriggio nei viali 
sotto un ombrellino bianco
con un’aria stupita, seria,
un po' 
sospesa come la mia infanzia, 
con un ombrellino bianco. 

Sorpresa del tutto
insperata per essere venuta ed essere bionda, 
d’esserti messa
d’improvviso
sul mio sentiero,
e subito regalare la freschezza delle tue mani 
e nei capelli tutte le estati del Mondo. 

La biografia con le parole di Jacques Rivière

Un’aula scolastica di Épineuil-le-Fleuriel ai tempi del Grande Meaulnes. Dal 1991 la scuola è un museo (F.to. G. Savino)
Il cortile e la scuola-museo di Épineuil-le-Fleuriel dove visse coi genitori, insegnanti, Alain-Fourier (f.to G. Savino)

Il critico letterario Jacques Rivière conobbe Alain-Fournier nell’adolescenza e ne sposò la sorella, Isabelle, nel 1909. Introducendo Miracles, scrive: «Sono il solo ad averlo davvero conosciuto. Abbiamo legato al liceo Lakanal, dove eravamo entrati nell’ ottobre 1903 per prepararci all’Ecole Normale Supérieure. Avevamo la stessa età, diciassette anni. L’amicizia non fu immediata né si avvicinò senza peripezie». Rivière descrive lo scrittore animato da un forte spirito di indipendenza che più tardi «attribuì a Meaulnes» e che lo portò a prendere il comando di un gruppo di ribelli contro l’istituzione scolastica e le sue gerarchie. Nondimeno Alain-Fournier si confidava (l’incontro tra i due avvenne a Parigi): «parlava del suo paese con passione. Era nato alla Chapelle-d’Angillon, un piccolo capoluogo dello Cher, a una trentina di chilometri a nord di Bourges, sui confini della Sologne e del Sacerrois, nel centro della Francia. Ma era soprattutto di Épineuil-le-Fleuriel, un ancora più piccolo villaggio, situato all’estemità opposta del dipartimento, tra Saint-Amand e Montluçon, dove i genitori furono a lungo insegnanti e dove aveva trascorso l’infanzia, che mi faceva lunghe descrizioni entusiaste da innamorato. Vedevo la sua vita di giovane contadino in questa campagna priva di pittoresco, lenta, pura e ricca e di cui la sua anima era intrisa.» Per Rivière il mondo dell’amico si concentrava in ciò che aveva scoperto dalle finestre della scuola di Épineuil. Ma nonostante tante diversità i due finiranno col comprendersi profondamente. Dal punto di vista letterario, secondo Rivière, la loro giovinezza era immersa nel clima del simbolismo: «Un clima spirituale – scrive ancora il critico- un luogo di delizioso esilio, o di rimpatrio piuttosto, un paradiso. Tutte quelle immagini che oggi spenzolano sbrindellate e flosce, ci parlavano, ci circondavano, ineffabilemte ci accompagnavano.»

Gli altri libri postumi

Il nome anagrafico dello scrittore era Henri Alban Fournier (3 ottobre 1886-22 settembre 1914). F.to wikimedia

Alain-Fournier morì nel 1914 in una delle prima battaglie nei pressi di Verdun. Il suo corpo venne identificato solo nel 1991 in una fossa comune tedesca. Dopo Il grande Meaulnes aveva continuato a scrivere. Ha lasciato incompiuta una commedia e un altro romanzo intitolato Colombe Blanchet. Proprio Jacques Rivière, che è stato il curatore dei brani sparsi di Miracles, risulta coautore della una cospicua corrispondenza con Alain-Fournier editata nel 1925. Nel tempo si sono aggiunti a questo primo carteggio quelli con la famiglia e con un’amante, Pauline Benda, un’attrice nota alle scene come Madame Simone: le loro lettere sono state pubblicate nel 1992 da Fayard: Alain-Fournier, Madame Simone, Correspondance 1912-1914.

Jack Kerouac e la fortuna del grande Meaulnes

Il ruolo dell’amico Rivière, prima redattore e poi direttore della Nouvelle Revue Française, fu cruciale per far conoscere Il grande Meaulnes. Il romanzo, come detto, uscì sulla Nrf a puntate e, nello stesso anno, in volume, sollevando immediatamente grande interesse. Non si conosce il numero di edizioni fatte dopo la comparsa dei “tascabili” all’inizio degli anni Sessanta. L’opera ha influenzato il Salinger autore di un altro romanzo-culto e di formazione, “Il giovane Holden”. Certamente ha affascinato Jack Kerouac che infila una copia del Grande Meaulnes nel bagaglio del protagonista di “Sulla strada”, Sal Paradise: unica scorta letteraria del suo viaggio. Forse inaspettatamente per un’opera del primo Novecento, i critici Robert Baudry e Francine Mora-Lebrun hanno messo in evidenza come il tema centrale riprenda la La Quête du Graal. Perceval e Gaalad in questa lettura sono gli antesignani di una ricerca di perfezione dell’anima che Agostino Meaulnes e François incarnano con altre vesti; Baudry ha parlato esplicitamente di “un romanzo iniziatico” in cui è l’ideale ad essere il vero oggetto dell’itinerario dei moderni cavalieri. Ma al di là dei parallelismi, delle simbologie, degli affondi nel corpo della storia letteraria, il cuore della seduzione esercitata della scrittura di Fournier prende in prestito l’atmosfera della leggenda per farne un capolavoro della modernità con una scrittura limpida, capace di raccogliere in ogni pagina quella visualità che immerge il lettore in un altro spazio. Per non dire dell’incipit dove nostalgia e mistero ci prendono subito per mano pronunciando quasi sommessamente una promessa:

«Arrivò a casa nostra una domenica del novembre 189… Dico sempre “casa nostra”, anche se la casa non è più nostra. Abbiamo lasciato il paese da quasi quindici anni e certo non ci torneremo mai più.»

Marco Conti

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Frankenstein, la storia nata da un gioco

Lord Byron lasciò la villa dove nacque Frankenstein alle sette del mattino del 17 settembre 1816. Con la secchezza di un telegramma scrisse nel suo diario: «Sveglia alle cinque – lasciata villa Diodati alle sette – su una delle vetture del posto (char à bancs) – la servitù a cavallo – …

Il business della letteratura e i media, tra Harry Potter e Murakami

 

Non si sono mai lette, né viste, tante storie. Un romanzo di successo propone una versione digitale, un film, un serial, qualche volta un fumetto o un gioco,  oppure ancora un parco, due, tre parchi tematici come è accaduto per la saga di Harry Potter. Una storia di successo può essere tradotta nel giro di pochi giorni o contemporaneamente al lancio in più lingue e può persino avvenire che le traduzioni siano oltre cinquanta. E’ quindi cruciale la domanda che si pone Giuliana Benvenuti nel saggio introduttivo al libro da lei curato, La letteratura oggi. Romanzo, editoria, transmedialità, edito da Einaudi nella collana Pbe: quale funzione riveste oggi la letteratura? E inoltre: c’è una relazione di continuità con la tradizione? Un interrogativo che ci mette subito di fronte a una seconda questione: la letteratura è ancora conoscenza critica e condivisione dell’esperienza umana e storica, oppure è divenuta intrattenimento? Il saggio risponde che la linea di demarcazione tra i due volti prefigurati è meno netto di quanto si possa pensare. Ma al di là dell’elaborazione critica il libro è anche una antologia di “casi”, una esplorazione nel cuore delle lettere e del mercato editoriale e digitale del nuovo millennio che presenta una sequenza di undici saggi dedicati ad altrettanti autori e al loro successo: José Saramago, Umberto Eco, Salman Rushdie, Murakami Haruki, Stephen King, J.K. Rowling, Michel Houellebecq, Margaret Atwood, Orhan Pamuk, Elena Ferrante.

Qui comincia l’avventura

Tra il 1960 e il 1980 il mercato statunitense (qui preso come unità di misura delle trasformazioni dell’editoria avvenute in occidente) si registrarono 573 fusioni e acquisizioni che alla fine comportarono il dominio di 15 grandi aziende con il 72,4 per cento delle proprietà del settore. Editori come Schiffrin e Epstein contestarono più tardi che fino agli anni Cinquanta l’editoria faceva ricerca di qualità dando corpo a una missione culturale, mentre alla fine del ‘900 ogni sforzo è stato concentrato sul profitto. Ad ogni passo i grandi editori di oggi invocano le leggi del “mercato”, cercando persino di dare un’immagine democratica alle politiche speculative con la scusa che il pubblico deve scegliere quel che vuole. Ma se queste sono le motivazioni sempre in corso (in fondo anche il feuilleton era un media popolare a basso costo per tutti), il discrimine intervenuto alla fine del Novecento è ovvio: la nascita di piattaforme digitali dedicate, la brandizzazione degli autori di culto, cioè il corrispettivo dello star system del cinema, gli investimenti fatti sull’ebook.

Giuliana Benvenuti scrive: «Se prima del 1980 la lista del titoli più venduti vedeva ancora la letteratura “alta” accanto alla fiction popolare, attorno a quell’anno cominciò a essere dominata da un piccolo gruppo di autori il cui nome assomigliava sempre più a un brand: Tom Clancy, Michael Crichton, John Grisham, Stephen King, Danielle Steel e altri.» La comparsa di internet nel decennio successivo trasformò e moltiplicò il carattere remunerativo degli investimenti. Il caso emblematico è quello di Scribner che in una joint venture con la casa editrice di Stephen King (Philtrum Press) pubblicò nel marzo del 2000 il racconto Passaggio per il nulla in formato ebook, disponibile per 2, 50 dollari, una piccolissima somma che del resto per gli editori comportava solo oneri contrattuali. «Nelle prime ventiquattro ore dalla messa in rete fu scaricato 400.000 volte, toccando le 600.000 copie elettroniche nelle prime due settimane.» Nel giugno dello stesso anno il pubblisher, ovvero l’agente di King, annunciava che lo scrittore stava scrivendo un altro testo destinato all’ebook, ma a puntate, e senza alcuna mediazione editoriale chiedendo ai lettori un’offerta qualsiasi. La prima puntata fu scaricata 152.132 volte nel corso di una settimana.

Il corollario della pubblicazione digitale è che l’offerta è condizionata oltre che dai nomi brandizzati, dai gusti e dalla preparazione letteraria dei “clienti”. La stessa offerta on line è dominata di pari passo da libri stampati e digitalizzati da scrittori improvvisati. Nel gennaio 2015 il 40% dei ricavi di Amazon (che su questa strategia è stata la prima azienda a investire in maniera cospicua) «provengono dalla vendita di ebook di self-published authors». In certo modo lo stesso accade con le piattaforme digitali e per quello che costituiva il setaccio critico, il giudizio di valore. Mentre scomparivano le costose pubblicazioni cartacee si sono fatte strada  quelle su internet, dove è cospicua la percentuale “amatoriale”, cioè di appassionati di letteratura (non è il nostro caso; chi scrive qui lo ha fatto e fa di professione)  o di redattori di pubblicità promozionale collocati in vari contesti. Ma almeno su una circostanza, il bilancio è positivo: diversamente da quanto si temeva il digitale non divora affatto la letteratura cartacea.

I nuovi media e le star

Al di là degli esiti popolari, la globalizzazione  modula anche le scelte tematiche: un successo comporta il tentativo da parte di altri autori e produttori di replicarlo in tempi stretti con un effetto di serializzazione dei contenuti. Il caso più eclatante di diffusione dei prodotti culturali, è quello della nascita di Bollywood, nome affibbiato ironicamente al cinema popolare indiano, mentre in ambito letterario valga per tutti la serializzazione dei generi e la contaminazione tra visualità e scrittura. Il contrappasso di questo scenario avrebbe dato luogo, secondo una tesi, al fenomeno letterario dell’autofiction. Benvenuti cita  The conglomerate Era di Sinykin dove si ipotizza che i conglomerati di media abbiano creato un perenne stato di ansia autoriale. Gli scrittori, decisi a richiamare la centralità della loro funzione di fronte ai vari compromessi e alle negoziazioni, avrebbero cioè dato luogo a un nuovo approccio tematico, facendo dell’autore e dei rapporti con gli editori, gli agenti, i promotori, un nuovo genere letterario di non fiction: saggi in prima persona e memoir. Altrettanto problematico è l’effetto della trasmedialità sul canone letterario su cui, peraltro, il saggio non insiste ricordando che «Non è facile abbandonare il paradigma modernista che stabilisce un’equazione tra valore e originalità, intesa anche come continua ricerca della novità, con il corollario di una vera e propria lotta con la tradizione letteraria illustre, sempre richiamata ma sempre avvertita come minaccia».

La mappa e i numeri dei successi: in principio fu Umberto Eco

La selezione degli scrittori di successo la cui opera ha avuto un ventaglio di esiti mediali ha tenuto conto soprattutto degli autori di rilevanza letteraria e critica cominciando con un caso-limite, quello di José Saramago, scrittore per il quale il Nobel e il successo internazionale erano tutt’altro che iscritti nel tempo. Una sorta di premessa temporale che immette in una esperienza ugualmente lontana ma condivisa, vale a dire le autofinzioni di John Maxwell Coetzee (di Chiara Lombardi) e in maniera più importante – rispetto al tema del dialogo tra media –  nell’avventura di Umberto Eco ( nella f.to sopra) con Il nome della rosa raccontanta dal saggio di Beniamo Della Gala. Il romanzo di Eco è edito nel 1980; nel 1981 e ’82 ottiene i premi Strega e  Médicis, il New York Times lo include nell’ ’83 nella sua prestigiosa lista di “Scelte editoriali”. In  Italia permane per 170 settimane nelle classifiche dei romanzi più venduti, negli Usa per 23. Il nome della rosa  viene tradotto in 50 lingue e nel corso degli anni sono state vendute 55 milioni di copie. Il libro avrà due nuove edizioni nel 2012 e nel 2020: la prima con disegni dell’autore, la seconda con gli appunti che accompagnarono la scrittura. A parte il film di successo di Jean-Jacques Annaud nel 1986, nel 2003 il plot di Eco diede luogo a un nuovo bestseller popolare, Il codice da Vinci di Dan Brown nel 2003, mentre il successivo libro di Eco, Il pendolo di Foucault, nonostante traduzioni e vendite non ottenne neppure lontanamente un successo analogo.  Ma si crearono videogiochi ispirati ai personaggi (Murder in the abbey, 2008), serial, un adattamento radiofonico, un audiolibro. Milo Manara su Linus creò un fumetto a puntate ispirato alla storia, parodie vennero pubblicate da Topolino; Zagor, un altro fumetto, ospitò nel 1992 L’abbazia del mistero. Di nessun successo fu invece il serial in inglese di Turturro ed Everett.

Stephen King, un brand da 600 milioni di dollari

Umberto Eco nel momento in cui scrisse il suo primo romanzo era un semiologo e un saggista affermato. La sua diversione nella fiction sorprese. Viceversa Stephen King (di cui ci parla Massimo De Angelis) nasce come uno scrittore isolato il cui primo libro, Carrie, nel 1974 non ottiene grande attenzione finché due anni dopo non ne fa un film Brian De Palma. Tra il ’77 e il 1984 King pubblica cinque romanzi di cui quattro scritti in precedenza con lo pseudonimo di Richard Bachman che otterranno attenzione solo dopo la scoperta dell’autentica firma autoriale. Come Eco e diversamente da Eco, King è comunque il prototipo dell’autore-brand. Tra libri e versioni transmediali è titolare di un’attività il cui valore, nel 2022, è stimato in 600 milioni di dollari. I suoi soli romanzi hanno venduto 350 milioni di copie.

J.K. Rowling: come vendere 500 milioni di copie 

La copertina della prima edizione di Harry Potter; il volume che conteneva alcuni errori tipografici è stato battuto all’asta per 250 mila dollari. Sotto il titolo uno dei giochi ispirati alla saga 

La saga di Harry Potter, sette romanzi editi tra il 1997 e il 2007, sono attualmente il fenomeno letterario più cospicuo, redditizio e globale di tutti i tempi. E come scrive il saggio di Marina Guglielmi, Rowling «è lo scrittore più ricco del mondo». I suoi romanzi sono tradotti in più di 80 lingue e ad oggi le copie vendute si aggirano su 500 milioni, più di quanto non accade per tutta la corposa produzione di King. Dopo i romanzi della saga sono usciti tre libri che costituiscono la Hogarts Library, cioè i manuali scolastici usati dalla scuola di magia di cui ci racconta la storia di Harry Potter a cui si aggiunge una raccolta di racconti e una saga dedicata agli animali fantastici. Guglielmi prende nota ugualmente del vasto mondo trasmediale interessato al fenomeno: adattamenti cinematografici, un sequel in forma teatrale, tre prequel, giochi da tavolo, videogames, musical, due siti web, tre parchi a tema, uno Studio Tour della Warner Bross a Londra, negozi di marchandise. I fan hanno pubblicato diversi libri ispirati al mondo di Harry Potter così come sono state prodotte opere d’arte, brani musicali, canali dedicati e associazioni (compreso il sodalizio sportivo di  Quidditch). Ogni anno si hanno eventi, e conferenze ospitate da college e università. Gugliemi traccia inoltre il profilo delle narrazioni parallele che tra web e carta stampata hanno seguito parallelamente l’autrice: la madre sola e indigente, la passione letteraria della Rowling, il viaggio in treno da Manchester a King’s Cross nel 1990 dove la saga di Potter le appare «come un’epifania» e i rifiuti degli editori con il seguito di una prima tiratura del primo romanzo di 500 copie. Infine l’acquisto dei diritti da parte della casa editrice americana Scholastic a un prezzo importante, precedentemente mai pagato per un libro che doveva essere destinato ai bambini.

Houellebeck, lo sfregio alla correttezza liberal dell’Occidente

La transmedialità richiamata dal libro di Giuliana Benvenuti si rispecchia evidentemente in maniera diversa, più o meno evidente, rispetto non solo ai tempi storici più o meno digitalizzati ma anche in relazione ai caratteri delle opere e alla ricezione. Sia  Coetzee, sia Michel Houellebecq partecipano alla ricerca sotto profili sensibilmente diversi, così come accade per Margaret Atwood, Haruki, Pamuk e Ferrante. Il caso di Houellebecq, autore esordito con un saggio su Lovercraft e una raccolta di poesie, e divenuto celebre con romanzi destinati in principio a pochi intellettuali, non può evidentemente dar luogo a un impatto paragonabile a quello della Rowling. Un dato economico per tutti: i libri dello scrittore de Le particelle elementari  e Sottomissione si aggirano sui 5 milioni di copie. Il saggio di Filippo Pennacchio richiama il successo su diversi mercati internazionali, i premi Impac e Goncourt, le versioni cinematografiche ma è chiaro che la prosa di  Houellebcq nasce con un crisma autoriale alla vecchia maniera (come per Saramago): lo scrittore provoca i contemporanei, non accetta i diktat del costume intellettuale sul “politicamente corretto”, interseca con i suoi romanzi tematiche diverse: la perdita di valori nel mondo liberista, la cancellazione di identità e tradizioni mentre i suoi protagonisti (percepiti come alter ego dell’autore) avanzano richieste libertarie. E non basta. La narrativa di Houellebecq ha un versante distopico dove si delinea un futuro di clonazione dell’essere umano, di sessualità avulsa dall’identità, di disvalori. Ma è aleatorio chiedersi se al suo successo contribuisca la “scrittura bianca” barthesiana in un paesaggio letterario in cui la lingua narrativa è comunque orientata verso la lingua denotativa d’uso o a una “classicità” senza fisionomie ritagliate (per confronto si potrebbe citare tanto Gadda quanto Nabokov, tanto Tondelli quanto il Saramago qui convocato).  Certo non sono estranei al successo dell’autore francese, come racconta con dovizia Pennacchio, le circostanze storiche. Non solo la sicumera del politicamente corretto e del “futuro che avanza” con i suoi corollari legati agli interessi di capitale ma alcuni episodi in particolare: nel 2001 esce Piattaforma dove si racconta di un poderoso attentato islamico in un villaggio turistico e pochi giorni dopo avviene l’attentato alle Torri Gemelle; il 7 gennaio 2015 compare Sottomissione e nello stesso giorno un altro attentato islamico colpisce la sede del settimanale Charlie Hebdo, reo di aver offeso Maometto con le sue vignette satiriche. In breve «il romanzo e il suo autore si ritrovano al centro di infinite polemiche sulla libertà di espressione, sull’idendità nazionale, sui conflitti religiosi e culturali che attraversano il presente.» Se Houellebecq è considerato tra gli autori più lucidi di oggi, nondimeno al successo hanno contribuito le sue provocazioni, come l’articolo “Trump è un buon presidente” o la sua stessa immagine pubblica: scarmigliato, con una sigaretta perennemente fumante tra le mani, vestiti casual stazzonati.

Una postilla 

L’intelligente scelta della curatrice di convocare  esperienze letterarie tanto diverse ma convergenti sulle valenze economiche, sociali e strumentali, richiama un ulteriore aspetto esterno agli interessi degli autori ma non eludibile: dalle allegorie di Saramago, alle distopie di Houellebecq passando dai mondi medioevali, gotici e fantastici di Eco, di Stephen King e dalla Rowling, dall’alterità evocata in molte opere di Murakami Haruki, all’ambientalismo di Atwood, si disegna una letteratura che delega all’immaginario due movenze opposte: lo scantonamento dal presente o la polemica con il presente. Una dualità convergente e sulla quale la transmedialità capitalizza  attraverso quello che Barthes avrebbe sicuramente definito “il piacere del testo”. Finora questa dialettica non ha avuto sintesi. Per dirlo con Murakami abbiamo il nostro mondo e il mondo “altro”.

Marco Conti 

Giuliana Benvenuti (a cura di), La letteratura oggi. Romanzo, editoria, transmedialità, pp. 332, Einaudi Pbe, 2023; euro 24,00

 

 

Guerra, ovvero il Céline ritrovato

 

Il manoscritto recuperato con altre migliaia di carte era stato trafugato dall’abitazione di Céline nel primo dopoguerra 

Il 17 giugno 1944 Louis-Ferdinand Céline decide in fretta e furia di lasciare Parigi, ormai prossima alla liberazione, per scappare in Germania con la moglie Lucette e il suo gatto. E’ già autore di due  tra i più notevoli romanzi europei della prima metà del secolo: Viaggio al termine della notte, nel 1932, e Morte a credito, nel 1936. Il punto è che, nella sua rabbia contro il mondo e gli uomini, ha scelto di schierarsi sia contro la guerra, sia con la Germania e non solo: è autore di tre pamphlet che incolpano ebrei, capitalisti e comunisti del degrado della Francia. Abbandonando la sua casa , Céline (il nome d’arte è stato mutuato da quello della nonna:  lo scrittore all’anagrafe è Louis-Ferdinand Destouches) lascia dietro sé un’enorme quantità di manoscritti che rivendicherà fino all’ultimo giorno senza poter mai entrarne in possesso. Dopo essere scappato ed essere stato catturato in Danimarca, dove sconterà la prigione per collaborazionismo, sarà di ritorno in Francia nel ’51, ma  non scoprirà mai come reperire gli scritti rubati, a quanto pare quindicimila fogli. Né lo potrà fare l’erede degli inediti, la moglie, che morirà solo nel 2019, a 107 anni.
Il mistero si risolve però nello stesso anno. Un giornalista di “Liberation”, Jean-Pierre Thibaudat, rivela di essere stato per oltre vent’anni il possessore degli inediti avendo ricevuto i manoscritti da un combattente della resistenza francese, Yves Morandat che, nell’affidarglieli, aveva preteso il segreto fino alla morte della vedova Celine. Non voleva forse che i testi fossero usati politicamente dai movimenti di destra e del resto si trattava di materiali trafugati indebitamente.

E’ così che Guerra – cronologicamente una premessa autobiografica del Viaggio al termine della notte –  diventa un eclatante caso letterario, oggi proposto nella versione italiana di Ottavio Fatica edita da Adelphi, a tre anni di distanza da quella originale. Fin d’ora si sa che a Guerra seguirà un altro romanzo inedito, Londres (giù stampato in Francia l’anno scorso da Gallimard) e una più ampia versione di Casse-pipe.  Una storia, quella degli inediti ritrovati, che parrebbe fatta per essere scritta da Céline…Benché il finale della vicenda,  tutto sommato edificante, non avrebbe forse convinto l’ autore che, sul genere umano, nutriva la più sconfortante sfiducia spinta fino alla soglia della paranoia o del nichilismo.

Il romanzo

«Sarò rimasto lì ancora una parte della notte dopo. A sinistra tutto l’orecchio era appiccicato a terra con il sangue, la bocca pure. Fra l’uno e l’altra un rumore immenso. In quel rumore ho dormito e poi è piovuto, pioggia di quella fitta fitta.»

Un incipit che restituisce immediatamente la voce  di Céline: il monologo in prima persona come in tutti i romanzi di Céline, il colloquio intimo in argot. Lo scrittore torna idealmente indietro nella propria autobiografia rispetto alla vicenda di Viaggio al termine della notte dove il protagonista è un medico che, dopo aver preso parte alla prima guerra mondiale, si imbarca su una nave diretto nelle colonie. Con Guerra Céline ferma l’attenzione sul momento in cui rimase ferito durante un’azione militare e sopravvisse, unico della sua pattuglia, restando per ore sul terreno prima di tentare di tornare, ferito, nelle retrovie. La narrazione si sposta quindi nell’ospedale in cui viene ricoverato  dove prende corpo ancora una volta la visione di un’umanità sofferente e grottesca, tra derelitti, canaglie, bugie, perbenismo di maniera. Anche nelle corsie ospedaliere di sofferenti e moribondi c’è in sostanza lo spettacolo infimo che lo scrittore ha sempre paventato con furfanti che cercano di trarne qualche guadagno, con la pietà e l’eros incarnati dell’infermiera L’Espinasse. Figura estrema anche questa che offre il piacere della masturbazione anche ai moribondi. Il timbro è quello consueto, inconfondibile, di una voce sardonica, a tratti grottesca nell’impasto di tragedia e humor nero. Emozioni e piccolezze sono raccontate con un linguaggio basso ma capace di ritagliare scorci lirici: «Guardavamo i giardini, gli alberi sopra i muretti di mattoni. In cielo c’erano grasse cannonate e poi anche grasse nuvole tutte rosa e tutte pallide», scrive quando, con un commilitone, riesce a uscire dall’ospedale dove è ancora degente senza farlo sapere agli altri ricoverati.

La medaglia al caporale Céline

Il caporale Céline, nella realtà come in questa prosa, sarà insignito di una medaglia. E dire che, interrogato da un ufficiale durante il ricovero ospedaliero, temeva di finire davanti al plotone di esecuzione. Ma così come ogni accusa sarebbe stata demenziale, per il caporale è demenziale anche il premio ricevuto e il suo corollario, con commilitoni e genitori emozionati per l’onore che dà lustro alla famiglia:

«Mio padre era come paralizzato. Di punto in bianco ero diventato qualcuno. Ne parlavano già tutti al passage des Bérésinas della mia medaglia, dicevano. Mia madre aveva la lacrimuccia, la voce commossa. A me però mi dava pure il voltastomaco.»

Céline avrebbe voluto invece che finisse il frastuono, il rumore di fondo incessante che avvertiva nella sua testa, uno sferragliare dovuto all’esplosione di un ordigno che lo aveva scagliato contro un albero e colpito alla testa. Ma se il corpo, la precarietà che vi è inscritta, sono una costante in queste pagine, lo stesso vale per l’eros e per il fragilissimo velo di ragioni morali. La narrazione, in principio del tutto filtrata dalle preoccupazioni del protagonista, sposta poco a poco il baricentro verso la vita dell’ospedale, l’amicizia con il vicino di letto, Cascade (in principio nel manoscritto chiamato Bébert, come il gatto dello scrittore!), i traffici e il lenocinio della moglie di quest’ultimo con  i soldati inglesi acquartierati nella cittadina, riuscendo fino alla fine a mantenere viva la sospensione tra i personaggi e le loro sorti.

Nella premessa François Gibault osserva che il manoscritto era una prima stesura; il testo avrà la sua naturale continuazione con il romanzo già citato, Londra, concomitante peraltro con la tappa successiva della vita reale di Celine.

François Morane

Louis-Ferdinand Céline, Guerra (a cura di Pascal Fouché),  pp. 156, Adelphi, 2023; euro  18,00

 

Raboni, la poesia parla da lontano

Salerno Editrice pubblica un’ampia edizione critica di “Cadenza d’inganno”, libro-chiave che riunì 17 anni di vita del poeta lombardo

Parler de loin, ou bien se taire…L’invito di La Fontaine  messo in epigrafe da Giovanni Raboni alla prima raccolta di poesie, “Le case della Vetra”, non è mai stato così dissonante  rispetto alla moneta corrente del XXI secolo. Ma quella nozione formale di poesia è stata la cifra più vistosa dell’opera di Raboni e la si apprezza ancora meglio oggi, con la vasta edizione critica del suo secondo libro, in origine pubblicato nel 1975: Cadenza d’inganno, curato da Concetta di Franza per Salerno Editrice con la prefazione di Giancarlo Alfano.  Understatement che si apprezza tanto più nelle pagine di un libro composito che innesta continuamente privato e pubblico, motivazioni intime e le denunce degli anni brucianti della contestazione sessantottina: la morte dell’anarchico Pinelli, il sospetto che si allunga sulla stessa figura intellettuale e borghese di Raboni, sia da parte dell’apparato di potere, sia rispetto all’ideologia giovanile dominante nella piazza.

“Parlare di sé da lontano, oppure tacere” dunque.  Raboni aprì Cadenza d’inganno con una sezione dedicata alla memoria della madre in cui il tema della morte (che contrassegna un parte significativa di tutta l’opera dell’autore) è visitato attraverso scorci che parrebbero neutri e stranianti e dunque destinati a rendere ancora più forte il sottaciuto attraverso scene indirette. Un esempio flagrante è il testo “Amen” dove la memoria è rievocata con le immagini prosaiche degli spazi di un appartamento: «Quando sei morta stavamo/ in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio/ da vendere per pianerottoli e scale./Dunque non t’è toccato di passare/ di spalla in spalla per angoli e fessure,/ d’essere calcolata a spanne, raddrizzata/ nel senso degli stipiti/. Sparire/ era più lento e facile quando sei sparita.(…)». Il registro, l’uso di locuzioni colloquiali, concordano con la scena dimessa, così come la conclusione del testo, formalmente distante ma feroce sul dolore della morte, quando rivolgendosi alla stessa morte pronuncia: «Scendi a pianterreno/ come ti pare (…) liberaci dall’estetica e così sia».

Pubblico e privato

Concetta di Franza mette in evidenza la struttura trasversale del libro che riunisce 17 anni di vita e percorre momenti diversi. Tuttavia in diverse occasioni gli ambiti, osserva la curatrice, gli tematici convergono.  Così accade nella seconda sezione del libro,  “Economia della paura”, articolata su tre prose dove  il concetto di “economia” allude alla sorveglianza politica e contemporaneamente ai sospetti, alla complicità di due amanti durante una conversazione. Mentre il tema politico sarà vivo in un’altra intensa pagina prosastica, “Partendo da Boulevard Berthier” (che richiama un momento dei moti piazza parigini del ’68 in cui morì uno studente) ,   anche la storia amorosa sarà nuovamente voce lirica con i versi di “L’intoppo” : testo che stesso Raboni commentò in una intervista fatta dalla curatrice nel 2004 e poi pubblicata sulla rivista “Italianistica”. Il poeta definì questa parte del libro il «diario di una storia ancora in corso», vale a dire la vicenda di un amore clandestino «un po’ tumultuoso».  Ecco allora il verso più spiccato ma ugualmente pronunciato con informale disinvoltura in “Cosa”:

Mi chiedi «cosa ti piace di me, cosa

più del resto». Una volta per ridere

ho detto il cappellino. Però pensando

la schiena, le ginocchia; e al labbro di sopra che quasi

non tocca quello di sotto: e come

s’impenna liquido, scatta il tuo profilo.

Ma ancora di più la faccia che non sai d’avere

dopo aver fatto l’amore, netta per saliva e sudore,

a una calma che c’era rifiorita.

Lo stesso timbro lo si ascolta con alcuni incipit che simulano un discorso intrapreso e l’inciso dell’espressione parentetica proprio come accade nei colloqui più informali: «Dei rimproveri che mi fa (certi/ non li discuto/ ce n’è uno quando arriva che fa/ male come il freddo sulle dita)» in “Le volte”.

Non solo nell’architettura del libro ma in un medesimo testo accade che Raboni unisca storia e quotidianità attraverso la stratificazione del vissuto, come in “Notizie false e tendenziose” dove l’unica certezza è quella evocata dall’esergo di Mandel’stam, ovvero che «il potere è ripugnante come le mani di un barbiere». Da qui si direbbe provenga  la dialettica tra denuncia e puntuale complementare  percorso tra le mura domestiche, gli amori e le occasioni affettive:

Il perito settore dice che le ferite

non sono incompatibili con la meccanica di

una caduta dall’alto. Il giornale conclude

che dunque il morto si è suicidato.

La lingua referenziale del verso conta qui solo sulla sintesi ellittica (il soggetto politico è quello di Pinelli precipitato nel cortile della questura) portando all’estremo una poetica che solo negli ultimi anni avrà un deciso contraltare con “Quare tristis”, dove rivive il metro del sonetto. Una parentesi.  Poi, più estesamente  di quanto non faccia Cadenza d’inganno,  “Barlumi di storia” nel 2002 tornerà a prendere in consegna il tempo collettivo: e questa volta la voce  lirica del verso avrà la distanza del distacco. Ricordando Pasolini che parlava della bellezza dell’Italia durante il fascismo,  Raboni scriverà: «Il punto/ è che è tanto più facile/immaginare d’essere felici/ all’ombra d’un potere ripugnante/ che pensare di doverci morire.» Come non dargli ragione…

Marco Conti

Giovanni Raboni, Cadenza d’inganno (a cura di Concetta di Franza), pp. 325, Salerno Editrice, 2023; euro 42,00

 

 

Dentro la storia di Martin Amis

Dentro la sua storia, dentro le storie. L’ultimo libro di Martin Amis, un’autobiografia fatta di narrazioni frammentarie tematicamente riprese nel corso del tempo, di perlustrazioni nella fucina del romanzo,  conferma benché non ce ne fosse bisogno, l’originalità di questo scrittore immerso da sempre nella letteratura: figlio di una scrittore, sposato con …

“Cuore”, storia tormentata e lieto fine di un long seller

L’idea era stata di Edmondo De Amicis: un libro scritto col cuore, un libro per le emozioni della giovinezza contro la ragione dell’età adulta, una narrazione fatta di bozzetti. Ma non fosse stato per l’intuito dell’editore Emilio Treves, Cuore non avrebbe probabilmente mai raggiunto i piombi della tipografia. Lo scrittore era …

Barbero, “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria”

Con “Brick for stone”, Alessandro Barbero immagina un thriller che accompagna l’attentato alle Torri Gemelle di New York

«Poi sentirono di nuovo urlare la folla, ma come non aveva mai urlato finora, e si volsero a guardare laddove guardavano tutti. Una delle due Torri non c’era più. L’altra continuava a bruciare, come bruciava da più di un’ora, vomitando fiotti di fumo infernale.» L’immagine è vivida e il finale dell’ultimo romanzo di Alessandro Barbero, Brick for stone, è noto: le Twin Tower crollano e sembrano svanire nell’aria.

Il circo dei mostri

La narrazione termina, quindi, con l’attentato dell’11 settembre 2001 e cosa racconta? Racconta i mesi precedenti, durante i quali una squadra organizzata dall’agente della CIA, Harvey Sonnenfeld, indaga, cerca indizi, formula ipotesi. I consulenti di Harvey sono un ingegnere russo, Grišunja, esperto in attentati; uno studioso di frasi offensive e graffiti osceni, il prof Kosellech; il direttore del Mc Donald’s del centoduesimo piano della Torre Nord, Francy Flores; lo scacchista Bobby Fischer. Le scelte di Harvey sono a dir poco discutibili tanto che i suoi colleghi definiscono questo gruppo mal assortito “il circo dei mostri di Sonnenfeld”. La Ditta, come la chiama Harvey, è a conoscenza di un possibile attentato a New York, a Manhattan, ma non ne conosce modalità e tempistiche; pertanto, l’agente ottiene i finanziamenti necessari e sguinzaglia i suoi uomini. Il loro compito consiste nell’andare in giro per l’isola osservare ed ascoltare e, soprattutto, riferire ogni deduzione, ogni segno, ogni premonizione. Kosellech analizza i graffiti nei bagni pubblici e le scritte sui treni della metropolitana perché vi è la certezza che gli attentatori debbano comunicare fra loro anche attraverso canali inconsueti. Effettivamente, individua due scritte che compaiono sui treni “burn Manhattan” e “hit the Toweers”; la seconda scritta oltre l’errore ortografico è accompagnata da due tratti verticali.

Obiettivo confermato

«Secondo lei è da pazzi pensare che quelle scritte possano essere messaggi in codice scambiati dai terroristi?» chiede l’agente al suo informatore, mentre si fa strada in lui la conferma dell’obiettivo e la risposta «quando si tratta della specie umana può succedere di tutto» fuga ogni dubbio. Il problema diventa capire come possano essere abbattute le Torri Gemelle dato che l’impresa sembra quasi impossibile, ma Harvey, anche in questo caso, ha la persona giusta: Bobby-boy Fischer, ovvero l’uomo che immagina le combinazioni impossibili.

Hey Torri, stiamo arrivando

In metropolitana, Harvey trova un biglietto incollato al suo sedile del treno “Hey Towers we’re coming” e si rende improvvisamente conto che il tempo è finito, che solo lui può fermare tutto. Barbero, però, è affascinato dalle disfatte, dai grandi sforzi organizzati che finiscono malissimo e questa storia non fa eccezione.  L’impegno profuso finisce in quella nuvola bianca finale originata dal crollo della Torre Sud, che porta con sé anche il coronamento di una delle storie d’amore raccontate nel libro.

Tra realtà e finzione

A differenza delle opere narrative preceenti l’ultimo lavoro di Barbero non è un romanzo storico. Brick for stone è totalmente finzione letteraria, così come lo è la moltitudine di personaggi, ad eccezione del campione del mondo di scacchi Robert James Fischer, che nel settembre 2001 era ancora in vita, ma non a New York. Il personaggio Bobby Fischer è costruito con tutte le caratteristiche  note dell’uomo, ma Barbero ne inventa il rapimento e la collaborazione con la Cia. Del resto le vicende e i loro protagonisti sono inventati ma verosimili, credibili  nell’ America di inizio Millennio, come altrettanto credibili sono i linguaggi utilizzati, adeguati ai diversi contesti sociali, non solo nei dialoghi, spesso indiretti liberi, ma nei pensieri, nelle riflessioni. Il narratore  è esterno, ma contiguo, quasi mimetizzato nel contesto, capace di calarsi via via nella focalizzazione dei singoli personaggi rendendo così l’opera corale e multifocale.

Alessandro Barbero durante la presentazione del suo ultimo romanzo

Un romanzo “diverso”

Un filo conduttore che unisce questo romanzo “diverso” agli altri dello storico più seguito d’Italia è certamente l’interesse per la centralità della città, attraversata dai personaggi, vissuta, respirata e perciò ricreata nelle pagine. È stato così per Atene, per Fiume, per Parigi, per Venezia e ora per New York, che è mostrata nei suoi quartieri, nelle vie e colpita nel suo cuore economico. Un tratto, invece, non caratteristico di Barbero è evidente fin dalla copertina: il titolo del romanzo e delle tre parti che lo compongono sono in inglese. Brick for stone, cioè Mattone al posto di pietra, proviene dalla Bibbia di re Giacomo, in particolare dall’episodio della Torre di Babele come riportato in esergo; mentre l’ultima è una citazione di Marx All that is solid melts into air, ovvero tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Una sequenza di riferimenti storici che si accompagnano a quelli meno evidenti, come quando, en passant, è possibile cogliere una parte di una delle sue conferenze sull’Editto di Rotari: «Una volta Harvey aveva letto di chissà quale popolo barbaro, nei secoli bui, che stabiliva per legge delle compensazioni, nel caso che qualcuno fosse ammazzato o malmenato: se ti danno un colpo di spada in testa, ma senza romperla, la cifra è fissa; se invece schizzano via pezzi d’osso, hai diritto a una certa cifra per ogni frammento. Il legislatore era barbaro, ma non stupido: anche lui si era chiesto come bisognava contarle, le schegge.» Una voce che si fa riconoscere anche attraverso il piglio ironico, come quando, a poche ore dall’attentato si avverte la tranquillità di Bobby Fischer che riflette su cosa possa mai andare storto su un aereo, sul quale si sente ormai al sicuro.

Giancarla Savino

Alessandro Barbero, Brick for stone, Sellerio, pp. 346, Sellerio, 2023; euro 16, 00

 

 

 

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