L’orsacchiotto

Scritto nella maturità di Simenon, il romanzo ha per protagonista un uomo di successo nel labirinto di una colpa ineluttabile e quasi kafkiana

Come l’impiegato Popinga, L’uomo che guardava passare i treni, anche l’esimio medico Jean Chabot  in questo romanzo appena ripubblicato da Adelphi, L’orsacchiotto, è stanco della vita di ogni giorno. Così stanco che un giorno decide di prelevare da un cassetto la sua pistola automatica, infilarsela in tasca e portarla con sé tra reparti ospedalieri, visite, ricevimenti mondani. Ma mentre il celebre personaggio di L’uomo che guardava passare i treni aveva condotto una vita modesta bruscamente conclusa con il fallimento dell’azienda, il professor Chabot è ascoltato come un luminare, ha una moglie devota, un’amante, qualche svago erotico passeggero tra le corsie e la deferenza di tutti.

 Una visita dallo psichiatra

Qual è allora l’inquietudine che a mezzanotte porta il professore a far visita a un suo vecchio amico psichiatra? Chabot non riesce a dormire, ma è tutto quello che riesce a confessare. Con un mezzo sorriso sulle labbra si congeda prima di vagabondare ancora fino alle finestre illuminate dell’amante.

All’origine del malessere c’è tutt’altro. Qualcosa che il protagonista di Simenon non riesce a confessare fino in fondo neppure a se stesso, cioè la sensazione di non aver vissuto la vita che voleva. Avverte con disagio gli anni dell’università, con insofferenza quelli del fidanzamento, con noia ciò che è seguito. Come Popinga  anche il medico comincia la sua fuga: ma tanto quella dell’uomo che nella notte fantasticava osservando la scia luminosa dei finestrini dei treni era già, in nuce,  una fuga clamorosa, quanto quella di Jean Chabot  risulta inavvertibile, confinata nelle sensazioni e nel senso di colpa. Rispetto al loro ambiente i due personaggi sono addirittura agli opposti: l’insuccesso del primo ha come contraltare la carriera e il potere del secondo; il rifiuto, lo schiaffo inferto dall’idolo erotico di Popinga, è un’emozione sconosciuta al distaccato dongiovanni della clinica parigina.

 Popinga e Jean Chabot

Entrambi sembrano però condividere un momento rivelatore: se per Popinga è quello che rompe la sua routine e le sue speranze, per Jean Chabot è l’avventura di qualche notte con una ragazza, “l’orsacchiotto” che l’ha saputo sorprendere per la sua dolcezza. Nulla di grave, eppure quando la giovane scompare e il medico scopre che è stata licenziata dalla sua segretaria e amante Viviane,  non reagisce finché sul giornale non legge la notizia del suicidio, della maternità che la ragazza aveva cercato inutilmente di comunicargli. «Quel giorno andò fino alla camera di David ma non osò toccare l’orsacchiotto, si limitò a guardarlo da lontano. Aveva gli occhi rossi, ma più che al pianto erano dovuti al troppo cognac.» Mesi dopo, la figura della giovane diventa quasi un personale mito salvifico : «Aveva un bel cercare nei suoi ricordi di uomo quasi cinquantenne, non trovava un’altra immagine così incantevole né così commovente».  Ancora un passo e per Jean Chabot si aprono le quinte di una totale disaffezione: mentre è in sala operatoria per un attimo si sente perso e incapace di portare a termine un parto; in auto guarda e ascolta come da un luogo remoto: assente per gli altri e irrisolto davanti a se stesso.

Le fiabe nere di Simenon

Il nemico, l’antagonista delle fiabe di Georges Simenon si annida sempre nel vissuto del protagonista, anti-eroe novecentesco per eccellenza, impegnato in un viaggio senza alleati e senza soluzione. Quando il trauma è a monte della vicenda, come l’abbandono per Il piccolo libraio di Archangelsk, il senso di colpa spunta come una talpa nel piatto territorio dell’abitudine; quando il delitto è reale, la retrospezione sul personaggio appare impietosa. La scrittura asciutta e densa di emozioni, una linea narrativa che intreccia costantemente presente e passato, il dato contingente con la ricognizione della memoria, fanno anche di questo libro, scritto nell’avanza maturità di Simenon, nel 1960, una lettura quasi kafkiana per la fatalità enigmatica che si avverte fin dalle prime righe.

Marco Conti

Georges Simenon, L’orsacchiotto, pp. 147, Adelphi, euro 18,00

 

 

 

 

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Contemporaneo occidentale, le qualità della letteratura

Un’antologia di racconti e le riflessioni sull’autenticità della letteratura in un tempo dominato dal lettore-consumatore

Mario Lavagetto in Eutanasia della critica svolse nel 2005 un’analisi dell’approccio alla letteratura. Nel suo testo osservò che il referente più ascoltato del XXI secolo non nasceva nell’ambito disciplinare e critico ma dal mercato: il lettore-consumatore destinato a stabilire la gerarchia dei valori. Più dettagliatamente Lavagetto cercava di comprendere la scomparsa della critica letteraria o comunque la sua regressione. Per Lavagetto un’intera, vasta epoca, estesa tra  Ottocento e primo Novecento,  aveva posto al centro della conoscenza letteraria l’autore, al quale era succeduto, un tempo (gli anni ’60 e ’70) in cui l’attenzione era del tutto assorbita dal testo con il tramite strumentale di semiologia e strutturalismo. A poco a poco entrambe le eredità più tradizionali e colte sono state scalzate dal mercato, dalle strategie tese a convalidare la letteratura con il consenso generale. Un esito al quale si potrebbe aggiungere – al di là dell’analisi compiuta da Lavagetto – il discorso sul canone occidentale, divenuto aleatorio in funzione del disinteresse che esprime l’ideologia del mercato, intesa semmai a fingere, ogni giorno, una scoperta, un rinnovamento, persino una rivoluzione (finalizzata alla vetrina, materiale o immateriale che sia).

Andrea Gentile e Karl Ove Knausgard 

Questa riflessione sorge spontanea, come viatico e corollario, leggendo il saggio di Karl Ove Knausgard, Sul valore della letteratura,  incluso in un insolito libro di racconti curato da Andrea Gentile: Contemporaneo occidentale . Nella sezione del libro dedicata al discorso metaletterario, lo scrittore norvegese non parla di ideologia culturale dominante ma perviene ad esiti analoghi  parlando di quanto è sottaciuto: «Leggiamo i libri per divertimento, per staccarci qualche ora dalla realtà, forse imparando soltanto che il desiderio è una pulsione molto forte, capace di creare problemi». Dunque: «Dobbiamo avvertire la gioia, in modo che così compriamo. Dobbiamo percepire l’orgoglio, in modo che così compriamo, Dobbiamo sentire il desiderio, in modo che così compriamo, Dobbiamo avvertire la vergogna, in modo che così compriamo».

Knausgard procede ricordando che «la letteratura investe molti altri campi, il sociale, lo storico, il politico e possiede molte forme di cui la narrazione è forse quella predominante», ma soltanto un elemento  è specifico del discorso letterario: solo la letteratura è in grado di elevare il linguaggio interiore e renderlo visibile. Per l’autore norvegese l’arte e la letteratura sono tra i pochi ambiti in cui «il prevedibile viene cancellato o perlomeno ci si sforza di abrogarlo. Lo spazio dell’arte e della letteratura risiede tra l’idea di realtà e la realtà, spazio che la letteratura cerca di tenere aperto al fine di raggiungere, o addirittura di stabilire, gli attimi in cui l’idea di realtà e la realtà coincidono, sono una cosa sola.» Quando accade ecco comparire una forma…un modo, uno stile. E proprio questo aspetto sembra del tutto condiviso dal curatore dell’antologia che, nella sua introduzione, dopo essersi chiesto cosa sia la letteratura nell’epoca dell’algoritmo (del numero), ed aver chiarito che la risposta rimane aperta, precisa di non aver voluto proporre un canone benché molti autori convocati siano di fama internazionale. E allora?

La metafora del pellegrino

Andrea Gentile cerca di avvicinarsi alla nozione di letteratura che gli è consona con la metafora del viaggio e del pellegrinaggio dove il cammino separa la partenza dall’arrivo. Ma la sorpresa è che «il tragitto è pieno di spazi intermedi: è tutto uno spazio intermedio. Un tempo da dimenticare e uno da percorrere il più velocemente possibile. Il cammino del pellegrino no: il suo non è un percorso bensì una transizione. Nel cammino del pellegrino gli spazi intermedi sono sempre vivi: non sono più intermedi.» Il pellegrino vive insomma ogni istante: «Ogni tempo è reale. Così la letteratura.»

Si comprende meglio allora perché lo scrittore di I vivi e i morti e di Apparizioni, ci porga l’idea che è lo spazio tra i pensieri a far scaturire la letteratura; che il dominio letterario è quello che non evolve da un progetto o da una trama o da uno stile. Gentile sembra insomma circoscrivere il dato della creazione, come elemento discriminante che non si colloca nella gabbia del pensiero strutturato e finalizzato.  I modelli di Andrea Gentile e di Karl Ove Knausgard, procedono dallo stesso alveo: non fronteggiano l’idea di canone, ma certo non la contraddicono. Né potrebbero farlo poiché le velleità di cui ogni tanto qualche autore o accademico si nutre speculativamente vaticinando il futuro delle arti non arrivano mai al giorno successivo, ma verosimilmente si accompagnano al bazar di cui parla Lavagetto, il mercato del lettore.

Olga Tokarczuk e gli altri autori

In sintonia con quanto promesso nell’introduzione, i racconti proposti da Gentile non hanno coesione stilistica. Forse gli unici tratti comuni sono inerenti a percorsi eterogenei ma distanti dalle istanze del realismo più ovvio. Di certo ogni autore spende qui un’idea di letteratura “alta” che del pellegrino on the road assume la precarietà dell’attimo. Così è per il premio Nobel Olga Tokarczuk con La montagna di tutti i santi dove si raffrontano con spericolatezza l’idea della clonazione e della santità; così è per le pagine metaletterarie di Thomas Ligotti di Metaphysica Morum. Nondimeno l’antologia non cerca neppure l’approccio tematico insolito. Ecco comparire Ragnatela di Mariana Enriquez in un Paraguay sottilmente inquietante e kafkiano e il racconto di Lászlό Darvasi, Lama,  dove la storia di un bambino scomparso non si percorre che attraverso una narrazione circolare, fitta di emozione e di campiture espressioniste. Gli altri autori sono Jeff VanderMeer, David Peace, Emma Glass, Geoff Dyer, Mircea Cărtărescu, Ali Smith, William T. Vollman, Mariella Mehr.

Marco Conti

AA.VV. Contemporaneo occidentale (a cura di Andrea Gentile), pp. 323, ilSaggiatore, 2022; euro 22, 00

 

Beppe Fenoglio, camminando tra i venti

Il centenario della nascita dello scrittore, autore ormai centrale del Novecento italiano

Prima edizione, Einaudi 1968

La fortuna letteraria di Beppe Fenoglio non ha fatto che crescere nel corso del Novecento e continua a farlo come hanno mostrato le manifestazioni e soprattutto il convegno (tra Torino e Alba) in occasione del centenario della nascita.  Le sue pagine appaiono ormai centrali non solamente nell’ambito del realismo. Autore che nel dopoguerra racconta il mondo partigiano, dove è stato ufficiale di collegamento con le truppe inglesi, esordiente nella collana dei Gettoni di Elio Vittorini con La malora (1954)  dopo alcuni racconti scorporati dalla raccolta che diventerà I ventitré giorni della città di Alba, Beppe Fenoglio ha ormai il profilo di un autore centrale del secondo Novecento.

Lorenzo Mondo, dopo la prima edizione del romanzo, peraltro incompiuto, Il partigiano Johnny, anticipò che l’autore di quella narrazione non era più il «fratellino di Pavese», non era più «il neorealista tardivo in sospetto di lesa Resistenza, ma un grande e compiuto scrittore epico, una delle esperienze narrative più trascinanti del Novecento italiano. Perfino i segnali esterni lo rivelavano: le radicate monomanie, la lingua splendente reinventata attraverso il filtro dell’inglese, la sovrana distanza dai circoli culturali, il dialogo solitario con i propri autori, il senso tragico e insieme reverente della vita, tutto lasciava presagire in Fenoglio uno scrittore di altura.» Così è stato.

Una lingua forgiata passo a passo

Le pure importanti questioni filologiche inerenti la redazione del Partigiano Johnny (Fenoglio  morì a quarant’anni e non aveva neppure suggerito un titolo) che Mondo assemblò da due testi, non hanno mai ridotto il valore e l’originalità del romanzo di cui esiste notoriamente anche un primo approccio, se non una redazione, in inglese. In certo modo è stato proprio questo romanzo a portare l’attenzione sulla precedente e superficiale lettura degli altri, dove autobiografia e graffio neorealistico sembrano esaurire tema e scrittura. In realtà ha avuto ragione la critica posteriore nel parlare di un mondo in cui dominano la connotazione epica e il simbolismo della morte. Differenti sono stati gli approcci, le tecniche narrative.  Il primo Fenoglio, ovvero i primi romanzi e racconti, era caratterizzato da una lingua con costrutti dialettali  (La malora e i Ventitré giorni della città di Alba) e un monologare fitto, tra scorci lirici e drammatici come in Primavera di bellezza .

Nella prosa de Il partigiano Johnny , è rilevante invece il calco sulla lingua inglese, ma anche  il percorso tematico-espressivo è sensibilmente diverso rispetto alle altre opere. La narrazione è mediata da una focalizzazione in terza persona che stempera il registro colloquiale più consueto di Fenoglio, senza con questo perdere la tensione del periodare. Gian Luigi Beccaria ha osservato in una sua pagina critica che il romanzo incompiuto di Fenoglio pare corrispondere a una prosa «frutto di volontà e non di dono: possesso, ricerca, conquista, come dopo un tenace corpo a corpo contro e con la lingua». Dato inequivocabile se si pensa che le due versioni sono anticipate da un testo narrativo in inglese. Ma non è solamente la lingua inglese, con le sue inserzioni nelle successive redazioni, a dar conto di una ricerca. La frase immediata, breve, sintetica, che si affaccia fin da La malora ( paradigmatico l’incipit: «Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.») resta un modello ma più diluita, talvolta pervasa dal commento.  Ugualmente in queste pagine la connotazione è frequeste e il traslato si accompagna  spesso al neologismo, per esempio con l’aggettivazione dei sostantivi:

«Le acque erano nere e, così dappresso, praticamente mute, l’impatto dell’altra sponda alle acque più lontane indiscernibile. Da dietro, veniva a tratti come il racconto del’incuboso dormire della città sul filo del rasoio»; aggettivazione che prende la strada del traslato in inglese: «I campanili della città batterono la mezzanotte, il freddo e l’umidità avevano influito sugli uomini, su quella loro briskness che li aveva fatti montare e pattugliare tutt’insieme.» Ecco  dunque l’aggettivo d’invenzione “incuboso” e quello inglese per “brio”, briskness, ma con valore figurato, in due momenti narrativi di descrizione (entrambi nel diciottesimo capitolo, p. 191, ed. Einaudi, 1968).

Dalla Resistenza all’ontologia

La narrazione stabilisce quindi le coordinate della realtà storica (geografia, date, eventi seguiti dall’autore durante il conflitto con l’aiuto di un taccuino) dalla quale l’espressione di Fenoglio prescinde come in un processo di smaterializzazione. Il processo diegetico coinvolge anche il piano storico. Fenoglio nel capitolo dodicesimo della prima redazione illustra in alcuni passi il senso di disagio, di non appartenenza rispetto alle prospettive sociali condivise: «La dolce comodità antica della poltrona». Johnny, l’alter ego, si sente viceversa un eterno partigiano, «unico passero» «che non cascherà mai» perché in definitiva l’impressione che gli perviene è che la Resistenza non sia, in ultima analisi, una circostanza evenemenziale, ma un dato dell’esistenza, un percorso obbligato. In questo contesto le sensazioni accompagnano questa nozione filosofica, come quando (nel capitolo diciannovesimo), in un momento di apparente tranquillità dopo una marcia, il partigiano Johnny si ferma lungo un torrente, si osserva come distante da sé medesimo, dal suo corpo. Così che nell’istante successivo, alla ripresa della marcia, egli avverte di procedere «in un libero aliare di venti».

In margine al centenario, che si concluderà il primo marzo 2023, ricordo un recente saggio sulla figura e l’opera dell’autore, Beppe Fenoglio. Vita, guerre e opere, scritto da Franco Vaccaneo per Priuli & Verlucca.

Osvaldo Enoch

 

 

Enard, Il banchetto annuale della confraternita dei becchini

L’ultimo romanzo di Mathias Enard tra i fasti di Rabelais e i verdi canali del Poitevin

«Questo posto, va da sé, ho deciso di chiamarlo Pensiero Selvaggio»: sono le prime parole del  narratore di Il banchetto annuale della confraternita dei becchini. Un omaggio che il giovane etnologo protagonista del romanzo di Mathias Enard rende a Lévy-Strauss se non altro per immergersi mentalmente nel proprio lavoro. Parigino, David Mazon si trova ora nel Marais Poitevin, in una campagna verdissima, luogo di tradizioni agli antipodi della metropoli da cui proviene. Affitta così la stanza di una fattoria, si fa prestare un motorino per raggiungere il paese e svolgere le interviste che dovranno confluire nella sua tesi di dottorato. Nel frattempo redige il suo diario. Il primo tempo del romanzo di Enard coincide dunque con le pagine del diario, gli incontri del protagonista, i dubbi, le inezie quotidiane. La scrittura di Enard, funambolo di registri e modi, resta per il momento sospesa sul piano scorrevole e un po’ sciatto della pagina diaristica d’occasione. Ci si guarda intorno: c’è il Bar-Pesca (sostituto dell’italianissimo Bar Sport) unico luogo di incontro del paese, c’è il sindaco Martial che di professione fa il becchino, Max, un artista che ha scelto di vivere ai margini, una giovane orticoltrice, Lucie, impigliata tra i doveri di soccorso al nonno e al cugino Arnaud detto Nono, detto Babbeo, che recita a richiesta le efemeridi del giorno senza sbagliare una data, un nome, una nascita.

Nel cuore del romanzo

Ma il cuore del romanzo è altrove. Mathias Enard, autore di Zona, di Parlami di battaglie, di re e di elefanti, del premio Goncourt Bussola, non è narratore che si spenda in una semplice trama, pur sorvegliata e incisiva. E’ autore nel senso più pieno del termine e la sua scrittura è stile. In questo libro  Calvino vedrebbe una declinazione del suo concetto di “Molteplicità”. La linea diegetica è infoltita passo a passo di registri inattesi che stratificano le forme del racconto. E nella cornice del Marais-Poitevin, tra i verdissimi canali che attraversano la campagna, lo spazio e il tempo si dilatano. Di ogni personaggio Enard racconta presente e passato. Il banchetto annuale della confraternita dei becchini è infatti uno iato tra due mondi che richiama altre epoche e altri personaggi: «Arnaud leggeva negli altri come in un libro aperto – solo lui sapeva che il nonno era stato, alla rinfusa, mezzadri uomini e donne, sguattere di fattoria, un bracconiere errante, svariati caprioli, un cane, degli storni, o che lui stesso, Arnaud, doveva le proprie conoscenze meccaniche al fatto di essere la reincarnazione di un meccanico di Villiers». L’esergo del romanzo che cita il Budda non è dunque un approccio culturale, ma il pensiero con cui il narratore entra nella stratificazione della storia. I tre giorni di festa e di tregua concessi ogni anno ai becchini diventano quindi uno spazio in cui la Morte resta sospesa e i personaggi passano in rassegna dentro la Ruota del tempo e delle sue metamorfosi.

Rabelais, La molteplicità

Il romanzo non si limita tuttavia ad un itinerario narrativo tra le epoche. Entrando nella galleria dei cicli di vite, morti e rinascite,  la tregua del banchetto annuale dà luogo a una sorta di enciclopedia della tradizione. Cibi, vini, figure dell’immaginario, canzoni, vi vengono richiamate con puntualità: «Il privilegio di scegliere la canzone spettava ogni anno a una delegazione differente – questa volta erano stati designati i becchini occitani; il trou sarebbe stato quindi biterrese, di Béziers, o narbonese, di Narbonne; gli alcolici, dell’Ovest: un liquore di angelica del Marais, verde come una chartreuse, inebriante con una fata nella nebbia, oppure un’acquavite di prugne blu distillata tre volte, certo un po’ aspra, un po’ ruvida, ma con un retrogusto profumato, come i morti che risveglia.» Dal timbro mimetico, a tratti lirico,  Enard passa a quello burlesco, ripete l’elencazione di Rabelais, il grottesco e l’umorismo nero di Gargatua, cita Boezio, il trovatore Jaufré Rudel, San Tommaso d’Aquino, Schopenhauer e la fata Melusina che a sua volta convoca l’immaginario medioevale.

Nell’ultima parte del romanzo, stemperata una scrittura di grande talento inventivo, si torna invece alla vicenda di David, etnologo ormai avvinto dall’atmosfera del Poitevin. Ma non senza un ultimo colpo di coda sulla la postmodernità conflittuale, sulla necessità di sporgersi fuori dalla concezione più superficiale e condivisa del nostro tempo.

Marco Conti    

Mathias Enard, Il banchetto annuale della confraternita dei becchini  (trad. Yasmina Mélaouah), pp. 471, edizioni e/o; euro 19,00

 

Simic: due fette di pane su un piatto crepato

Non ha mai avuto nome

e neanche ricordo come l’ho trovata.

Me la portavo in tasca

come un bottone perduto

ma non era un bottone.

Basta questo incipit per entrare nella magia dei versi di Charles Simic. Serbo di origine, emigrato negli Stati Uniti adolescente, è scomparso lo scorso 9 gennaio a Dover. Aveva 84 anni. Le sue liriche coniugavano la prosa della quotidianità con le ombre e le sensazioni di una visione metafisica. Qualcuno, presentandone l’opera tempo fa, scrisse che le sue pagine migliori ricordavano la pittura di Edward Hopper. Una felice intuizione. Anche in Simic i paesaggi urbani, gli interni di appartamenti in cui si staglia, giorno e notte, un profilo solitario, dipinto con esattezza essenziale, scandiscono la sua lirica.

Charles Simic.  L’esordio poetico avvenne con “What the grass says” (1967). “Selected poems 1963-2003” è attualmente l’antologia più completa uscita negli Stati Uniti. In Italia è stato editato da Adelphi: “Hotel Insonnia”, “Club midnight”, “Il mostro ma il suo labirinto” sono i suoi libri più noti

Per definire la qualità dei suoi  paesaggi in versi, la critica ha parlato di minimalismo. Definizione giunta con una certa tempestività poiché i libri di poesia di Simic cominciarono a farsi conoscere nel mondo anglosassone proprio negli anni Ottanta,  insieme ai racconti di Raymond Carver.  Ma nei testi di Simic, in realtà, agisce un altro filtro lirico: quello del tempo, degli straniamenti onirici che si accompagnano con l’esperienza quotidiana. Per questo è facile entrare nei versi e nell’immaginario dell’autore, dove un’analogia, uno scatto  improvviso, cambia, come una pennellata più intensa, l’atmosfera della lirica.

Hotel Insonnia

«Ogni giorno – scrive in Hotel Insonnia – dimentico com’è. / Guardo il fumo salire/ a grandi passi sopra la città./ A nessuno appartengo.// Poi mi ricordo delle scarpe, / come calzarle, / come curvarmi per allacciarle/ e scrutare la terra.»

Andrea Molesini, il curatore e traduttore di Hotel Insonnia (Adelphi, 2002)  osserva nella postfazione che Simic è un maestro della sprezzatura, della lirica breve.  E parlando dei temi in filigrana al  libro, aggiunge: «l’insonnia è la malattia che lo ha reso poeta della solitudine, della visione estrema, della crepa che apre improvvisi spifferi metafisici». Da qui dirama anche il sorriso ironico che gli fa dire, nello stesso libro: «Alberi, miei cari, non vi riconosco/ più in questa luce invernale. Siete un promemoria di cui farei a meno:/  il mondo è vecchio, è sempre stato vecchio,/ e nel pomeriggio non c’è niente di nuovo. Il giardino potrebbe essere stato la finestra con lucchetto/ in quel banco dei pegni di cui studiavo/ ogni oggetto ricoperto di polvere.»

La pronuncia asciutta, il registro della lingua apparentemente così vicino alla prosa e alieno all’apparenza da ogni ricerca letteraria, hanno ottenuto il plauso di critica e pubblico. Dal canto suo Simic diceva che la ricetta usata era quella di fare piatti gustosi con gli ingredienti più semplici: «Soccorrere il banale è l’ambizione di ogni poeta lirico.» Ma il rischio della banalità non l’ha mai neppure sfiorato. Le immagini dei versi trattengono il silenzio, si fanno scudo delle apparenze, vivono di domande non fatte. E qualche volta di ironie davvero inarrivabili. Come in questa breve chiosa, tra le tante del suo taccuino: «Il cameriere si chiamava Bartleby – o così avrebbe dovuto. Mi servì due fette di pane carbonizzato sopra un piatto crepato».

m.c.

Natale, Natali… Tra Leopardi infreddolito e Virginia Woolf dedita al pâté

Natale tra i diari, nelle lettere, con le pagine di grandi autori. Di cosa era preoccupato Leopardi nel Natale 1827? Cosa si aspettava Sylvia Plath il giorno successivo ad un apparentemente quieto Natale del 1957? E Franz Kafka, praghese di famiglia ebraica? Virginia Woolf  nel 1938 ricevette dalla sua amica del cuore una strenna che le parve meravigliosa. Gli sterminati diari di Paul Léateaud non prestano, prevedibilmente,  troppa attenzione alla festività. Ma qualche giorno prima di Natale del 1913, durante una conversazione, egli si accorge di essere ormai un uomo maturo. Dylan Thomas, alla radio, inventa invece una fiaba per i bambini destinata a diventare un classico, mentre Ungaretti sta «con le quattro capriole di fumo del focolare».

 

Giacomo Leopardi

Il 24 dicembre 1827, il poeta dei “Canti” si trova a Pisa e risponde con una lettera al padre che l’ha rimproverato pochi giorni prima di non essere tornato a casa. Ma rispondendogli, Giacomo gli fa presente che Recanati è molto fredda e Pisa, al contrario, non conosce né vento, né nebbia.

«Il soggiorno poi di Recanati nell’inverno, quanto mi sarebbe stato caro per la presenza e la compagnia sua (del padre ndr) e de’ miei (che io preferisco ad ogni piacere), altrettanto, senza il minimo dubbio, mi sarebbe stato micidiale alla sanità. Ella si può ben accertare che l’uso del caminetto mi è impossibile assolutamente e totalmente; giacché anche lo scaldino, il quale adopero con moderazione infinita, m’incomoda assaissimo (…) Ma prescindendo dal fuoco, in Recanati io non avrei potuto vivere se non in casa, perché costì non v’è mai giorno senza vento o nebbia o pioggia: e se per miracolo si ha una giornata buona, io non posso passeggiare a causa del sole, giacché non v’è ombra né in città né fuori. (…) Qui non v’ è mai vento, mai nebbia; v’è sempre ombra, come in tutte le grandi città, e se si hanno giornate piovose, essendo io padrone delle mie ore e di pranzare la sera (come fo sempre), è ben difficile che non trovi un intervallo di tempo da poter passeggiare. Infatti dacché sono a Pisa, non è passato giorno che  io non abbia passeggiato per due in tre ore: cosa per me necessarissima, e la cui mancanza è la mia morte.»

Epistolario, Sansoni Editore, 1976

Franz Kafka

Kafka non scrive se non di sfuggita della Festa delle Luci ebraica, Hanukkah, che, come Natale pone al centro la storia sacra ma ha antecedenti nelle feste pagane per il solstizio. Tuttavia, il 25 dicembre 1911, scrive nel suo diario alcune belle pagine inerenti l’importanza delle letterature nazionali e di quella ebraica, soffermandosi su un curioso rito di circoncisione che si svolge in Russia dove è necessario tener lontani dalla madre del neonato gli spiriti malighi per sette giorni dopo la nascita  e ugualmente, quando i piccoli crescono, e diventano facile preda del Male nei giorni precedenti la circoncisione. Ma il giorno dopo Natale si dispiace soprattutto di non aver potuto scrivere quello che si riprometteva, forse per l’insonnia:

«Di nuovo ho dormito male ed è già la terza notte. Perciò ho passato in condizioni pietose i tre giorni di vacanza durante i quali speravo di scrivere cose che avrebbero dovuto aiutarmi a passare l’anno intero. La sera di Natale passeggiata con Löwy verso Stern. Ieri: Blümale oder die Perle von Werscahu, Fiorella, ossia la perla di Varsavia. Fiorella è onorata nel titolo con la definizione “perla di Varsavia” per il suo amore costante e per la sua fedeltà. Soltanto il collo libero alto e delicato della signora Tschissik spiega la formazione del suo viso. Il luccichio delle lacrime negli occhi della signora Klug, mentre cantava una melodia uniformemente ondulata, durante la quale gli ascoltatori stavano a capo chino, mi parve che per importanza sorpassasse di gran lunga il canto, il teatro, le preoccupazioni di tutto il pubblico, anzi anche la mia fantasia. (…) Ero solo con mia madre e anche ciò mi parve bello e facile: guardavo tutti con fermezza.»

da Confessioni e diari, Mondadori, 1972

Paul Léauteaud

I Diari di Léauteaud sono una miniera di bozzetti ma soprattutto di pagine di distesa narrazione e spesso di confessioni erotiche. Il 22 dicembre 1913, lo scrittore di Le petit ami, è però sorpreso perché un altro anno sta volgendo al termine e neppure si è accorto di essere ormai diretto verso la mezza età.

«Una scoperta non troppo divertente stamani. Parlavo più che altro con me stesso dell’anno che sta per finire. «Ancora un anno di più» dicevo. B…mi ha chiesto allora: «Quanti ne hai?» «Quarantuno compiuti presto» ho detto, «Presto entrerò nel quarantaduesimo.» Ne ero convinto. B…mi ha detto che sbagliavo. Son nato nel 1872. Dunque è il quarantaduesimo anno che compirò presto e presto entrerò nel quaratantreesimo. Il mio quarantatreesimo anno! E’ vero! Eccoli, dunque, arrivare gli anni che desideravo tanto ardentemente quando ne avevo 20! Gli anni della quarantina. Gli anni che portano alla cinquantina! Gli ultimi begli anni di un uomo! La cinquantina? Ah! alla velocità con cui procede la vita, ci arriverò domani o dopodomani al massimo.» (Qui sotto nella f.to  Léauteaud) 

da Diario, 1893-1956 Garzanti, 1969

Virginia Woolf

Qualche giorno prima del Natale 1938, Virginia Woolf scrive una lettera per ringraziare la sua amata Vita Sackville-West di un regalo che ha appena ricevuto da lei…E racconta la quotidianità invernale in un cottage dell’Hampshire dove in quei giorni è ospite:

«Sì, è arrivato un pensiero davvero principesco – anzi, più di un pensiero. Il pâté ha salvato le nostre vite, i tubi ghiacciati, l’elettricità saltata, niente da mangiare, o se c’era non si poteva cucinare. Ed ecco il pacco da Strasburgo, così abbiamo mangiato pâté a pranzo e a cena  – magari potessi mangiare sempre pâté, sarei contenta anche di congerlarmi, se potessi mangiare fegato d’oca per sempre. Ma che stravagante che sei! E com’è – o era – tremendamente in accordo con il rosa, e le perle e il pescivendolo e il delfino quella crema rosa con dentro il gioiello nero del pâté. Oh, sì. E certo che c’entra l’amore – a cui ti riferisci in modo così criptico, conturbante. Mettilo per iscritto e allora entrerò in argomento.»

da Un anno con Virginia Woolf, Neri Pozza, 2021

Cesare Pavese

Il 25 dicembre 1948, Pavese, nel suo Il mestiere di vivere, svolge una annotazione non priva di filosofica profondità, e più legata alla cultura occidentale che non alla psicologia:

«Chi rinuncia con convinzione e con metodo, ha costruito la sua vita sulle cose cui rinuncia. In sostanza, non vede che queste. Strana mania di volere il doppione di ogni cosa: del corpo, l’anima, del passato, il ricordo, dell’opera d’arte la valutazione, di se stesso, il figlio…Altrimenti, i primi termini ci parrebbero sprecati, vani. E i secondi allora? E’ perché tutto è imperfetto? o perché si “vedono le cose soltanto la seconda volta?”»

da Il mestiere di vivere, Einaudi, 1952

 

Dylan Thomas

Nel 1945 il produttore della BBC Lorraine Davies chiede al poeta di “Colle delle felci” di fare alla radio un discorso natalizio per Children’s Hours, il programma dei bambini. C’erano delle resistenze in merito in quanto Thomas era ritenuto imprevedibile e la trasmissione doveva viaggiare su binari sicuri. Ma Dylan Thomas fece ben di più. Scrisse uno dei suoi brani migliori, fiabeschi, immaginosi, rapiti. Tant’è vero che venne pubblicato: Il Natale di un bambino in Galles rimase un racconto classico per i bambini, edito da noi da Emme Edizioni. Potrebbe essere introdotto da questi suoi versi: «Tutti i Natali rotolano giù dalla collina verso il mare bilingue come una luna fredda e precipitosa». Ecco alcuni brani del racconto:

«Ogni Natale era così uguale all’altro, in quegli anni dietro l’angolo di quella cittadina di mare ora priva di qualsiasi rumore salvo quello di voci lontane che parlano e che a volte risento un attimo prima di addormentarmi, che non riesco mai a ricordarmi se è nevicato per sei giorni e sei notti quando avevo dodici anni o se è nevicato per dodici giorni e dodici notti quando ne avevo sei.

Anni e anni fa, quando ero bambino, quando c’erano i lupi nel Galles e uccelli del colore delle sottanine rosse di flanella sfrecciavano oltre le colline che avevano forma d’arpa (…) quando cavalcavamo senza sella per le folli e felici colline, nevicava e nevicava. (…) La nostra neve non veniva solo giù dal cielo da secchi di intonaco bianco, usciva dalla terra come uno scialle e nuotava e fluiva dalle braccia e le mani e i corpi degli alberi; la neve cresceva nottetempo sui tetti delle case come un muschio puro e bianco come un nonno, si posava minuta sui muri delle case come edera bianca e si posava sul postino, mentre apriva il cancello, come un turbine di stupidi, insensibili, bianchi e strappati auguri di Natale.(…) C’erano i Regali Utili: scialli del passato quando si andava in carrozza e che ti sommergevano, e guanti fatti per giganteschi bradipi; sciarpe zebrate fatte di una sostanza simile a una gomma setosa che tirandola, come al tiro alla fune, si allungava fino alle galosce; berretti scozzesi che ti accecavano come i copri-teiere accecano le teiere e cappelli da ussaro in pelle di coniglio e passamontagna per vittime di tribù di cacciatori di teste”; ma più strampalati ancora erano i “Regali Inutili”: sacchetti di gelatine umide e multicolori e una bandiera bella ripiegata e un naso di cartapesta e il berretto di un conducente del tram e una macchinetta che forava i biglietti e aveva un campanello che suonava; mai una catapulta; una volta, per sbaglio, sbaglio che nessuno ha mai saputo spiegarsi, una piccola accetta; e un’ochetta di celluloide che faceva, quando la schiacciavi, un suono assolutamente non da ochetta, una specie di muggito miagolante che avrebbe potuto fare un gatto con ambizioni di mucca; e un libro da pitturare nel quale potevo colorare con i colori che volevo l’erba, le piante, il mare e glia animali, e ancora oggi le pecore luminose blu-cielo stanno pascolando l’erba rossa sotto gli uccelli verdi dai becchi arco balenati (…). Guardando dalla finestra della mia stanza la luce della luna e l’infinita neve color fumo, potevo scorgere le finestre illuminate di tutte le altre case della nostra collina e sentivo la musica che da esse saliva verso la lunga notte che scendeva. Abbassavo la lampada a gas, entravo nel letto, dicevo delle parole al buio intimo e santo, e poi dormivo.»

da Il mio Natale nel Galles, Emme Edizioni, 1981

Sylvia Plath

Il giorno dopo Natale del 1958, Sylvia Plath fa il punto della sua vita e nonostante le impressioni di Ted Hughes sembra che sia tutt’altro che serena. Ha 26 anni e le domande che le si affacciano sono soprattutto quelle inerenti la propria stabilità economica. Il matrimonio col poeta inglese è ormai un dato accertato:

«Una fredda mattina postnatalizia. Un buon Natale. Perché ero felice, dice Ted. Ho giocato, scherzato, accolto mamma con affetto. Certo la odio, ma non solo. Le…voglio anche bene. Dopotutto, come si suol dire, è mia madre. «Non può essere invadente se non glielo permetti». Allora odio e paura derivano dalla mia insicurezza. Dovuta a che cosa? E come combatterla? Paura di fare scelte affrettate che escludono le alternative. Nessuna paura di sposare Ted, perché lui è elastico, non m’imprigionerà. Problema: vogliamo entrambi scrivere, abbiamo un anno. E poi? Niente lavoretti occasionali. Una professione sicura e lucrosa. Psicologia?»

da Diari, Adelphi, 1998

Giuseppe Ungaretti

Facendo deroga alla cronologia, alle note diaristiche e alle lettere, vale però forse la pena di chiudere questa sequenza con un frammento di una delle più luminose poesie di Ungaretti che porta la data di Napoli, 26 dicembre 1916 e il titolo di “Natale”: «Qui/ non si sente/ altro/ che il caldo buono.// Sto/ con le quattro/ capriole/di fumo/ del focolare».

da Poesie, Mondadori, 1974

 

 

“La promessa”, ovvero la fine della detective-story

Davvero l’intelligenza investigativa arriva alla verità? Friedrich Dürrenmatt è convinto del contrario e il romanzo La promessa ne è la dimostrazione. Sull’ottimismo e sulla fede nel giudizio umano, lo scrittore svizzero aveva già posto l’ipoteca nel 1956 con La Panne. Una storia ancora possibile, dove un rappresentante di tessuti finisce …

Proust e Céleste, a un secolo dalla morte

«Vedrai, il signor Proust è un uomo gentilissimo. Bisogna star molto attenti, questo sì, a non dispiacergli, perché osserva tutto: ma una persona così squisita non l’incontrerai mai».  Così Odilon alla giovane moglie Céleste Albaret, destinata a condividere per nove anni la vita di Marcel Proust, vale a dire gli …

Con Griffi sulle ferrovie del Messico

Una mappa ideale del romanzo “Ferrovie del Messico”

«I tedeschi trascinavano il corpo morto dell’Italia furibondi come Achille sotto le mura di Troia, non avevo notizie di Firmino da quando era tornato dalla Russia, mia madre cucinava pietanze che sapevano di polvere e a me restava una settimana per realizzare una mappa ferroviaria del Messico.»

Nel febbraio 1944, Francesco Magetti, detto Cesco, milite della Guardia ferroviaria nazionale di Asti, ha un indomabile mal di denti e un compito tanto perentorio quanto folle: disegnare una mappa delle ferrovie del Messico. L’ordine arriva dal comando di Torino e questo dal comando tedesco che esegue un imperativo categorico di Berlino. Lo spunto narrativo su cui  Gian Marco Griffi scrive circa ottocento pagine sembra esile ma da qui si diramano le voci dei personaggi  e, con loro, decine di storie che intrecciano la sorte del protagonista consegnandoci un romanzo che, nella narrativa italiana di questi anni,  vive in splendida solitudine. Griffi costeggia e cita talvolta esplicitamente alcuni capitoli della letteratura più innovativa del Novecento, avvicinandosi e distanziandosi in questo modo a diversi registri letterari. Non per nulla la postfazione di Marco Drago parla di «romanzo enciclopedico»  chiamando in causa la letteratura postmoderna e il saggio sulla molteplicità di Italo Calvino nelle pagine delle Cinque lezioni americane.

I personaggi e le voci

Calvino  inscrive nella sua analisi una sequenza di esperienze  eterogenee: dal Flaubert di Bouvard et Pécuchet alle diverse scritture che convivono nell’Ulisse di  Joyce  e, avvicinandoci a noi, al mondo di Jorge Luis Borges e all’espressionismo stratificato,  tra lingua colta e dialetto, di Carlo Emilio Gadda.  Ora Griffi, come Joyce, cambia registro di capitolo in capitolo, passa da quello mimetico  e monologante 1, a quello lirico 2, dalla descrizione metaforica e surreale 3 al comico 4, alla lingua d’invenzione 5 e al grottesco con brani che lo avvicinano in un paio di occasioni ad un autore per nulla canonico come Boris Vian.  Ferrovie del Messico utilizza inoltre  tanto il lessico piemontese quanto la locuzione preziosa o  aulica ma lascia prevalere una sorvegliata, comune, lingua d’uso. Questa continua variazione di registro  è però subordinata a un immaginario singolare. Lo scrittore astigiano connette l’espansione della sua storia (Francesco Magetti alle prese con la carta ferroviaria del Messico) alle avventure di profili improbabili: una colta bibliotecaria borderline, due necrofori con un passato di picari in Sudamerica, un bibliofilo aristocratico, due disertori,  un sedicente poeta che classifica la rilevanza degli autori in base al loro suicidio, un impiegato tedesco troppo ligio al dovere, un profilo di Hitler guancia a guancia con Eva in cerca dell’arma letale e risolutiva in una visione del Terzo Reich iù vicina al teatro di Ubu Roi  che a qualsiasi nozione storica. Ma proprio questo è il luogo d’elezione del romanzo. Le avventure tragicomiche di Cesco Magetti con le diversioni e i sentieri intrapresi dalla sua umanità, vivono nel cuore di un immaginario che – attraverso citazione e parodia 6, attraverso la frammentazione dei registri – sembra scaturire da un sentimento di nostalgia per le storie, o meglio… per la tradizione, in una parola per il canone.

Picari, anarchici, poeti

La libertà con cui lo scrittore percorre i sentieri della narrazione scorre  parallela alla libertà dei suoi personaggi: dal protagonista investito dal compito assurdo di redigere una mappa ferroviaria,  all’impiegato tedesco Bardolf Graf che riceve in regalo un libro intitolato  Storia poetica e pittoresca delle ferrovie del Messico, tutti sono in conflitto con l’ambiente circostante. La galleria di Griffi convoca un mondo di emarginati e anarchici per vocazione che marciano sull’orlo del baratro. Il contesto storico, tratteggiato a larghe pennellate, ritrae la precarietà della guerra e dell’invasione, ma è di pari passo caratterizzato da contesti immaginari di cui è esempio eloquente la “Divisione ferroviaria del dipartimento suicidi statali assistiti” nella Berlino del 1943, vale a dire  unna caricatura della burocrazia.

Sulle tracce degli antecedenti che portano il comando tedesco a richiedere una mappa delle ferrovie messicane, l’autore spalanca dunque una porta che, trascorrendo dal comico al surreale, declina l’architettura goffa e pretenziosa del potere. La Divisione ferroviaria tedesca è un palazzo «composto d’un numero indefinito e forse infinito, di piani ottagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, circondati da ballatoi con ringhiere intarsiate a mano» dove si può scoprire l’esistenza di un “Ufficio per il controllo dei regali ai dipendenti”. Il contraltare di tanta architettura sarà invece il club clandestino dell’Aquila agonizzante dove nottetempo si incontra l’umanità di resistenti e fuggitivi astigiani.

Assurdo e postmodernità

Tirando le fila del romanzo, disperse tra le sorti dei personaggi,  le nozioni di assurdo e di comico si legano alla ricchezza del linguaggio e delle storie che si ritagliano capitolo dopo capitolo. Ma vale la pena di soffermarsi sulle implicazioni della scrittura di Griffi. Guido Almansi, citato in postfazione, parlò del romanzo postmoderno di Thomas Pynchon dicendo che esso deve contenere una «analisi dello sfacelo, la coscienza del collasso, una testimonianza della frammentazione, una critica radicale del concetto di verità». Sembra una descrizione parziale dell’atmosfera e del modo di procedere di Ferrovie del Messico. Parziale perché i registri usati e i punti di vista  (si parla in prima persona o in terza e a raccontare sono tanto i personaggi contemporanei alla vicenda quanto quelli citati e vissuti in un tempo precedente) trovano un accordo unanime nel disegno complessivo, nel piacere dell’affabulazione in sé e nella nostalgia di un tempo capace di produrre avventura. E’ forse anche ciò che si avverte in certe pagine di Roberto Bolaño, in qualche caso (I detective selvaggi) analogamente segmentate. Ma i luoghi d’elezione della postmodernità si identificano altrove: in Rayuela di Cortázar, nel Georges Perec di La vie mode d’emploi , nel Calvino de Il castello dei destini incrociati  dove è sempre qualificante la leggerezza del gioco combinatorio: pagine dove intelletto e immaginario vivono, algidi, lontano dalla fisicità e dall’emozione e dall’esperienza. Rispetto a quest’ultima biblioteca ideale Gian Marco Griffi  si smarca. Le sue pagine richiamano una fisicità fortemente connotata e referenziale;  l’eterogeneità delle voci non si offre mai come gioco intellettuale o digressione concettuale.  Il registro del comico convive con l’iperbole dell’immaginario, il “parlato” include tanto lo gnommero di Gadda e le preziosità quanto il lessico piemontese (un glossario esemplificativo vi include: il gheddu, cioè il guizzo intellettuale; rancare per estirpare;  frustacadreghe per pigrone). E come una promessa di poetica, uno dei suoi personaggi, Tilde, dice: «Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta. Io abito il mio lirismo, Cesco, per continuare ad amare la vita».

Griffi ci suggerisce di amare la narrazione come le ama lui. Scrive per Ferrovie del Messico  un sottotitolo esplicito: Romanzo d’avventura; insiste sulla centralità dell’atto narrativo nella sua valenza più essenziale. E in questo contesto scrive la pagina conclusiva del romanzo qualificandola come “Seconda parte”.  Venti righe, non di più, in cui l’autore annuncia la prosecuzione  delle vicende in Messico, in Argentina  e altrove.  Griffi insomma è ben lontano dal fornire una riproposta della narrazione postmoderna. Ferrovie del Messico viceversa ne usa la strategia e alla biforcazione del sentiero prende una strada affatto diversa. Di questo romanzo sentiremo parlare a lungo.

Marco Conti

Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, pp. 816, Laurana Editore, 2022; euro 22,00

*

1. «E insomma hanno ordinato per me un panino al prosciutto, senza neppure sapere se mi piacesse, il prosciutto, fortuna che ne sono ghiotto, e me lo hanno fatto mangiare in santa pace, mentre lo mangiavo ho pensato a cosa significasse essere un tipo solitario, ma quello che teneva la sigaretta spenta ha interrotto il flusso dei miei pensieri». Pag. 87

2. «(…) è il cinquantadue e nascosta in soffitta leggi un’altra cartolina mentre Dio ha fatto un temporale che esplode sopra i tetti, i tuoni rimbalzano sulle tegole come palloni calciati dalla luna, il vento uggiola tra le imposte e strilla tra le chiome degli alberi, le travi cigolane e le voci umane si confondono nel battito martellante della grandine sui coppi e sui teloni della serra». Pag. 283

3. «Mario Emilio Camillo Bertone venne al mondo il sedici dicembre, mercoledì, una notte che la luna era simile a un seme di girasole, accanto a un fiume dispiegato nella bordura delle colline; si narra fu accolto nelle pianure ubriache di vino fumante e perforato dal trapano dell’amore, in cinque minuti scarsi fu strappato dall’ombra, venuto nel mutismo delle allodole e delle cicale, nel mortorio degli insetti, subito fu braccato dal freddo e lambito dai lupi». Pp. 336-7

4. «Questa cosa del Partito nazionalsocialista, domandò Eva, è un lavoro vero? Talvolta me lo chiedo anch’io, disse Adolf. E mi rispondo che no, non è un lavoro. Eì una vocazione. Baciami, testone, disse Eva».p. 224

5. «Allora ho inforcato le barde di mocoletto e mi sono sporto per allumarla meglio, e che i viscosi (…)» P. 139

6. «E allora adiόs, mi querida Norah, adiόs, lascia che vada ora, per certi angiporti celati da cespugli di lentischi spinosi, e siepi di cosmee gialle e azzurre, mil veces adiόs, lascia che viva in sbandati ricoveri nelle stanze pulciose di motel fuori mano dove misuro la mia vita con palle da tennis squarciate e bicchieri vuoti (…) ». P. 624. Griffi fa la parodia dei primi celebri versi de “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock” di  T.S. Eliot nella traduzione di Roberto Sanesi:  

«Allora andiamo, tu ed io,

Quando la sera si stende contro il cielo

Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;

Andiamo, per certe strade semideserte,

Mormoranti ricoveri

Di notti senza riposo in alberghi di poco prezzo

E ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche (…)»

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