Tutta l’arte è inganno, come la natura. «Dall’insetto che imita la foglia alle ben note lusinghe della procreazione.» La poesia? «Sono convinto che cominciò il giorno in cui un ragazzo troglodita tornò alla caverna, correndo nell’erba alta, e urlò trafelato: “Lupo, lupo”; e non c’era nessun lupo. Senza dubbio i suoi babbuinici genitori, strenui fautori della verità, gliele suonarono, ma ormai la poesia era nata – nell’erba alta era sbocciato il primo fiore di fantasia».

Vladimir Nabokov racconta così, con questo guizzo di genio, l’origine dell’estetica rispondendo nel luglio del 1962 agli intervistatori della BBC. Nabokov si trova in quei giorni a Zermatt per dedicarsi allo studio delle farfalle. I due giornalisti incaricati dell’intervista, Peter Duval-Smith e Christopher Burstall gli avevano chiesto in un primo tempo di spiegare l’affermazione di uno dei protagonisti di Fuoco pallido, per il quale «la realtà non è né il soggetto né l’oggetto della vera arte, la quale si crea una realtà sua propria». Successivamente la domanda fu «Quale sarebbe questa realtà?». E Nabokov rispose dicendo che se si prende per esempio un giglio, questo oggetto è più reale per un naturalista che per chiunque altro e se poi ad osservare il giglio è un botanico specialista di gigli, il grado di realtà è ancora più elevato. «Di un particolare oggetto – continuò – possiamo sapere sempre di più, ma non potremo mai sapere tutto: non c’è speranza. Così viviamo circondati da oggetti più o meno illusori – per esempio quella macchina laggiù. Per me è un’illusione totale – non ci capisco niente; insomma, per me è un mistero, così come potrebbe essere un mistero per Lord Byron.
Il gusto per l’inganno?
Il soggettivismo di Nabokov richiamò allora una seconda domanda: «Lei dice che è una questione intensamente soggettiva, ma mi sembra che nei suoi libri dimostri un gusto quasi perverso per l’inganno letterario.» Ed ecco Nabokov sbocciare come quel giglio, prima scherza e ricorda che da ragazzo gli piaceva fare dei semplici trucchi come trasformare l’acqua in vino, poi arriva al nocciolo della questione, alla “parabola” del lupo.
L’intervista, trasmessa dal programma Bookstand, apparve poi anche su Listener il 22 novembre di quello stesso anno e compare oggi nella riedizione di Intransigenze (il titolo originale è “Strong Opinions”) nelle edizioni Adelphi: un testo cruciale per conoscere lo scrittore di Lolita, dove sono riuniti, selettivamente, alcuni incontri dello scrittore con i media. Un percorso accidentato da cui Nabokov cercò di salvaguardarsi escludendo tutte le interviste che non erano mediate da risposte scritte per escludere sia le libere interpretazioni (qualche volta di comodo) dei giornalisti sia «ogni traccia di spontaneità».
Intransigenze, ovvero pareri netti
Il risultato di questa scelta è duplice: da un canto ogni intervista è priva di “atmosfera”, dall’altro è quanto di più vicino ci si possa auspicare al pensiero di Nabokov sulla creazione letteraria. Nabokov (nella foto sotto con la moglie Vera) chiedeva inoltre di poter rileggere il testo definitivo. E nella prefazione spiega: «Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino». La vivacità e intelligenza della sua frase scritta non è insomma replicata dalla conversazione, magari al telefono e rispondendo a provocazioni che richiamavano problemi degni di mediazione riflessiva. «Ai ricevimenti – dice ancora Nabokov – se cerco di intrattenere qualcuno con una storiella, devo ritornare su una buona metà delle mie frasi per integrazioni e cancellature orali. Persino il sogno che descrivo a mia moglie mentre facciamo colazione è soltanto una prima bozza.»
Il testo originale venne licenziato nel 1973 e raccoglie quindi (a prescindere dalle aggiunte editoriali che convogliano in questo caso le Lettere ai direttori, alcuni Articoli e gli Scritti sui lepidotteri) le interviste a ridosso dell’intero arco narrativo dell’autore. Leggerle significa davvero entrare nell’officina dell’autore, non solo tra le convinzioni epistemologiche ed estetiche.

La memoria dello scrittore
Parlando ancora con gli intervistatori approdati a Zermatt nel 1962, Nabokov affronta la questione cruciale del ruolo giocato dalla memoria nella scrittura e sottolinea sia la fragilità dello strumento, sia la matrice emotiva di ciò che è destinato a permanere nella storia personale. Distingue questi ultimi dai “ricordi intellettuali” e pensando invece a certi flash dell’infanzia aggiunge: «Queste cose sono assolutamente permanenti, immortali, non cambiano nemmeno se le do in appalto infine volte ai miei personaggi, sono sempre lì con me; ecco la sabbia rossa, la panchina bianca nel giardino, gli abeti neri, tutto questo resta mio per sempre.»
Lingua e immagini

Per un autore come Nabokov, prima scrittore in russo, poi in inglese dopo una lunga permanenza in Francia, la questione della lingua parrebbe riflettersi sul disegno creativo. Ma Nabokov scava in profondità: «Non penso in nessuna lingua. Penso per immagini. Non credo che la gente pensi in un lingua. Nessuno muove le labbra quando pensa. (…) No, io penso per immagini, e di tanto in tanto la schiuma delle onde cerebrali forma una frase in russo o in inglese, ma questo è tutto.»
Questa qualità si sposa in Nabokov a una più generale propensione per la visualità. Agli stessi intervistatori della BBC spiega che da bambino dipingeva molto e tutti pensavano che sarebbe divenuto un pittore. L’amore per il colore in particolare rimase anche sulla sua pagina letteraria: «Ho questo dono un po’ strambo di vedere le lettere colorate. Si chiama cromestesia. Ce l’ha forse una persona su mille.»
Brani e schede per costruire il romanzo

L’autore di Lolita scriveva senza proporsi di cominciare la sua storia cronologicamente o presupponendo di seguire tappa per tappa l’evoluzione di quello che sarebbe stato il libro. Utilizzava delle schede in cui descriveva una scena, un dialogo, un’impressione: «Non scrivo di seguito, partendo dal principio per passare al capitolo successivo e così via sino alla fine. Mi limito a riempire i vuoti del quadro – del puzzle che ho ben chiaro in mente – prendendo un pezzo qua e un pezzo là, e completando parte del cielo e parte del paesaggio e parte dei – che so, dei cacciatori che fanno baldoria.»
“L’originale di Laura”

Questo modo di procedere è oggettivato dalla pubblicazione postuma di L’originale di Laura (Adelphi, 2009) accompagnata dalla riproduzione fotografica del testo autografo. Il romanzo incompiuto (e che avrebbe dovuto essere distrutto dalla moglie per desiderio dell’autore) si articola in 138 schede che riflettono a loro volta la storia di un romanzo. Nabokov aveva intuito durante la degenza in ospedale che avrebbe potuto non avere più la necessaria concentrazione per arrivare alla fine della vicenda. Il suo modo di scrivere aveva del resto anche una implicazione fisica. In un’altra intervista dice che scrive a mano e stando in piedi. «In generale inizio la giornata davanti a un bel leggio all’antica che ho nel mio studio. Più tardi, quando sento la gravità mordicchiarmi i polpacci, mi siedo in una comoda poltrona accanto a un comune scrittoio e infine, quando la gravità comincia a risalire la colonna vertebrale, mi sdraio su un divano in un angolo dello studiolo» spiega ad Alvin Toffler di “Playboy” nel gennaio 1964.

La creazione
Nel merito del processo creativo in sé, Nabokov rifiuta di rispondere direttamente più di quanto non faccia affrontando alcuni aspetti particolari ma, commentando alcune delle sue schede (quelle che contengono, dei «rifiuti», cioè passi scartati di Fuoco pallido, dice: «Non si pensa con parole ma con ombre di parole. L’errore di James Joyce in quei suoi peraltro meravigliosi soliloqui mentali consiste nel dare un’eccessiva corposità verbale ai pensieri» e offre alcuni eloquenti esempi di “ombre” di pensieri, frasi, come «Nevica, giovane padre a passeggio con minuscolo bambino, naso come una ciliegia rosa. Perché un genitore si affretta a dire qualcosa al figlio se un estraneo sorride a quest’ultimo?» Frasi di questo genere appaiono a Nabokov come materiali per una costruzione ignota, qualcosa che non ha ancora forma, che forse in futuro ne assumerà una.
Flaubert sincero?

Ma di pari passo lo scrittore deve conoscere il mondo: «L’immaginazione priva di conoscenza non porta più in là dell’oscuro cortile dell’arte primitiva, più in là dello scarabocchio di un bambino sulla palizzata o del messaggio di qualche caposcarico al mercato. L’arte non è mai semplice. Per tornare ai tempi del mio insegnamento: davo automaticamente un voto basso agli studenti che usavano l’orribile locuzione “sincero e semplice” – “Flaubert scrive sempre in uno stile semplice e sincero” – ritenendo che questo fosse il complimento più bello che si potesse fare alla prosa o alla poesia.»
Nabokov getta alle ortiche anche un altro cliché: l’arte non ha nessuna importanza per la società, «ciò che salva un’opera di narrativa dai bachi e dalla ruggine non è la sua importanza sociale ma la sua arte, soltanto l’arte». Più oltre dirà che scrive solo per gli artisti, di oggi e di domani. Tra i suoi contemporanei ha due beniamini: Alain Robbe-Grillet e Borges.
Lolita non è mai esistita
Tra i temi che tornano con puntualità c’è naturalmente il romanzo del suo successo, Lolita. Dopo molti rifiuti e richieste di tagli per le parti ritenute scabrose venne pubblicato nel 1955 dalla Olympia Press, editrice di Tropico del cancro di Henry Miller. Solo tre anni dopo trovò un editore statunitense, G.P. Putnam’s Sons, con il quale diventò celebre. Proprio Lolita, dice Nabokov, è il romanzo che gli ha dato maggiore soddisfazione: «forse perché è il più puro di tutti, il più astratto, quello architettato con più cura.» Nonostante ci sia stato chi ha pensato di vedere l’antefatto in un episodio di cronaca di quei tempi (il rapimento di una bambina da parte di un cinquantenne), Nabokov rispose compiutamente all’eventualità fin dagli anni Sessanta. Humbert Humbert (il protagonista di Lolita) «è un uomo inventato da me, un uomo con una ossessione» e Lolita «non ha avuto alcun modello. E’ nata dalla mia testa. Non è mai esistita.» La questione referenziale del resto era già risolta a priori ( i lettori del romanzo lo intuiranno) nel momento in cui Nabokov parla della scrittura come di un atto totalmente soggettivo. I suoi romanzi precedenti e successivi lo confermano e la breve narrazione Cose trasparenti è l’epitome di questo sguardo sulla pagina scritta.
Consigli ai critici letterari
In una rara intervista filologicamente rilevante (comparsa su “Wisconsin Studies” in Contemporary Literature, VII, 2, 1967) e svolta da un ex allievo dello scrittore, Alfred Appel jr., il modello di giudizio letterario di Nabokov si precisa quando l’intervistatore chiede se egli pensa che la critica letteraria serva a qualcosa. La risposta è una casistica di consigli speculari agli atteggiamenti più diffusi. Al «critico letterario in erba» (questa la formula scelta) lo scrittore direbbe «impara a distinguere la banalità. Ricorda che la mediocrità prospera sulle “idee”. Guardati dai messaggi alla moda. Domandati se il simbolo che hai scoperto non sia l’impronta del tuo piede. Ignora le allegorie. Metti a tutti i costi il “come” al di sopra del “che cosa”, ma fa in modo che non si confonda con il “come mai”. Fidati dell’improvvisa erezione dei peluzzi sulla schiena. A questo punto non tirare in ballo Freud. Tutto il resto dipende dal talento personale. »
A parte la lezione di Freud, ormai storicizzata, tutto potrebbe essere ripetuto parola per parola in questo scorcio di XXI secolo, ben sapendo di non essere mai ascoltati in nessun caso.
Marco Conti
Vladimir Nabokov, Intransigenze, pp. 413, Adelphi, 2021. Euro 14,00
