
«Ancora oggi il senso di perdita è quasi insopportabile»: Paul Auster chiude così le sue brevi pagine dedicate a Franz Kafka, affettuosamente rievocato sul letto di morte mentre corregge le bozze di Il digiunatore, sofferente di una tubercolosi alla laringe che gli impedisce di bere e mangiare. Auster ne scrive con appassionata intelligenza in un libro di letture e note critiche dal titolo amaramente programmatico: L’arte della fame (Einaudi). Non sorprende che l’autore della Trilogia di New York dedichi due intensi capitoletti a Kafka. Paul Auster non solo è lo scrittore statunitense di sensibilità letteraria più marcatamente europea che oggi sia dato di leggere, ma è anche in certo modo un “nipote” dell’autore ebreo-praghese. Tutte le maggiori narrazioni di Auster portano con il loro percorso il senso di esilio, di emarginazione, spesso di spogliazione: dal protagonista di Mister Vertigo all’investigatore della trilogia, all’uomo in fuga di La musica del caso. Non solo. In Auster si percepisce il senso di straniamento come autentico “luogo” rivelatore di una condizione esistenziale.
Wolfson, Celan, Jabès
Non sono le sovrastrutture o i codici morali le coordinate entro cui i personaggi del suo romanzo amano e vivono, ma lo sono la ferocia e la follia nella cornice precaria della mondanità, delle convenzioni, del potere. Il mondo appare nelle sue pagine un po’ come appare il Castello agli occhi del protagonista, cioè dell’agrimensore di Kafka o tramite quelli dell’adolescente ingenuo di America. Sarebbe però del tutto fuorviante leggere “L’arte della fame” come lo specchio delle predilezioni di un grande autore. Il libro, fitto di osservazioni formali esplicitate senza sicumere filologiche, presceglie tematiche poco frequenti: l’uso del linguaggio nello scrittore schizofrenico Louis Wolfson, la presenza incombente della morte nella poesia di Paul Celan, le qualità estetiche nella poesia francese del Novecento. Queste ultime vengono evidenziate per chiarire alcuni aspetti salienti del linguaggio lirico moderno con autori come Pierre Reverdy, Jacques Dupin, André du Bouchet, Edmond Jabès, autori non facili ma essenziali per comprendere come anche le forme della poesia possano divenire oggetti di sensibilità, sentimento, pensiero.
«La ricchezza produce povertà»
Come ogni scrittore autentico, Auster non divide la propria vita dall’arte. Così questo suo libro è fitto di incisi personali, di trame letterarie e biografiche, persino di note politiche e sociali come nel saggio “Pensieri su una scatola di cartone”, dove si racconta la nuova montante arroganza del potere economico. «La ricchezza- chiosa Auster – produce povertà», con ciò ribaltando l’assunto chiave delle politiche liberali e liberiste. E’ del resto il commento appropriato di un intellettuale che a lungo è vissuto di pochissimo alle più sordide discriminazioni, oggi molto spesso tramutate in diritto.
Marco Conti
Paul Auster, L’arte della fame, trad. M. Bocchiola, Einaudi, 2002

Marco Conti, La Nuova Provincia di Biella (Società e Cultura), 30.08.2003, p. 19
Ho un unico rimpianto, per quanto concerne la lettura. A lungo mi sono dedicata alla saggistica e troppo tardi alla narrativa, e la letteratura americana l’ho appena sfiorata. Paul Auster mi fa avvertire questa mancanza