Lucia Sollazzo, l’Eden e le nevi

«Vedo la sorte mia in tuo colore/ noctua, se al chiaro sole/ sconfini, occhi e piuma d’errore/ esatto il grido breve del tuo gelo.» Sono alcuni degli ultimi versi scritti da Lucia Sollazzo in Noctua (Manni, 1998), una raccolta che conclude una vicenda letteraria tanto aristocratica quanto appartata. Nata a Vecchiano, nelle vicinanze di Pisa, nel 1922 aveva compiuto al contrario la parabola che tocca a molti scrittori: aveva cioè cominciato con la narrativa sotto gli auspici della cugina Anna Banti, scrivendo due romanzi: Morte dei Cabraz e Juke Box, rispettivamente nel 1953 e nel ’54 (pubblicati da Neri Pozza e Rizzoli). Poi una insospettabile diversione: la poesia lirica e il giornalismo (inviata della Stampa dal momento in cui prese la direzione Alberto Ronchey). Del 1973 è il suo primo libro di versi, Unico Nord, nella collezione bianca di Einaudi. Un testo che nella sua lingua non lascia intendere nulla della precedente offerta alla prosa. Un testo che con l’asciuttezza del verso post-ermetico porta all’astrazione scientifica e fisica il reale, che mostra una propensione all’alchimia mallarmeana là dove un oggetto, una figura, sono veicoli di altri e alieni significati.

A Nord di Victor Segalen

Quest’ultima nozione mallarmeana, Lucia Sollazzo sembrava condividerla con i versi di Victor Segalen, di cui infatti si occupò concretamente con la traduzione del libro più importante del poeta francese, Stele, pubblicato da Guanda nel 1987 (a cui farà seguito Lettere di Cina, Archinto, 1990). Nel commento al libro, Lucia Sollazzo coglie un aspetto che potrebbe riflettere la sua stessa lirica. Parlando della poesia come forma di conoscenza (da Baudelaire a Rimbaud), scrive che il mondo sensibile in Segalen è spiritualizzato ma non negato (il che si potrebbe commentare anche a proposito della lirica dell’autrice e traduttrice). E aggiunge che tale è nel francese la «premessa d’uno stato in cui le percezioni non hanno più alcun ruolo; la soggettività è superata nella scoperta, a specchio d’un vuoto ineffabile, del Principe dell’Assenza, del Nome nascosto, del silenzio.»

La prima edizione di “Stèles” in pochi esemplari venne stampata in Cina

Le nevi dell’Eden

Il libro che segue quello einaudiano, Le nevi dell’Eden (Sugarco 1988), prende a prestito lo straniamento della montagna, la sua solitudine, il suo lessico petroso tra arborescenze e geli, per intessere traslati di intense valenze figurali:

 Già trenta volte giovane per sempre                                                                                                                                          
 seta d'aprile e cristallo di pace,
 strazi dilani, il gesto che ti stempra 
sei tu, vita con morte uguale brucia, 

all'agguato dell'ultima guerriglia. 
Fiorisce nella rosa degli spari 
la tua radice, senza uno spiraglio 
linfa combacia con il frutto chiaro. 

Ti perdi senza perderti, intatto
 nell'occhio della vittoria. Sui campi 
di silenziose nevi intanto smotta 

questa vita a me senza mai scampo,
 arsa si spoglia per vie dirotte 
d'ogni ragione al gelo dello scempio. 

Un testo che vive di ossimori, di quella immersione tra i contrari che già faceva dire a Gian Battista Vico come l’autore di questa figura voglia esprimere che «una cosa non è ciò che essa è». Non a caso tra contrapposti e speculari mondi vivono anche i successivi Ombra futura (Archinto) e Noctua (Manni).

Il ritorno delle forme chiuse

La poesia di Lucia Sollazzo è stata sensibile fin dagli anni Ottanta alla forma-sonetto, ma è negli ultimi due volumi (a prescindere da Vestiario o la collezione di Core, Scheiwiller 1990) che si compone con puntualità e acribia il rifacimento di questo classicismo. Rispetto alle riprese postmoderne del sonetto di Patrizia Valduga ( autrice per lo più discorsiva e ironica o al contrario pascoliana) e di Gianni D’Elia (inteso a restituire chiarezza al linguaggio colloquiale), Lucia Sollazzo usa strofe e quartine tendenti al novenario o all’endecasillabo come il naturale recipiente di un verso spiccato e scolpito. Nel complesso il libro rinvia ad un animus indipendente da qualsiasi altra esperienza a lei concomitante. Il primo libro (Ombra Futura) dice il sentimento del tempo con un lessico e un immaginario che rinviano alla tradizione classica:

Cominciava con me, l'ottobre
del mio anno, il ventennio amaro
che giovinezza poi in latebre
mi strappò col fratello e il chiaro

sguardo ancora senza febbre
seppe in disperanza riparo.
A verde sangue, a chiuse labbra
quali pietre di calendari

parvero allora vent'anni.
Li raddoppia oscena farsa, 
rivelati ingorghi e inganni,

la storia patria ultimo corso:
e memoria, immutati panni,
un'altra vita, intera, è persa.

Nel secondo instaura un canto (e ancora con analoghi accenti classici, leopardiani) che compenetra morte e vita, che fruga tra le crisalidi della natura, la loro energia verde e un trionfo di Thanatos. Thanatos che ora ha il profilo funesto del mondo contemporaneo («L'umano è moneta,/ la speranza s'accorcia in ogni sorte.» 

E se non fosse che il morir m'è gioco
in vile fuoco, eletto silenzio
parlami: a tanta rissa di sì fioco 
petto, pungi di assenzio 
(...)
                                                   da "Noctua"

In controtendenza al clima letterario della fine del Novecento, Lucia Sollazzo si allontana dalla biografia, dall’ intimità, dalla soggettività, per inscrivere anch’essa in una visione del tutto aliena dalla storia. Così mi sembra fosse anche nella vita quando a dispetto della professione di giornalista (o proprio per questo beninteso) si rifiutava di dare importanza alle contingenze, tornando a dedicarsi negli ultimi anni all’antica passione per la filosofia.

Marco Conti

Nota biobibliografica. Lucia Sollazzo (Vecchiano 1922 – Torino 2000). Il suo esordio letterario risale al 1953 con il romanzo ”Morte dei Cabraz” (Neri Pozza) a cui seguì ”Juke Box” (Rizzoli, 1964). Le opere poetiche comprendono: ”Unico Nord” (Einaudi, 1973), ”Le nevi dell’Eden” (Sugarco, 1988), “Vestiario o la collezione di Core” (Scheiwiller, 1990),   ”Ombra futura” (Archinto, 1997), e “Noctua” (Manni, 1998). Traduzioni e curatele: Victor Segalen, “Stele” (Guanda,1987) “Lettere di Cina” (Archinto, 1990 ); “Inni di Sant’Ambrogio” (Guanda, 1964). La sua frequentazione degli ambienti della moda, come giornalista, era stata da lei romanzata nel libro ”Tutti in vetrina” (Longanesi).

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