
«Alla fine dell’ultima (guerra) c’erano vincitori e vinti / fra i vinti la povera gente faceva la fame / fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente», così scriveva Bertolt Brecht in una celeberrima poesia. Alla stessa conclusione giunge Carlo, uno dei personaggi del romanzo di Emilio Jona “Inverni alti”, ristampato da Interlinea nella collana “Biblioteca Piemonte Orientale”. Nel crocchio formatosi per strada si sta discutendo della guerra, che sembra anche più dura di quella del Quindici e le varie voci, che si alternano, raccontano dei bombardamenti e degli aerei che fortunatamente nelle loro zone non vanno; durante questa conversazione Carlo, uno dei paesani, distilla riguardo le guerre la perla di saggezza, che sembra sempre non essere colta di generazione in generazione, ovvero «che si vincano o che si perdano, non viene che miseria per tutti».
Miseria portata dalle morti inutili, dalla disoccupazione, dai bombardamenti, da tutti quei fattori che portano la famiglia di Remo, una come tante, a rifugiarsi nelle valli biellesi, dalle quali erano partiti per trovare fortuna nella grande città di Torino. E proprio la grande città in macerie riemerge dai racconti dei profughi durante il viaggio «le sue strade, le case abbattute, le mura bruciate, le lunghe ore di rifugio, le sirene, le fitte macerie e i morti, il vivere a denti stretti, il freddo delle nostre case, la fame, la paura scolpita, le buche delle bombe, e le parole come un ritornello», tutto il Male di una città in guerra contrapposta a Biella «che è una quasi città intatta, con strade, case dritte, gente che non porta sul viso la nostra guerra».
La montagna come rifugio

Il tema centrale del romanzo non è però la guerra, o la fame, o la miseria, ma la resistenza; non quella combattuta come guerra civile in montagna, né quella ricordata il 25 aprile sotto il porticato di Palazzo Oropa (la resistenza delle staffette partigiane), ma quella quotidiana di coloro che non volevano omologarsi all’odio e alla violenza, che come un’onda stava travolgendo l’Europa. Il romanzo è dedicato alla gente comune, che sopporta i sacrifici quotidiani, che lotta ogni giorno e che manifesta la propria dignità e moralità di popolo nell’ospitare chi è meno fortunato.
Nel paese vicino a Piedicavallo giunge prima Remo con la famiglia e si inseriscono nella vita della comunità, partecipando a piccoli lavori collettivi, come pulire la strada dopo una nevicata e poi a loro volta ospitano tre conoscenti di Torino, tre ebrei in fuga non solo dai bombardamenti, ma dalla deportazione e dai rastrellamenti.
Sono quegli sfollati che, anche lontano dal conflitto, non escono quasi mai destando così la curiosità dei paesani, forse un sottile senso di inquietudine. Un’amica del protagonista incuriosita come gli altri, ma molto più diretta, chiede all’amico Remo chi siano questi ospiti e ipotizza che siano inglesi. Ma il paese è una grande famiglia e nessuno ne tradisce i membri, infatti la delazione viene dall’esterno. Uno sconosciuto per qualche notte dorme nella scuola del paese, dice di essere un parente della maestra, cerca ospitalità nella casa della famiglia di Remo, ma dopo pochi giorni sparisce nel nulla così come era comparso.
Una sorta di “romanzo di formazione”
Inverni alti è stato definito da Giuseppe Zaccaria, curatore della collana, «un romanzo di formazione, con la differenza che la maturazione di Remo avviene direttamente, senza mediazioni sovrastrutturali, attraverso la partecipazione e il confronto con la realtà delle persone e delle cose». Questo processo di crescita si interrompe la Vigilia di Natale, quando ritorna il fantomatico parente della maestra, che porta con sé i tedeschi. La descrizione degli eventi si fa precipitosa: al grido di “Arivu i tidisc!” i tre ebrei si nascondono nel rustico, il padre del protagonista nel solaio e il giovane scende in strada dove viene fermato insieme ad altri paesani.
Le montagne, che dovevano proteggere e facevano sentire la guerra lontana come un’eco, si trasformano in cassa acustica, che amplifica il suono di una raffica esplosa nel silenzio.
Giancarla Savino
Da “La Nuova Provincia di Biella”, 28 maggio 2005, p. 21
Nota Biobibliografica: Emilio Jona (Biella, 1927) è stato uno degli iniziatori del gruppo Cantacronache, esperienza che contrapponeva per la prima volta in Italia la canzone d’autore a quella di consumo. Il suo esordio letterario è avvenuto con la poesia e la raccolta “Tempo di vivere” (Mondadori, 1955) seguito dal romanzo “Inverni alti” (Amicucci, 1959). Nel 1962, con l’editore Longanesi, stampa “Le canzoni che fecero l’Italia” e nel 1964 “Le canzoni della cattiva coscienza” (Bompiani). Del 1984 sono le poesie “Conferenze” (Edizioni dei Dioscuri) e il breve romanzo “Un posticino morale” (Scheiwiller, 1984) ristampato nel 2007 da Manni. Con Scheiwiller esce anche l’ampia raccolta di poesie “La cattura dello splendore” (1998) e “L’aringa e altri racconti” (1993). Le ultime due opere di narrativa sono: “Il celeste scolaro” e “Il fregio della vita” edite entrambe da Neri Pozza nel 2015 e nel 2019. Numerosi i saggi pubblicati, tra cui “Giacomo Debenedetti. L’arte del leggere” e ugualmente cospicua la sua produzione librettistica.