«Il cielo è grigio scuro, le strade del villaggio sono vuote, il ruscello è gelato, la foresta è coperta di neve. Non possiamo più andarci. Tra poco resteremo senza legna.» La frase è asciutta, spoglia, breve, per raccontare un mondo nodoso, emozioni nette, sofferenze senza alibi. E’ lo stile di Agota Kristof, quello che l’ha resa celebre con la Trilogia della città di K. e che dà energia alle poesie di Chiodi. Un mondo che, nella sua nettezza, ha nondimeno l’effetto straniante di una visione.
Nella prosa il lettore finisce per percepire la solitudine abissale che avvolge i due bambini protagonisti del primo romanzo – Il grande quaderno – nella campagna dove sono stati relegati per sopravvivere alla guerra. La madre li porta dalla nonna («La chiamiamo nonna. La gente la chiama la Strega. Lei ci chiama figli di cagna») in un villaggio al limitare di una foresta. E qui impareranno a loro spese a sopravvivere. La crudeltà di ciò che li circonda, ricorda da vicino quella ancor più gratuita di L’uccello dipinto di Jerzy Kosinski (nato a Lodz, 1933), lo scrittore ebreo polacco al quale toccò per alcuni versi la stessa sorte dei gemelli narrati da Agota.
“L’uccello dipinto”: un antecedente

Entrambi i romanzi posseggono, attraverso i loro protagonisti, la linearità cristallina e l’emozione delle voci infantili. Voci di bambini anziché di adulti avvezzi a razionalizzare gli eventi nei contesti e nella grande Storia. Entrambe le narrazioni hanno come denominatore l’ambiente rurale in villaggi sperduti, l’epoca del secondo conflitto mondiale e il rifiuto opposto da queste comunità agli sconosciuti: i protagonisti dell’ungherese Agota Kristof (nata a Csikvand nel 1935) negli anni del conflitto così come l’alter ego di Kosinski (poi naturalizzato americano in seguito ad una avventurosa fuga negli anni ‘50) in Polonia nello stesso arco temporale.

Dati condivisi dalle narrazioni, senza voler sottolineare che entrambi gli autori lasceranno i loro Paesi d’origine e scriveranno in un’altra lingua. Ma ciò che Il grande quaderno (e solo questo romanzo della Trilogia) ha in comune con il testo di Kosinski permea sotto almeno un profilo anche l’aspetto letterario: ed è l’effetto stravolgente di un’azione narrativa marcata sostanzialmente da fatti, solo dai fatti, che ribadiscono in situazioni che rasentano l’inverosimile la precarietà delle giovani esistenze dei protagonisti.
Un confronto storico-letterario: Kafka
Una qualità quest’ultima che trasporta immediatamente il lettore nei territori di Kafka come rilevò David Foster Wallace a proposito di Kosinski. Eppure L’Uccello dipinto (dove il protagonista è un bambino ebreo in fuga sotto falso nome, scambiato per uno zingaro) alla sua pubblicazione negli Stati Uniti, subì il contraccolpo della censura nell’Europa sovietica perché considerato addirittura un romanzo storico calunnioso per le popolazioni dell’est. Un dato a cui contribuì la testimonianza dell’autore che confermò come la narrazione fosse complessivamente veritiera.

Al di là di interpretazioni che riguardano più l’ideologia e le cronache del tempo che l’estetica, nel caso de L’uccello dipinto, come nella Trilogia della Kristof, la narrazione poggia su una visione della vita dominata sostanzialmente dal caos e dal pregiudizio. Un contesto che dà conto della fragilità umana da un canto e, dall’altro, dell’energia delle pulsioni. Tuttavia questa circostanza non è meno insistita nella restante opera del polacco mentre, per la Kristof, prende corpo soprattutto alla conclusione della trilogia. Dopo La prova imperniato su vicende segnate da morti e uccisioni, e che si svolgono intorno ad uno solo dei gemelli, con La terza menzogna Agota Kristof fornisce una nuova prospettiva dei fatti narrati. Il romanzo muta ambientazione e dà voce all’esistenza dell’altro gemello vissuto in città; ma in questo terzo tempo ogni avvenimento precedente pare dover essere collocato in una più modesta dimensione di dramma borghese. Ugualmente, la divisione dei gemelli non rinvia tanto alla contingenza dell’evento fisico, piuttosto alla trasparente metafora dell’identità.
Sradicamento e persecuzioni

Agota Kristof fuggì dall’Ungheria dopo l’invasione sovietica del 1956. Approdò prima in Austria con il marito e una figlia, quindi nella Svizzera francese dove lavorò come operaia in una fabbrica di orologi. La sua famiglia, di origini modeste, venne spezzata dall’arresto del padre (maestro di scuola) e queste esperienze la segnarono indelebilmente. Per Kosinski la vita di sradicamento da una famiglia benestante di intellettuali dette origine, nel romanzo, alla crudele peregrinazione lungo le campagne polacche e ad episodi forse in parte frutto di una sensibilità visionaria. Le atrocità descritte dalla Kristof, ugualmente, non sembrano poter essere ascritte al vissuto senza importanti mediazioni letterarie. Una questione di scarso rilievo per l’esito dell’opera, ma ribadita come autentica da entrambi gli autori quando vennero sollecitati a raccontare il loro vissuto. Per Kosinski, questa sua posizione, ai tempi della “Guerra Fredda”, dette origine accuse pubbliche, in articoli spesso deliranti con le televisioni polacche che intervistavano presunti testimoni chiamati a negare le circostanze narrate.
Ben pochi considerarono che l’esattezza dei fatti non era in discussione, ma lo era il loro valore etico e simbolico che aveva origine nell’atteggiamento collettivo contro l’outsider, zingaro, ebreo, intellettuale. Ma non è solo questo. Tornando alla Kristof, viene in mente un appunto di Fabio Pusterla, nella postfazione a Chiodi, che trascrive un passo della Terza Menzogna in cui il protagonista dice «Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa”, per la quale non c’è parola».
“L’analfabeta”
Nell’unico scritto autobiografico di Agota Kristof, L’analfabeta, l’autrice percorre alcuni momenti della sua adolescenza. Nel 1950 Agota ha 15 anni e dopo un’infanzia tranquilla in famiglia si trova a vivere in un collegio. Scrive: «In collegio siamo mantenute, certo. Abbiamo da mangiare e abbiamo un tetto, ma il cibo è talmente cattivo e insufficiente che abbiamo sempre fame. D’inverno abbiamo freddo. A scuola teniamo il cappotto e, ogni quarto d’ora ci alziamo per fare degli esercizi di ginnastica, così da scaldarci. Nei dormitori fa altrettanto freddo, dormiamo con le calze e quando saliamo nelle aule di studio siamo costrette a prendere le coperte.»
Le privazioni toccano persino il cambio di un paio di scarpe. Agota finge di avere la febbre ed evitare così le lezioni perché il calzolaio farà le riparazioni tre giorni dopo la consegna. E aggiunge: «Di chiedere i soldi ai miei genitori non se ne parla neanche. Papà è in prigione e non abbiamo sue notizie da anni. Mamma lavora dove può. Abita in un’unica stanza con Tila, a volte i vicini le permettono di usare la loro cucina.»
Esordi

E’ in questo contesto che Agota inizia a creare. Brevi spettacoli per gli scolari che costano il prezzo di un cornetto e che vanno in scena durante le ricreazioni: «La mia specialità sono le imitazioni dei professori. Un mattino avvisiamo qualche classe, il mattino dopo qualche altra.» Ed esattamente sui banchi di scuola nasce la sua scrittura essenziale. Un giorno Agota consegna un compito e ha paura di essere rimproverata perché è corto. E’ invitata a leggerlo alla classe: «Quando finisco il professore dice alla classe: “E’ così che dovete imparare a scrivere. E’ breve, conciso, essenziale. Però stia più attenta alla calligrafia, Kristof”».

A 21 anni con una bambina di quattro mesi e il marito, in compagnia di altri ungheresi, Agota attraversa il confine con un “passatore” che li fa inoltrare in un bosco di montagna. Dopo aver camminato a lungo arrivano in Austria, senza denaro, che del resto non varrebbe nulla. Agota scrive nell’Analfabeta che ha di questa avventura pochi ricordi come se si fosse svolta in sogno. E annota: «Ho lasciato in Ungheria il mio diario dalla scrittura segreta, e anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno, quel giorno di fin novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo.»
“Chiodi”, le poesie
Le poesie di Agota Kristof pubblicate solo dopo la sua morte, nel 2016, risalgono per lo più agli anni Sessanta e sono state scritte in ungherese. Solo un piccolo gruppo di otto poesie è stato composto in francese negli anni Ottanta e solo la poesia Ninna Nanna è stata riscritta in francese dall’autrice.
Le prima poesie ungheresi riportano la scrittura tesa e semplice che i lettori hanno imparato ad amare con i romanzi. Il verso è assertivo, le strofe proiettano il lettore in un paesaggio deformato dalle emozioni, con una immediatezza che non lascia spazio all’ allusione. Come in “Non c’è motivo per cambiare marciapiede”:
Nel crepuscolo che ha perso l’equilibrio un uccello spicca un volo sghembo a terra c’è solo il seminato silenzio indicibile e insopportabile attesa
La scelta di procedere attraverso le strofe segna quasi sempre la dialettica tra passato e presente. Kristof li confronta. Così in questa lirica i versi della seconda strofa si rivolgono al passato:
Ieri era tutto più bello il canto tra le fronde degli alberi tra i miei capelli il vento tra le tue mani tese il sole E infine l’ultima strofa, oggettiva quasi in una cristallizzazione definitiva, l’assenza di futuro: Ora nevica sulle mie palpebre il mio corpo è pesante come roccia e no c’è motivo di cambiare marciapiede e non c’è motivo per andare alle montagne (1)
Scolpire il silenzio
Chiodi testimonia un verso sintattico eppure un verso che riesce a scolpire intorno a sé il silenzio con incisività analoga al fraseggio breve della prosa. Il mondo fisico senza implicazioni diverse da quelle dell’archetipo (la terra, la vegetazione, l’aria il fuoco per riprendere termini di confronto da Bachelard), è continuamente strutturato nel tempo con le prime più importanti poesie ungheresi. Si prenda, all’estremo della semplicità espositiva, Il filo d’erba che costituisce il soggetto predicato poi dal primo verso: Era ormai secco e spezzato io/ lo conoscevo era nato tra pietre/ abbandonate /perché voleva vivere da solo e vedere/ la corsa delle nubi dalle creste d’oro// a mezzogiorno il sole lo guardò con malvagi/ occhi infuocati l’indomani/ lo tormentava la fame si piegò morì/ allora il vento tiepido e tenue gli fece una carezza. L’elemento naturale, il filo d’erba, è oggetto di una personificazione estesa (da io lo conoscevo a il sole lo guardò per concludersi con l’azione del vento) ed è nella elementarità di questo ciclo di vita minima (per questo allegoricamente più tranchant) che si compie la struttura lirica, declinando con l’evento fisico il correlativo spirituale come accadrà spesso in queste poesie.
L’allegoria
L’allegoria è la forma usata anche nella poesia seguente, L’uccello: «Ero un uccello grande pesante e talvolta/ riconoscevo le città/ dove ero già stato». La versificazione qui si fa più narrativa escludendo la strofa. Una forma infrequente, tanto in queste prime liriche come nelle poesie più tarde degli anni Ottanta. Dato costitutivo è invece, nella sua strutturazione delle strofe fra passato e presente, l’uso del “tu” proiettivo e la presenza della natura come uno specchio che riverbera l’emozione. Carattere che Agota Kristof condivide del resto con la sensibilità novecentesca.

“Ninna Nanna”
Ninna Nanna, poesia su cui l’autrice torna verosimilmente, con una sua versione nella nuova lingua acquisita per i ricordi cruciali che vi confluiscono, potrebbe divenire un referente significativo dell’opera: Preparati il letto va’ a dormire e guarda dalla finestra come cresce fuori la primavera e la pena il cielo è tutto tristezza blu e con gemme di lacrime scoppiano a piangere gli alberi. Inutile ripetere quanto appena rilevato, se non che le immagini evocate dalla primavera sono utilizzate come paradosso del sentimento. La fioritura come il cielo sereno non sostengono un contrappunto rispetto a chi le contempla ma sono esattamente misura della sua, maggiore, desolazione. Tu non piangere togliti i vestiti togliti la vita giaci nuda e sii felice di essere sola nella primavera nel cielo negli alberi nella luce sii felice di non doverti alzare di non dover più parlare rispondere camminare Un lessico d'uso elementare ma scelto con cura per richiamare il binomio vita e morte nell'affacciarsi del risveglio primaverile che, solo alla terza strofa, storna l'attenzione con l'ultimo verso conclusivo "in levare": Non pensare al freddo non muoverti sul tuo corpo bianco poi scenderà il sole quando demoliranno le case di fronte i comignoli e le antenne della televisione
Ultimi versi

La Kristof forma con enorme cura il lessico del suo verso fino al punto in cui la punteggiatura risulta inutile. Carattere che mantiene vent’anni dopo nelle poesie nate in francese, benché il microcosmo immaginativo che prima sorreggeva i testi qui risulti meno incisivo e viceversa si affaccino forme anaforiche: «Il tuo corpo/i tuoi occhi rossi/il tuo fiore/i petali che cadono» (Persinet), mentre in Mai più questa strada…, si legge: «Mai più questa strada/mai più questo cammino/mai più questa città/mai più questa casa» con un tono tanto dimesso quanto sarcastico e perentorio ma dialettico: contrasto quest’ultimo assente nelle prime poesie dove il mondo e lo sguardo sul mondo sono la stessa cosa.
Marco Conti © Riproduzione riservata
(1)Le traduzioni delle poesie sono di Vera Gheno e Fabio Pusterla
Scrittura dell’essenziale, ideale dell’Essenziale. Davvero ridurre la parola a seme è impresa ardua. Penso che chi pratichi la via dell’essenziale sia spinto da un intimo bisogno di verità, da un rigore personale del dire, da un impegno sociale e civico, per un senso di responsabilità di fronte all’altro. E in questo dire si raccoglie un mondo, un’esperienza di vita, dove forma e contenuto si integrano
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