
Anticamente, nel mondo ebraico di Stefan Zweig, l’apprendimento della lettura era un rituale. Nella ricorrenza del giorno in cui Mosè aveva ricevuto la Torah direttamente da Dio, il bambino era portato dal padre al maestro che gli indicava, su di una lavagna, le lettere dell’alfabeto ebraico e un brano biblico. Il maestro leggeva a voce alta e il bambino ripeteva, puntualmente, parola per parola. La lavagna veniva poi cosparsa di miele e il piccolo la leccava per assimilare simbolicamente ogni singolo lemma. Un’iniziazione per cui leggere equivaleva a sapere e a salvarsi.
In viaggio con un analfabeta
Nel 1907 Stefan Zweig ha ventisei anni e si è appena imbarcato su una nave italiana, in viaggio da Genova a Tunisi e Algeri. Fa amicizia con un marinaio italiano che lava i ponti e pulisce le cabine. E’ quasi un suo coetaneo. Zweig ne apprezza la vitalità e l’intelligenza, si diverte con quello che chiama il «genio mimico» del marinaio «che gli consentiva di cogliere i gesti di chiunque e ripeterli a mo’ di caricatura: il capitano con la sua parlata sdentata; il vecchio inglese che camminava su e giù per il ponte con la spalla sinistra protesa in avanti» e così via. Ma il giovane scrittore non riesce farsi una ragione quando nei pressi di Posillipo, Giovanni gli porge una lettera della fidanzata con la preghiera di leggergliela ad alta voce. Pensa che si tratti di una conquista d’oltremare, che la lettera sia scritta in una lingua straniera. E invece è in italiano. «Improvvisamente mi fu tutto chiaro: questo ragazzo di bell’aspetto, sveglio, naturalmente dotato di garbo e di autentica grazia, apparteneva a quel sette o otto per cento statisticamente calcolato del suo Paese che non sapeva leggere. Era analfabeta.» Zweig riflette che è il primo europeo da lui incontrato che non sa leggere. «Come dev’essere non saper leggere? Tentai di immedesimarmi in un analfabeta: prende il giornale e non lo capisce; prende un libro, ed esso gli resta tra le mani, un po’ più leggero del legno o dell’acciaio, quadrangolare, spigoloso, una cosa colorata inutile, lo ripone via, non sa che farsene.»
Sulla lettura
Allo scrittore della Novella degli scacchi vengono in mente due cose: l’invenzione della ruota e quella della scrittura. La prima permette di conoscere il mondo spostandosi; la seconda supera la limitatezza dell’esperienza del singolo: il lettore «grazie al libro, non è più murato solo con se stesso nel proprio ristretto campo visivo: può invece rendersi partecipe di tutti gli avvenimenti presenti e passati, dell’intero pensare e sentire dell’intera umanità.» Lo stesso mondo interiore è associato naturalmente all’esperienza fisica e a quella invisibile dei libri. La tecnologia? «Alla tecnica è forse mai riuscito un miracolo superiore a quello realizzato per millenni dal libro?» Nella premessa a Il libro come accesso al mondo e altri saggi, Enzo Restagno ricorda il racconto di Zweig Mendel dei libri e il collezionismo di manoscritti che accompagnò lo scrittore austriaco, ma cita opportunamente anche il breve testo di Marcel Proust Sur la lecture, dove l’autore della Recherche, scrive: «Non esistono forse giorni vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorso senza vivere, in compagnia di un libro prediletto.
La fiaba, la narrativa della tradizione

Può essere che oggi internet surroghi la passione per il libro con una lettura (e visualizzazione) per alcuni altrettanto illuminante. Ma certo il mondo dell’immagine, via via più pervasivo, ricorda per i suoi effetti, le parole del monaco amanuense san Nilo che, nel X secolo, davanti all’analfabetismo, incoraggiava la pratica di dipingere le scene bibliche perché esse «avrebbero fatto da libro agli illetterati, insegnando loro la storia sacra.»
Il saggio di Stefan Zweig fu pubblicato la prima volta nel 1932 su una rivista ungherese di lingua tedesca. Un anno dopo le sue opere vennero bruciate dai nazisti in un rogo pubblico. E l’anno successivo lo scrittore lasciò l’Austria per Londra. Tra gli altri scritti raccolti in questa edizione, compare un affascinante testo sulla fiaba del 1912 che dice, meglio di qualsiasi speculazione retrospettiva, quanto la narrativa orale fosse in quegli anni ancora ricca di promesse. E infatti alcuni dei maggiori studi arriveranno di lì a poco: con Vladimir Propp (la prima edizione di Morfologia della fiaba è del 1928), poi con le attenzioni degli storici delle religioni e dei folkloristi. «Quando ormai da tempo si collezionavano quadri, libri, monete, ventagli, tabacchiere e manoscritti, ancora si lasciava che le fiabe svolazzassero inosservate di bocca in bocca, senza preoccuparsi di fissarle nella parola scritta», dice lo scrittore commentando l’edizione del filologo Paul Zaunert, Deutsche Märchen seit Grimm. Zweig fa rilevare che c’è stato un lungo periodo nel quale la letteratura popolare è stata reputata al «pari di una bella contadinotta (…) e si è voluto liquidare la fiaba «come un chiacchiericcio di vecchie comari.»
Le fiabe e il folklore

Viceversa egli coglie della fiaba l’importanza come forma narrativa archetipa e soprattutto se ne fa affascinare: «Rispetto alla letteratura colta sono di una semplicità infinita, e tuttavia sono piene di mistero: si mostrano prive di regole, e invece ubbidiscono a leggi inconsapevolmente grandi.» Di pari passo, lettore infaticabile qual è, l’autore del Mondo di ieri, già svolge un approccio da comparatista. La lettura dei simboli e delle funzioni è tale che la stessa fiaba, raccontata in Germania – scrive – ha un correlativo nella Terra del Fuoco, in Arabia, e in Cina. Oggi si sa che della fiaba di Cenerentola sono inventariate poco meno di 500 narrazioni e versioni in ogni angolo della terra.
Le invenzioni degli oziosi
Curiosamente Zweig si avventura in una speculazione secondo la quale «non sono stati i coraggiosi, i forti, gli operosi» a inventare le fiabe «perché costoro erano abbastanza impegnati nel mondo reale, bensì i sognatori, i covacenere, i furbi, i bugiardi, i fanfaroni: insomma sempre qualcuno che non partecipava con coscienza e profitto alla vita sociale.» Sono numerosi i protagonisti della tradizione orale che possono dargli ragione benché l’idea della fiaba come creazione di figure marginali, sia tanto suggestiva quanto inadeguata al processo di reinvenzione a cui è soggetta. «Un pelandrone si crogiola beato nel suo letto – scrive – i suoi compari dispettosi, per spaventarlo, gli infilano sotto le coperte una pignatta piena di tritoni neri e freddi, ma appena egli li tocca si rompe un incantesimo, i tritoni si trasformano in oro scintillante e il pigrone diventa ricco nel sonno». Le visioni di Zweig somigliano a quelle di uomo innamorato dell’immaginario fiabesco: nevi con fiocchi di marzapane, zecchini dalle macine del mulino, un fuso che chiacchiera.
Tra gli altri saggi contenuti nel volume, compaiono due commenti sulla poesia di Rainer Maria Rilke, un affondo nella narrativa di Joseph Roth e una prelibatezza per la storia del pensiero: una delle prime recensioni de Il disagio della civiltà di Sigmund Freud.
Marco Conti
Stefan Zweig, Il libro come accesso al mondo e altri saggi (a cura di Simonetta Carusi), Pp. 113, Archinto, 2021; euro 16,00