“Sugar” e la poesia di Éric Sarner

Éric Sarner porta il lettore tra spazi e motivi tematici per nulla usuali: né per la poesia del Novecento, né per quella che incontriamo oggi in Francia, in Italia, altrove. La sua voce resta inconfondibile, alzando o diminuendo l’intensità della pronuncia, con versi rarefatti o al contrario con ampi movimenti narrativi.  Ma avvicinare la poesia di Sarner significa comunque intraprendere una perlustrazione inattesa. Accade ora di averne una più netta impressione con l’edizione che Gallimard ha pubblicato, dove sono riuniti tre tempi della poesia di Sarner: Sugar et autres poèmes condivide infatti Petit carnet de silence del 1996,  il testo eponimo Sugar, del 2001, e  Cœur chronique, pubblicato nel 2013, il libro più articolato, forse più intenso dell’autore.

Biografia e poesia

La biografia dell’autore fornisce facilmente la tentazione di leggere l’eterogeneità dei suoi temi attraverso i numerosi viaggi, il lavoro di giornalista e documentarista, le passioni.  Per esempio quella per il jazz che porta  Sarner a scrivere sulla figura e la morte di Chet Baker (Ébluissements de Chet Baker; nell’edizione italiana sottotitolo di Salto nel sole oscuro, Terra d’Ulivi Edizioni, con la traduzione di Eliza Macadan e una mia postfazione) o quella per la leggenda hollywoodiana, che offre i profili di Frank Sinatra, Ava Gardner, Lauren Bacall  nelle poesie  di La ballade de Frankie. Lo stesso Sugar insiste  sul mondo americano con la vicenda di Sugar Ray Robinson, pugile celeberrimo tra le due sponde dell’Atlantico, campione del mondo dei pesi welter e poi dei pesi medi negli anni Quaranta e Cinquanta.

Jacques Darras, nella prefazione al libro, avvicina ancora di più la biografia ai testi osservando che lo stesso Sarner è stato un pugile dilettante entrato nel rarefatto novero dei letterati dediti alla boxe: Jean Cocteau e il mitico Arthur Cravan, personaggio, quest’ultimo, nato nel clima artistico del dadaismo e scomparso misteriosamente nel Golfo del Messico nel 1918. Sembra così disegnarsi poco a poco il profilo di un autore distante dai cliché intellettuali e tanto più distante quanto più ne seguiamo le tracce. Nato in Algeria è vissuto a Parigi, in Paraguay, in Israele, a Berlino, e naturalmente negli Stati Uniti e lungo le sue strade per un documentario giornalistico da cui nascono le prose di Sur la Route 66: Petites fictions d’Amérique (2009); ma la vita on the road di Eric Sarner pare nondimeno largamente insufficiente per cogliere il carattere dell’opera.

Una lingua rarefatta

Non c’è nulla infatti nei versi  dell’autore che assomigli alla molteplicità vaga e un po’ inebriante dello scrittore assorbito dalla mondanità e dall’effervescenza  del presente oppure,  tout- court, dalla storia contemporanea. Il suo verso evita la densità narrativa predicata in prima persona (da Cendrars a Ferlinghetti) come evita la profusione delle immagini, il vortice di un carpe diem ipoteticamente all’origine di una poetica. Al contrario, i suoi temi,  compatti di libro in libro e di sezione in sezione, quando pure sono disegnati sull’autobiografismo seguono una disposizione opposta a quella della densità immaginativa e lirica: essenzialità del verso, flusso ritmico capace di isolare il sintagma e un immaginario sorvegliato, percorso dal pensiero, dall’interrogazione, formulato con una lingua scabra e rarefatta contrassegnano questa poesia. Una lingua che per la sua leggerezza pare vicina a quella dei personaggi di Beckett:

 A misura che il tempo passa, sento
 il mio silenzio esistere sempre di più, farsi denso.
 E’ come se fossi “buono con lui”, in sintonia.
 Me ne sono reso conto
 ascoltando tre corvi
 gracchiare d’albero in albero nel sole,
 al cimitero di Montparnasse,
 Nessun rumore.
 Soltanto i nomi e le cifre sovrapposte,
 d pietre, di foglie, di insetti,
 questi uccelli neri e il mio silenzio,
 le mie parole che dormono sotto i battiti del mio cuore.  

Così nelle ultime pagine di “Piccolo carnet del silenzio”  dove si annuncia con le parole di Umberto Saba il tema del libro, vale a dire la decisione dell’autore di imporsi il silenzio per una settimana. Scriveva Saba: «Da quando la mia bocca è quasi muta/ amo le vite che quasi non parlano.» Ed ecco l’incipit di Sarner: «Ammutolito il 17 agosto alle 15,02/ Non ho voglia di trascrivere qui/ le ultime parole che ho potuto ascoltare da me:/ pudore, ma anche desiderio/ di custodire quelle parole nell’eco/ nel fondo di me stesso».

Sugar, la boxe, le metafore del ring

                                                                                                                                 
La boxe pantomima? Anche.
E’ vero che il paradenti
limita le conversazioni.
Pertanto, i due
uomini si dicono miliardi di cose
in silenzio. In spinte sorde,
in rantoli, parole inghiottite.
Soprattutto si scambiano frasi
 di pura geometria, figure grossolane, mai
due volte le stesse.
Il corpo parla più rapidamente dello spirito. 

Così al ventesimo capitolo di Sugar  dove il mondo del pugilato è circoscritto ai tempi dell’autore, del suo protagonista in scena, e dove si lascia trasparire il valore traslato del ring e dell’incontro come un momento epifanico dell’essere. Sarner comincia dalla sua esperienza quando si sveglia da un’operazione al naso che gli consentirà di tornare a respirare normalmente e salire sul ring. Siamo negli anni Cinquanta, a Parigi. Il testo è giustificato a destra, al contrario rispetto alla consuetudine, per mostrare spazialmente il punto di vista del  pugile sul ring, gli “angoli”, lo spazio prospettico di fronte al boxeur.  La sequenza “poematica” è divisa in 36 capitoli dove, tuttavia, Sugar Ray Robinson compare, tranne che per una citazione, solamente quando il personaggio intraprende il viaggio che lo porterà a sbarcare a Le Havre.

 Il ring è una scena dove lui mette in gioco la sua vita,
 ma gli piace ripetere che boxa al 
 ritmo del tamburo di Dio. 

Poeti e boxeurs

L’autore guarda il ring e attraverso il “quadrato” rievoca il mondo esterno che osserva i pugili, come fa Sarner nell’atto di scrivere, richiamando una postilla di Claude Monier dal libro “Ring Nero”:

Poeti e boxeurs condividono da sempre
la stessa sorte effimera, quando
un solo colpo separa il lavoro quotidiano
oscuro e spossante, nella sala boxe
o in palestra, dalla luce e dalla gloria
dei riconoscimenti dei pari. 

Jacques Darras osserva che nessuno nella letteratura francese aveva mai impegnato la poesia su un tema come questo. Una nota che sembra poter essere estesa quantomeno a tutta la letteratura europea romanza.

Cœur chronique

Il verso narrativo diviene scansione sillabica e breve nella raccolta Cœur chronique  (premio Max Jacob nel 2014),  che si apre con un’ampia citazione di Goethe  nella quale è rivendicato il valore del presente, dell’istante vivo: «L’assente è una persona ideale, mentre le persone che sono lì, presenti, sembrano piuttosto banali». Dunque, commenta Sarner «Il s’agit, dit Goethe, de se concentrer sur l’istant présent.» L’istante da cui muovono questi testi è di volta in volta un luogo, una persona, uno scorcio emozionale e infine un dizionario sefardita, una sequenza di «ottanta parole di ebraico-spagnolo trasmesse dai viaggi» e riunite nell’ultima sezione del libro col titolo Presque un chant d’errance, “Quasi un canto errante”. Tuttavia, cominciando dalla prima parte, al lettore viene incontro Expérience de l’hiver: dove il luogo («Un lieu rappelez-vous/ ce n’est pas un lieu// un mille-lieu/ un mille feuille// feuilletr le lieu») e l’istante sono la materia prima:

 Immaginate soltanto 
 qualcosa di più
 qualcosa di più testardo
 di più presente
 cronico
 qualcosa d’altro di
 quest’istante
 in cui ho scritto questo. 

Il momento è declinato con eventi fuggevoli,  con istanti presenti o passati congelati nell’immaginario o in un flash fotografico. Come in questa interrogazione: 

Le cose sono così veloci
forse non sono esistite
mio padre è stato bambino?
non so
non possiedo la foto
di mio padre bambino
bisognerebbe crearla
lui seduto su un parapetto
le ginocchia terrose
la testa inclinata
giocando con queste bestie
che improvvisamente
forse nel pericolo
si arrotolano in palle argentate
e di cui
non ha mai saputo 
il nome
ma non è mio padre in questa immagine
sono io.
  
   

«Piccoli canti di vicinanza»

In questa sezione Sarner riunisce figure di autori e artisti colti in una medesima prospettiva, vale a dire in un attimo che si apre (si evolve potremmo dire) tornando a se stesso. Ecco la figura allampanata di Samuel Beckett:

 Sul boulevard
 Beckett
 camminava
 come
 una I
 scivolando
 esile e dritto verso la chiesa
 Saint-Germain-des-Prés
 c’era qualcosa
 in lui
 di gaio
 sì di allegro
 un fremito di leggerezza
 guardavo
 passare
 un uomo
 mentre 
 viveva
 un giorno
 di
 più  

La parola isolata, il verso nel flusso ripetuto di sincopi (viene alla mente la melodia rarefatta di Chet Baker)  replica la sua magia oppure amplia il fraseggio componendo un ritmo non distante da una partitura jazz, dove la scansione, il silenzio e l’iterazione sono essenziali. Scorrono i nomi Reverdy, Pasolini, Flaiano, Coleridge, Van Velde, Montaigne, Robert Walser, Vallejo, Joseph Roth:  talvolta brevissime citazioni o ricordi da cui il pensiero e l’immagine  diramano. Nel caso di Walser una fotografia: «(…) quatorze trous dans la neige/ grands comme des pas/ montent sans vraiment arriver/ jusqu’au corps/ du/ gisant/ un chapeau sort du blanc/ à un mètre/ de sa tête/ c’est Robert Walser/ le 25 décembre 1956».

«Quasi un canto errante»

Le parole del glossario, ottanta vocaboli, procedono come per altrettante illuminazioni: sorgono dal passato familiare, attraversano l’Europa con le migrazioni e la storia, si fermano su giochi infantili, momenti magici, spiriti maligni, attributi che raccontano un carattere e risalgono ad un mito.

Ecco Deskánso, Strána, Putifero, Lunar, Márano, Eskrito. Sarner fa di ogni parola un titolo seguito dal trattino tipografico come il glossario. Per Strana, leggiamo: «Prima parola d’ una filastrocca/utile a indicare in un cerchio di bambini/quello cui tocca iniziare il gioco (…) ». Con la stessa scrittura di genere si legge Eskrito:

  lo scritto, ma anche il prescritto, il raccomandato.
 Onde lo vites eskrito, dove l’hai visto scritto?
 Idea di autorità.
  
 Kyerer ver a uno ni eskrito ni estampado,
 detestare così tanto qualcuno
 che ci si augura di non vederne né nome né immagine.
 Saggezza popolare: nota per iscritto prima di dare
 e dopo aver ricevuto,
 eskrive ante ke des
 i despwès ke tomas.
  
 Un eskrividéro
 è un fissato che passa il tempo a scrivere

Tra passato e presente, ethnos e puntualità filologica, Sarner accompagna il lettore allo straniamento, all’emozione di un attimo, come quei ragazzi di cui racconta in un altro testo che «si battono con bastoni/  di cui la punta/ era stata bruciata» perché chi è toccato porti sul viso la traccia nera, il segno prefigurante la cicatrice «di una ferita che adulto/ avrebbe potuto ricevere/ così definitiva forse/ da non lasciare/ alcuna cicatrice».

Marco Conti

Traduzioni da Sugar et autres poèmes di Marco Conti

Éric Sarner, Sugar et autres poèmes, nrf Poésie / Gallimard, 2021

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