
«Di ciò che non si può teorizzare, si deve narrare». Così scrive Umberto Eco accompagnando la prima edizione de Il nome della rosa e facendo il verso all’adagio di Wittgenstein. La proposizione è ripresa da Anna Maria Lorusso nell’introduzione al magnifico volume La filosofia di Umberto Eco con la sua autobiografia intellettuale: opera voluta dalla Library of Living Philosophers della Northwestern University dell’Illinois e, finora, la sola dedicata ad un filosofo italiano. L’idea portante di questa biblioteca è quella di pubblicare in un’unica edizione una serie di saggi specialistici accompagnati dalle risposte dell’autore e da una autobiografia intellettuale. Nella sequenza degli autori prescelti dal 1939 (da John Dewey a Karl Popper), Eco non è però il solo ad aver accompagnato la speculazione filosofica alla narrativa: compaiono nell’elenco sia Jean Paul Sartre che, l’anno dopo Eco, Julia Kristeva. Ma la divisione tra il lavoro epistemologico di Eco e la sua opera narrativa, divenuta così significativa e articolata, ha posto domande che lo scrittore ritiene per certi versi imbarazzanti.
I romanzi e la filosofia
Nel saggio autobiografico che introduce ai vari contributi disciplinari, Umberto Eco spiega di non aver «pensato» ai suoi romanzi «come dimostrazioni di alcune teorie filosofiche» e, nel merito della molteplicità di interpretazioni scaturite da quelle pagine, osserva «che a volte un testo è più intelligente del suo autore e dice cose che il suo autore non aveva pensato.»

Ma fortunatamente consegna anche una chiave di lettura, cioè il seme, da cui quelle narrazioni hanno preso l’avvio. Ne Il nome della rosa, scrive, «c’è un dibattito sul problema della verità (ma nel modo in cui questo poteva essere visto nel XIV secolo da un seguace di Ockam in crisi); ne Il pendolo di Foucault c’è una polemica contro il pensiero occultista e le varie sindromi della cospirazione; ne Il cimitero di Praga la teoria della cospirazione è di nuovo l’argomento centrale mentre provo a dimostrare la follia dell’antisemitismo; La misteriosa fiamma della regina Loana affronta problemi sulla memoria oggi studiati dalle scienze cognitive; L’isola del giorno prima si diverte a gettare uno sguardo nuovo sulle varie filosofie del periodo barocco e sul caso di un universo senza limiti nato con le scoperte della nuova astronomia; Baudolino è una riflessione implicita sulla relazione tra verità e menzogna; e infine Numero zero è un dibattito implicito sul giornalismo e la verità fattuale.»
Un mondo da progettare
Umberto Eco ribadisce quanto aveva già sottolineato in Postille al Nome della rosa. In un romanzo – sostiene – accade il contrario di quanto avviene in poesia (dove è l’espressione a determinare il contenuto): è il mondo che l’autore sceglie e gli eventi che si succedono a dettare « ritmo, stile e persino scelte verbali.» Per questo nelle sue opere narrative il primo lavoro è «quello di progettare un mondo e progettarlo nel modo più preciso possibile».
Un approccio non scontato perché altri autori hanno raccontato genesi diverse (per tutti valga la lezione di Nabokov, ovvero la giustapposizione e sviluppo progressivi di brani), ma certamente il romanzo implica un microcosmo in certo modo autonomo e con leggi, anche verbali, del tutto proprie che risulteranno alla fine altrettanti vincoli. Ciò non toglie che l’opera narrativa sia “opera aperta”. Nel 1962 Eco dedica uno dei suoi saggi più famosi alla polisemia di ogni testo artistico. Opera aperta rileva la possibilità di infinite interpretazioni diverse del testo: i casi eclatanti citati sono quelli di Stéphane Mallarmé e di Franz Kafka, ma ciò risulta vero anche per i classici antichi come lo è – rileva ancora l’autore – anche per Berio o per i mobiles di Calder.
Arte e indagine scientifica
L’indagine si spinge tuttavia ben oltre. Per lo scrittore «in ogni epoca le opere d’arte sono concepite in modo da riflettere concezioni proprie della scienza dell’epoca.» Nel Novecento di Joyce per esempio i Finnegans Wake «riflettono un universo in espansione, la relatività, il principio di indeterminazione, la geometria non euclidea, la logica a più valori, il principio di complementarietà, la psicologia delle ambiguità percettive, come certe idee della fenomenologia, da Husserl a Merleau-Ponty.»

Nel contempo Eco mette in guardia dalle semplificazioni poiché per lo scrittore dire che le possibilità interpretative dell’opera sono potenzialmente illimitate «non significa che l’interpretazione non abbia alcun oggetto.» La filosofia estetica dell’autore muove (con esiti diversi) da quella del suo insegnante ai tempi dell’università, vale a dire Luigi Pareyson, per il quale il processo interpretativo si basa sempre su di una dialettica tra l’iniziativa dell’interprete e la fedeltà al testo. In I limiti dell’interpretazione (1990), Eco avanza quello che egli stesso definisce «una sorta di criterio popperiano di falsificazione». Se non è possibile decidere quando una interpretazione è buona, e quale sia tra le tante la migliore, è sempre possibile invece riconoscere una interpretazione sbagliata.
Charles Sander Peirce e la semiologia
Lo strutturalismo aveva influenzato Umberto Eco come ogni intellettuale degli anni Sessanta, ma l’incontro con Pierce – ammette lo scrittore – segnò la fine di quella sua stagione. Dalla linguistica alle scienze umane, lo strutturalismo era divenuto nella percezione di tanti una sorta di filosofia per leggere ogni cosa. Nel libro La struttura assente, testo che fa seguito alla riflessione su Pierce, è viceversa svolta una critica delle proposizioni avanzate da Lévy-Strauss, Lacan, Deridda, Foucault. Da questo saggio nascerà il Trattato di semeiotica generale dove la speculazione si farà via via più vasta e originale.
Per Peirce la semiotica prevede l’intervento di tre soggetti: il segno, il suo oggetto e il suo interpretante dove quest’ultimo è l’esito di ciò che il segno lascia nell’interprete. Questo passaggio implica tuttavia che un segno sia interpretato da un altro segno (soggiacente nella mente). «Data la parola cane, per esempio – scrive Eco – il suo interpretante può essere qualcosa di equivalente, come quando si interpreta la parola cane mostrando l’immagine di un cane; può essere una qualsiasi risorsa indessicale diretta verso un cane; può essere una definizione ingenua o scientifica di cane; può essere la traduzione della parola in un’altra lingua e così via.» Da ciò derivò anche la critica all’idea di relazione, nei termini di Ferdinand de Saussure, tra significante e significato, intesi come semplice equivalenza.
L’enciclopedia, la rete, il rizoma

L’idea di semiotica a cui approda Eco (che è dunque tout-court nozione epistemologica di conoscenza) è infine quella dell’Enciclopedia. «L’enciclopedia – dice Eco nella sua autobiografia – è dominata dal principio peirciano di interpretazione e di conseguenza di semiosi illimitata. Ogni espressione del sistema semiotico è interpretabile da altre espressioni, e queste da altre ancora, in un processo semiotico che si autoalimenta, anche se, dal punto di vista peirciano, questa serie di interpretanti genera abitudini e quindi modalità di trasformazione del mondo naturale.» In diversi testi Eco ripropone questo concetto di Enciclopedia come un modello che assume la forma di una rete; un’immagine per alcuni aspetti analoga a quella del rizoma di Deleuze e Guattari. La metafora del rizoma servì infatti ai due autori francesi per proporre un modello di pensiero che non procede come nella tradizione filosofica in modo lineare e binario ma con relazioni in qualsiasi direzione, così come accade con l’immagine della rete. Nello stesso modo l’idea di Enciclopedia con accezioni dello stesso vocabolo storicizzate da punti di vista diversi, svolge sviluppi potenzialmente illimitati.
Le metafore, la letteratura e i falsi

«Alla luce della mia teoria dell’enciclopedia – scrive Eco – ho anche scritto molti saggi sulle metafore, fornendo un modello per giustificare sia la loro produzione che la loro interpretazione». Come Max Blak ritiene che le metafore richiedano di riorganizzare le categorie e fa rilevare che l’utilizzo creativo di una lingua costringe il filosofo a inventare una nuova organizzazione dell’enciclopedia.
Nel saggio I limiti dell’interpretazione, Eco cerca di delimitare il problema della falsificazione e quindi della verità. Se i segni sono strumenti che permettono di esprimere delle bugie, o di dire qualcosa che non corrisponde al vero, occorre avere un criterio per stabilire il vero quanto più si privilegia, come l’autore fa, il ruolo interpretativo. La speculazione intellettuale può tuttavia dire soltanto quando una interpretazione non è corretta, non essendoci, diversamente da quanto accade per il sapere scientifico, una possibilità concreta di falsificazione. Eco elabora a questo riguardo il concetto di realismo negativo. Non si tratta di una improvvisa vocazione a riconoscere l’equivalenza o l’identità tra il fenomenico e il vero; tutt’altro. E’ invece uno sviluppo dell’idea preesistente nell’Enciclopedia che concerne sia il reale, sia il testo, sussistendo entrambi in forza di un interpretante. In breve ancora una volta la narrazione sembra poter decidere, per così dire, degli oggetti narrati. Eco scrive «C’è un’infinità di possibili interpretazioni di Finnegans Wake ma nemmeno il più selvaggio decostruzionista può dire che racconta la storia di una signora francese che legge storie d’amore, commette adulterio e si avvelena.»
Marco Conti
AA. VV. La filosofia di Umberto Eco con la sua Autobiografia intellettuale ( a cura di Sara G. Beardsworth e Randall E. Auxier), edizione italiana a cura di Anna Maria Lorusso, La nave di Teseo, pp. 875; euro 29,00