Raboni, la poesia parla da lontano

Salerno Editrice pubblica un’ampia edizione critica di “Cadenza d’inganno”, libro-chiave che riunì 17 anni di vita del poeta lombardo

Parler de loin, ou bien se taire…L’invito di La Fontaine  messo in epigrafe da Giovanni Raboni alla prima raccolta di poesie, “Le case della Vetra”, non è mai stato così dissonante  rispetto alla moneta corrente del XXI secolo. Ma quella nozione formale di poesia è stata la cifra più vistosa dell’opera di Raboni e la si apprezza ancora meglio oggi, con la vasta edizione critica del suo secondo libro, in origine pubblicato nel 1975: Cadenza d’inganno, curato da Concetta di Franza per Salerno Editrice con la prefazione di Giancarlo Alfano.  Understatement che si apprezza tanto più nelle pagine di un libro composito che innesta continuamente privato e pubblico, motivazioni intime e le denunce degli anni brucianti della contestazione sessantottina: la morte dell’anarchico Pinelli, il sospetto che si allunga sulla stessa figura intellettuale e borghese di Raboni, sia da parte dell’apparato di potere, sia rispetto all’ideologia giovanile dominante nella piazza.

“Parlare di sé da lontano, oppure tacere” dunque.  Raboni aprì Cadenza d’inganno con una sezione dedicata alla memoria della madre in cui il tema della morte (che contrassegna un parte significativa di tutta l’opera dell’autore) è visitato attraverso scorci che parrebbero neutri e stranianti e dunque destinati a rendere ancora più forte il sottaciuto attraverso scene indirette. Un esempio flagrante è il testo “Amen” dove la memoria è rievocata con le immagini prosaiche degli spazi di un appartamento: «Quando sei morta stavamo/ in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio/ da vendere per pianerottoli e scale./Dunque non t’è toccato di passare/ di spalla in spalla per angoli e fessure,/ d’essere calcolata a spanne, raddrizzata/ nel senso degli stipiti/. Sparire/ era più lento e facile quando sei sparita.(…)». Il registro, l’uso di locuzioni colloquiali, concordano con la scena dimessa, così come la conclusione del testo, formalmente distante ma feroce sul dolore della morte, quando rivolgendosi alla stessa morte pronuncia: «Scendi a pianterreno/ come ti pare (…) liberaci dall’estetica e così sia».

Pubblico e privato

Concetta di Franza mette in evidenza la struttura trasversale del libro che riunisce 17 anni di vita e percorre momenti diversi. Tuttavia in diverse occasioni gli ambiti, osserva la curatrice, gli tematici convergono.  Così accade nella seconda sezione del libro,  “Economia della paura”, articolata su tre prose dove  il concetto di “economia” allude alla sorveglianza politica e contemporaneamente ai sospetti, alla complicità di due amanti durante una conversazione. Mentre il tema politico sarà vivo in un’altra intensa pagina prosastica, “Partendo da Boulevard Berthier” (che richiama un momento dei moti piazza parigini del ’68 in cui morì uno studente) ,   anche la storia amorosa sarà nuovamente voce lirica con i versi di “L’intoppo” : testo che stesso Raboni commentò in una intervista fatta dalla curatrice nel 2004 e poi pubblicata sulla rivista “Italianistica”. Il poeta definì questa parte del libro il «diario di una storia ancora in corso», vale a dire la vicenda di un amore clandestino «un po’ tumultuoso».  Ecco allora il verso più spiccato ma ugualmente pronunciato con informale disinvoltura in “Cosa”:

Mi chiedi «cosa ti piace di me, cosa

più del resto». Una volta per ridere

ho detto il cappellino. Però pensando

la schiena, le ginocchia; e al labbro di sopra che quasi

non tocca quello di sotto: e come

s’impenna liquido, scatta il tuo profilo.

Ma ancora di più la faccia che non sai d’avere

dopo aver fatto l’amore, netta per saliva e sudore,

a una calma che c’era rifiorita.

Lo stesso timbro lo si ascolta con alcuni incipit che simulano un discorso intrapreso e l’inciso dell’espressione parentetica proprio come accade nei colloqui più informali: «Dei rimproveri che mi fa (certi/ non li discuto/ ce n’è uno quando arriva che fa/ male come il freddo sulle dita)» in “Le volte”.

Non solo nell’architettura del libro ma in un medesimo testo accade che Raboni unisca storia e quotidianità attraverso la stratificazione del vissuto, come in “Notizie false e tendenziose” dove l’unica certezza è quella evocata dall’esergo di Mandel’stam, ovvero che «il potere è ripugnante come le mani di un barbiere». Da qui si direbbe provenga  la dialettica tra denuncia e puntuale complementare  percorso tra le mura domestiche, gli amori e le occasioni affettive:

Il perito settore dice che le ferite

non sono incompatibili con la meccanica di

una caduta dall’alto. Il giornale conclude

che dunque il morto si è suicidato.

La lingua referenziale del verso conta qui solo sulla sintesi ellittica (il soggetto politico è quello di Pinelli precipitato nel cortile della questura) portando all’estremo una poetica che solo negli ultimi anni avrà un deciso contraltare con “Quare tristis”, dove rivive il metro del sonetto. Una parentesi.  Poi, più estesamente  di quanto non faccia Cadenza d’inganno,  “Barlumi di storia” nel 2002 tornerà a prendere in consegna il tempo collettivo: e questa volta la voce  lirica del verso avrà la distanza del distacco. Ricordando Pasolini che parlava della bellezza dell’Italia durante il fascismo,  Raboni scriverà: «Il punto/ è che è tanto più facile/immaginare d’essere felici/ all’ombra d’un potere ripugnante/ che pensare di doverci morire.» Come non dargli ragione…

Marco Conti

Giovanni Raboni, Cadenza d’inganno (a cura di Concetta di Franza), pp. 325, Salerno Editrice, 2023; euro 42,00

 

 

Giudici, Sereni: Quei versi che restano sempre in noi

«Non lo amo il mio tempo, non lo amo». Così Vittorio Sereni nel 1965, nella poesia Il sonno. Intervistato in merito diciassette anni dopo, Sereni dirà: «La poesia, della quale ha citato un brano risale all’epoca del boom economico, non aderisce all’oggi. Comunque se mi fosse dato di cambiare qualcosa nella …

Pazzi, Un giorno senza sera

F.to Masao Yamamoto

Ventun romanzi, dieci libri di poesia. Roberto Pazzi è forse il solo scrittore italiano del secondo ‘900 che ha percorso un itinerario poetico tanto ampio e significativo quanto lo è la sua opera narrativa.  Per Pazzi non è avvenuto insomma ciò che è capitato a tanti come prometteva Rodolfo J. Wilcock per l’iniziazione letteraria: prima una raccolta di liriche, poi un romanzo, come una obbligata prassi ministeriale.

Per l’autore di Cercando l’imperatore  le cose hanno felicemente seguito partiture diverse. Lo dice del resto in maniera implicita  il carteggio  intrattenuto con Vittorio Sereni uscito due anni fa (Come nasce un poeta, Minerva), e lo spiega ora  perentoriamente l’antologia Un giorno senza sera (La nave di Teseo) che riunisce una selezione di versi che va dal 1966 al 2019.

Sotto gli auspici di Sereni

Le prime due raccolte, sotto l’ala protettiva o quantomeno con gli auspici di Sereni, fanno pensare ad una lirica imbevuta degli estri della Linea Lombarda, eppure le cose non stanno precisamente e solamente così. Alberto Bertoni, nella postfazione all’antologia, mette in evidenza «la vitalità e la specificità delle singole raccolte» e  di pari passo l’autonomia presto raggiunta da Pazzi: distante negli anni Settanta dalla cosiddetta “parola innamorata”, a quei tempi scortata da una nutrita pattuglia di autori, distante dagli sperimentalismi, ma anche – aggiungerei – dai dettati altrove tematicamente orientati sopra la poetica teorizzata di Luciano Anceschi.

Il carteggio dal 1965 al 1982, curato da Federico Migliorati, è edito da Minerva

C’era invece nelle prime due raccolte una pronuncia parallela a quella “lombarda”, dove già si leggeva appieno  l’enunciazione del tema del tempo; tema che resterà a permeare e a qualificare tutta l’opera, prima con la nominazione dialogica dei luoghi, poi con uno scarto che rivela l’autore, vale a dire un dettato allegorico intenso e asciutto.
Ma – andando con ordine – ecco un testo della prima raccolta, “Da un belvedere della val di Magra”,  che Pazzi ripropone dalle pagine di Ultime notizie e altre poesie (De Luca, 1969):

Una volta, io lo so,
qui c’è stata la gioia.
L’aria ne trema ancora.

Ancora non si è spento lo stupore
della valle
a vedersela un giorno andar via.

 

La lingua, il grado zero

Il linguaggio è quello d’uso, di grado zero si sarebbe segnalato in quegli anni citando Barthes; una lingua che ritaglia un verso spiccato, che si contagia con le locuzioni del parlato fino a diventare più composita nel libro successivo, L’esperienza anteriore,  dove la voce pronuncia un discorso che implica dialettica tra sé e sé e tra il sé e l’alterità:

la certezza che ho certi giorni
di seguire piste fatte da altri
di ricopiare pensieri non miei  – il rosso
dei gerani che va nei fiori
e diventa lucepetalo segue
canali prefissati? –
Così occhi di dietro
posso guidarmi
come quando sul marciapiede mi fermo
per allacciarmi una scarpa – ma fingo –
e lasciare passare chi seguiva.
(da “Autostrade”)

All’interno di questi testi sembra tuttavia di cogliere, oltre al disporsi di scorci quotidiani, la ricerca di parallelismi tra i luoghi e l’essere, tra lo spazio e l’esperienza esemplare. Così come in fondo sancisce la poesia appena citata, negli ultimi versi: « non ho ancora trovato / gli spilli che attaccano le parole/ a “quello che c’è dentro – » dicendoci che quegli “spilli” Pazzi li ha già trovati.

Calma di vento e Talismani

“Calma di vento”, Garzanti 1987

Partendo da questi scorci per raggiungere la maturità con Calma di vento (1987) e da qui aprendo poi le pagine di Talismani (2003), si ha l’impressione che Roberto Pazzi svolga una sorta di alchimia  passando dalle occorrenze del mondo nel tempo, alle occorrenze del tempo nel mondo: privilegiando cioè prima la fisicità, lo spazio, le contingenze che riflettono l’essere, poi lasciando protagonista della scena poetica la scansione simbolica del tempo attraverso un avvenimento evenemenziale che vive sullo sfondo come semplice contingenza. Proprio questo rovesciare la dialettica dei termini dice la personalità dell’opera, come cambiando cromatismi ma procedendo in sostanza dalla stessa radice, dall’identica motivazione.

“Talismani” , edito da Marietti nel 2003

Calma di vento  comincia a proporre questo ribaltamento. I titoli ne sono la spia: non più la circostanza vissuta, “Ferrara”, “La bicicletta”,  “Un nome nella via”, “A Emma”; piuttosto  “Astrologica”, “L’anima”, “ I nomi”, “Fine di un millennio” e più avanti, in La gravità dei corpi (1994), “Corpo mistico”, “La penna nuova”, “La mattina”, “L’amnesia”, “Il fiume”. L’idea, il sostantivo legato alla condizione dell’essere, sostituisce spesso in questo secondo tempo l’occorrenza storica, strumentale, geografica.
In una delle poesie più belle, “L’anima”, l’incipit  di registro alto («Alcune volte ho pensato all’anima»), vive allora della fortuna che gli accorda il suo correlativo oggettuale, prosaico e inatteso: ecco allora l’anima «che trattengo come la sabbia/nel risvolto dei pantaloni,/come la terra che non si stacca/dalla suola delle scarpe».

La partitura è analoga a quella di altre poesie, ma Pazzi esplicita il tema impervio e metafisico, poi lo trasla nella pianura della prosa, quasi antinomicamente sposando campi semantici opposti, le stelle e il fango. I versi successivi declinano un immaginario ammiccante, ironico, paradossale, che circolarmente riporta però il lettore al primo verso.
 
Alcune volte ho pensato all’anima
che trattengo come la sabbia
nel risvolto dei pantaloni,
come la terra che non si stacca
dalla suola delle scarpe,
come una macchia di frutta
di stagione: la fragola
non va più via, nemmeno le ciliegie,
ma la più terribile è la pesca.
Anche i cachi, le mele, le pere
facevano impazzire mia madre,
ma solo l’erba era come la pesca.
Ci si può macchiare anche di pioggia,
rimane l’ombra dell’acqua,
una piccola zona più scura.
Dei colori solo l’acqua
diventa odore di muffa:
le stagioni non lasciano odore.

Ho cercato d’immaginare
quale parte del viso porteremo,
come sarà fatta l’anima,
se avrà un naso, degli occhi, una bocca.
A che serviranno gli altri sensi,
se restano solo i colori?

Il tempo e il sonno

Nella stessa raccolta Pazzi procede con passo lieve e questa leggerezza diviene filigrana delle pagine, si fa qualche volta ironia e divertimento; più spesso circoscrive il tema del tempo ( «Per otto anni il mio orologio/ritardava un minuto e mezzo/ ogni sette giorni/» in “Il ritardo”), si fa avanti la scansione dei giorni della provincia, con i suoi cortili, le acacie, i colombi solo per assumere un’ identità definitiva poiché in quel mondo «vivere è superare un esame/, accumulare giorni bianchi,/ le prove dell’innocenza.» (“Lettera da Ferrara a un amico romano”). In questa sospensione rituale  dell’esistenza  si incunea un altro tema, l’alterità del sonno. Scomparso o assottigliato il valore mitico del luogo, l’identità sembra dislocarsi in un immaginario altrettanto esemplare, appunto il sonno, magari disabitato:

Roberto Pazzi

Senza fine e senza inizio è il sonno

La condizione opposta alla veglia può persino essere disconosciuta poiché «In nessun luogo si dorme,/ senza fine e senza inizio/ è il sonno.»… E’ un tempo autosufficiente dell’essere, un altrove dotato di una propria lingua, appena «un dialetto più povero». Viceversa, questo tempo onirico può figurare come compensazione. In “Il sonno” leggiamo:

Sciogli nel sonno qualche anno
della mia attesa di te,
riscalda le fredde stanze
a cui il sole non giungeva mai
(…)

Da Calma di vento, il tema approda a La gravità dei corpi (1998), raccolta che non a caso ha in epigrafe i versi di Shakespeare di “Misura per misura”: «Tu non hai giovinezza né vecchia, ma come un sonno pomeridiano, in cui sogni entrambe».

Tuttavia Pazzi si scansa subito da una nozione psicologica (la maturità) per avvicinare quella della dissoluzione. O almeno così pare di capire leggendo “Alle mie ombre”, dove il verso modellato sulle locuzioni del “parlato” così come si definiva nei primi libri è ormai poco frequente e la scansione, le iterazioni del dettato, danno luogo a una lettura più grave:

E’ notte, le ombre che ho amato
sono ancora vive, dormono
nei loro letti lontane.
Dormono le mie ombre
e sognando i corpi ne rinforzano
l’oblio col ricordo vago
che anch’io divengo.
Chi ho amato?
(…)

Alla luce di Roma

Il romanzo d’esordio di Roberto Pazzi (Marietti, 1985) è stato tra le opere di narrativa italiana più tradotte. La prefazione porta la firma di Giovanni Raboni

I versi di questa raccolta segnano un esito di straordinaria intensità. L’antologia ne riporta interamente la nozione. La storia lirica dell’autore e le sue voci  si leggono in trasparenza mentre si consolida una forma nuova. Penso in particolare alla poesia  “Alla luce di Roma” dove si disegna una sorta di riappropriazione del tema del viaggio in senso metafisico, in cui la mente è «lavagna sporca/ di segni non cancellati, teatro dove i sogni/ sono e non sono sfumati» e dove «questo va e vieni dagli inferi,/ della luce rinnova la fame». Certo qui si può parlare, come fa Bertoni, anche di metapoesia. Eppure il dato saliente è che il tema della scrittura partecipa a un dettato più ampio dove i rinvii al passato e alle visioni notturne si intersecano in una nuova cognizione del mondo, così come suggerisce la raccolta Talismani (2003): «Sto fra le parole e il nulla/, lavoro ad abitare la mia mente» (“La casa”); condizione dove si rifrangono quelle occorrenze del mondo nel tempo, di cui si diceva, nella circolarità del dettato. Di pari passo “Le nuvole” e “La pietra”, chiamano in causa con l’opposta percezione e sensibilità degli oggetti, la dissolvenza del vivere e del corpo più direttamente espressa con “La battaglia di Azio”:
 
Questi sono dunque gli ultimi anni,
raccontarli è quasi parlare d’un altro,
la terza persona è ormai mia,
siamo sempre stati in tre
io, l’Altro  e quel che rimane
del furto dell’io all’Altro
(…)

Tuttavia, incontrando la nozione contingente al verso successivo («l’usura che vedono in me») potremmo essere tentati di leggere in questa chiave la almeno la lirica se non l’intera raccolta. Ma vorrebbe dire non cogliere una rete intertestuale fittissima all’interno e all’esterno del libro, come suggerisce anche il titolo successivo dell’antologia,  Felicità di perdersi, del 2013.

Felicità di perdersi

In questa raccolta si scioglie ancora con versatilità il tema centrale, il tempo. Lo leggiamo tuttavia in un’occorrenza nuova che fa della vanità e circolarità dell’essere l’autentico motivo di fondo: «Oggi sono quel che potrei essere,/un foglietto bianco/ caduto per terra» (“Mutamenti”); oppure ricorrendo ancora all’allegoria, si scandisce: «Specchi dove non mi stanco/di guardarmi sono/ le stazioni di provincia» mentre si riaffaccia il tema visionario del sonno: «e mentre ruota il mondo,/ sono la sera che tu sarai/ nel letto che ti preparo».
Anche questi ultimi versi si direbbero scritti  in combutta con l’amichevole silenzio della luna di cui Roberto Pazzi parlò molti anni prima in  Calma di vento, forse con un lirismo più stringato, per quanto, proprio questa nozione di essenzialità, percorra e partecipi alla fortuna dell’opera.
 
Marco Conti

Roberto Pazzi, Un giorno senza sera. Antologia personale di poesia 1966-2019, La nave di Teseo, 2020. Euro 18,00

 

Poeti dimenticati o nascosti – 1

Giovanni Raboni, presentando nel 1988 la prima antologia dell’opera di Alda Merini (Crocetti Editore), scriveva che la poesia dell’autrice aveva sempre stentato a trovare «una collocazione adeguata nell’ambito degli studi del secondo Novecento» e accennava a quei manuali, quelle antologie che puntualmente risultano affollati di controfigure e comparse. Ora nel pubblicare …

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