Poeti dimenticati o nascosti – 1

Giovanni Raboni, presentando nel 1988 la prima antologia dell’opera di Alda Merini (Crocetti Editore), scriveva che la poesia dell’autrice aveva sempre stentato a trovare «una collocazione adeguata nell’ambito degli studi del secondo Novecento» e accennava a quei manuali, quelle antologie che puntualmente risultano affollati di controfigure e comparse.
Ora nel pubblicare un ventaglio di autori poco noti o raramente ricordati, “Le Muse Inquiete” non hanno ambizioni e non potrebbero neppure averle visto l’esiguo numero di persone a cui si rivolgono queste pagine; tuttavia una lettura di autori che pochi ricordano o che non sono mai comparsi né in libreria, né sui giornali, se non di sfuggita e per il tempo che accompagna un nuovo libro, credo sia utile. Se non lo fosse pazienza. Spero quantomeno di aver proposto qualche pagina piacevole.
Proporrò una sequenza di autori in ordine alfabetico con i dati essenziali inerenti il testo, senza alcun commento. Le pubblicazioni sul blog avverranno a distanza di qualche giorno o anche solo di 24 ore l’una dall’altra.
Buona lettura.

Shin-Bijutsukai
Adali – Mortty

Quand’ero molto piccolo,
e Joe e Fred giganti di sei anni,
mio padre, loro e io mescolammo terra
al concime del cortile.
E lì piantammo cocchi,
chiamandoli coi nomi di noi fratelli.
Le palme crebbero più in fretta di me;
e presto, prima che mi facessi uomo,
fiorendo, raggiunsero il loro scopo.
Simili agli orecchini delle mie sorelle
vennero i teneri fiori d’oro.
Le spiai crescere, da dorati a verdi,
e poi le noci grandi come la testa di Tata.
Desiderai il latte che sapevo là dentro.
Ascoltai sussurrare le foglie,
mormorare, chiacchierare, sussurrare le foglie,
quando si destavano i venti della notte.
Mi seguono ancora, nel lavoro e nel gioco:
quelle sussurranti foglie dietro la fessura
sulla capanna del sognare e divenire dell’infanzia.

G. Adali-Mortty, “Foglie di palma dell’infanzia“, trad. Vanna Gentili,) da Letteratura Negra. I poeti, (Ghana), a cura di Mario de Andrade, Editori Riuniti, 1961.

C.W. Aigner

Il tralcio di vite sopra
le strie di nubi bussa
da ore alla finestra
 
La pioggia fili d’argento
appesi
Una falena si alza
e cade si alza e cade
 
Pensa a me
adesso aprirò
pensa a me con sentimento
 

Christoph Wilhelm Aigner, “Lettera”, trad. R. Novello, In Seminare sguardi, Poesia n. 114, Crocetti, 1998.

Masao Yamamoto
Lorenzo Calogero

Tu parli e il tempo vola
dentro le mie mani.
 
Scendono da lontananze
le taciturne ombre dei boschi
e risplendono tuoni
da lontani traguardi.
 
E quelle che apparivano essere appassite chiome
velano le nuvole danzanti nel sole
e i lontani richiami.
Lorenzo Calogero, “Tu parli”, da Ma questo, Lerici, 1966

Evaporò nella mano

Evaporò nella mano
quanto ella sapeva.
Era un attimo infermo
e non so più come il sonno verde amaro
che da una lagrima si versa
s’inumidì di sogno. Dal letargo
una luna trasse a riva
una linea d’una vita.
Lorenzo Calogero, da “Evaporò in una mano”
in Ma questo, Opere poetiche, Lerici Editori, 1966

Shin-Bijutsukai
Plenilunio

Lo spazio concavo era
Una meravigliosa uccelliera,
dove a un nido, ad un bacio ignorato
fluivano meravigliosi i fiumi,

di cui vedevamo la meraviglia da lungi
nel nostro silenzio ch’era fame.

Lorenzo Calogero, da “Ma questo, Lerici, 1966

Persiane verdi

I baci, le persiane verdi,
verdi alberi modesti, verdi mobili intorno
sulle piagge dell’orto.
Trepido è un disegno sui tetti.
Una corolla scivola su persone morte.
Sapevi quanto intatto, leggiadro un desiderio,
era colpo di un sogno dischiuso,
sogno chiuso leggero di una morte.
 
Lorenzo Calogero, “I baci, le persiane verdi”, in Opere poetiche, II, Lerici, 1966

Bartolo Cattafi

Domani apriremo l’arancia
il mondo arancia nel verde domani,
si poserà la nuvola lontana
con le zampe guardinghe di colomba
sopra il tetto di tegole vecchie
sopra il tempo piovuto rugginoso,
serberò al tuo petto quell’odore
d’arancia viva, di verde domani.

Bartolo Cattafi, “Domani”, in Poesie scelte, Mondadori, 1978

Gabriel Celaya

A volte quando mi perdo,
sento una cosa rara. Diciamo: la bellezza.
Bellezza? Parola vana.
Diciamo, non la bellezza, diciamo l’indifferenza
con cui si ammette tutto.
Diciamo, l’accettazione che rende tutto bello.
Diciamo come il riso si confonde col singhiozzo.
Diciamo come il piccolo e il grande sono alla pari
e come quelle onde che rompendosi non fanno rumore.
No è l’amore. E’ la pace
imparziale del ritmo del mondo:
la dolce luce del nulla.

Gabriel Celaya, Il Neutro,  trad. M. Conti, da Itinerario poetico, Catedra, 1982

Emanuel Carnevali

Il vento è uno stallone
selvaggio e splendido.
Il vento è un cavaliere
che cavalca sul dorso di una nuvola.
Il vento è uno sciocco
a far l’amore con gli alberi infedeli
che non lo ricambiano,
perché vorrebbe piegarli mentre loro
stendono le braccia al cielo.

***
Fumo

Tutto il fumo delle sigarette dei sognatori salì al cielo
e formò quella volta azzurra che si vede lassù.

Emanuel Carnevali (1897-1942), “Il vento è uno stallone” da Castelli sulla terra; “Fumo” da Neuriade in Il primo dio, Adelphi, 1978, trad. dall’americano di M.P. Carnevali.

John Constable
Corrado Bianchetto Songia

Parole vane, gesti, vino
e rose andati  amale. Al dito
l’anello si stringe, tu
che ti stringi sempre di più
nelle spalle…Ma sono lame
le ali che nascondi, so
che in un giorno sfavillante
d’ira tele vedrò
spiegate, per spiccare.
 
Corrado Bianchetto Songia, “Parole vane, gesti, vino”, da Esercizi d’astinenza, Firenze Libri, 1999

Sono tra le righe delle mie minute
– in corpo zero, in margine –
le cose che non ti ho mai
detto, quelle che di me non sai. Fra le tue
scapole, alate di preghiera
come una lunga cicatrice…
 
Corrado Bianchetto Songia, “Sono tra le righe delle mie minute”, da La chiave a scheletro, a cura di M. Conti, Firenze Libri, 200

Abiti quella chiaria laggiù
nel verde acceso dei temporali
tra le ultime case e l’orizzonte
piatto della serra.
 
Da qui, da questa
collina brucata dal vento
e dalle nuvole – da me
 
a te – una distanza :
un anno di luce nel tempo
e nello spazio. Un buco
 
nero di lettere
mai spedite, mai
neppure scritte.

Corrado Bianchetto Songia, “Abiti quella chiaria laggiù“, da La chiave a scheletro, Mef, Firenze libri, 2007

Jòzef Czechowicz

inquietudine dal fuoco
cascata biancogrigia
i capelli arruffati di mia madre
quando li pettina sono divisi a metà
la tristezza irrompe dalla finestra
finire di sognare finire di dormire
giungere alle cattedrali con l’ultimo
giro di ruote
come fondo di un mosaico la mano
screpolata sul manico di una pala
può essere la mia un crimine
e un bel dono
janek joanna anna
bisbiglia lo stelo autunnale
come mai negli occhi umidi
quella rossa brace
così mi ha marcato il segno
andando a fondo vedo nell’abisso
vedo chi i miei giorni sgrossa
dal dolore e dalle cifre
non risolveranno niente
colonne ardenti in fila
si stendono
c’è la falce
soffierà un forte vento
Jòzef Czechowicz, “niente di più“, trad. P. Statuti, da Poesia, N 324, 2017, Crocetti Editore.







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