
Nel 1956, una bambina di otto anni che scriveva lettere e poesie di sorprendente maturità e creatività letteraria, diventò in Francia un caso su cui scrissero vari autori, critici, giornali. La bambina si chiamava Minou Drouet, era nata nel 1947 a Rennes, era stata adottata, era quasi cieca ed era stata avviata agli studi musicali, in particolare al pianoforte. Fu una insegnante del Conservatorio che spedì le lettere di Minou all’editore Julliard, lo stesso editore che aveva appena pubblicato il libro di Françoise Sagan, Bonjour Tristesse, destinato in breve tempo a diventare un successo internazionale. In Italia il libro di poesie della giovanissima autrice (Albero amico…) venne pubblicato da Mondadori nella sua collana più prestigiosa, “I poeti dello specchio”.
Il gran scalpore che seguì a queste pubblicazioni, dove la natura stessa della poesia veniva interpellata, riguardò sia il mondo colto che popolare. La Drouet scrisse poi libri per l’infanzia, un romanzo e nei primi anni Sessanta si esibì al piano con Segovia, con Aznavour e diversi cantanti celebri. Dal 1993, dopo aver scritto la prosa autobiografica “La mia verità”, Minou Druet non ha più una vita pubblica.
Vero o falso?

La ragione per cui ne parlo è che la storia della scrittrice-bambina chiama in causa le idee che vissero, vivono e convivono con quella della poesia. Di pari passo quelle idee – che non riguardavano soltanto la precocità – vennero vagliate da Roland Barthes e oggi ci coinvolgono ancora benché sotto una luce a tratti diversa.
Negli anni Cinquanta si metteva in dubbio che Minou fosse la vera autrice di quei versi. Si disse che glieli avesse scritti la madre adottiva, si fecero perizie calligrafiche, si sottopose la bambina ad una serie di esami nei quali la piccola era chiamata a inventare delle poesie su temi prefissati. Si approntò insomma una specie di inchiesta poliziesca. Il risultato? Niente è mai stato certo.
Roland Barthes, ne parla in alcune straordinarie pagine di “Miti d’oggi” (in originale Mythologies). In merito alle curiosità, alle domande che si fecero sulla autenticità – concluse più o meno quanto segue: non si può dire se i versi sottoposti all’analisi sono di una bambina se non so cos’è l’infanzia e se non so cos’è la poesia.
Barthes aggiunge che abbiamo dell’infanzia, come della poesia, una idea “normata”, cioè codificata. E dal momento che le cose stanno così, allora anche il caso Druet si fonda sulla verosimiglianza. Si parte con un’idea, con un postulato, e poi si vede se l’oggetto in questione gli somiglia.
Il comun denominatore della poesia

I ragionamenti fatti a quell’epoca per i testi della bambina sono quelli che si trovano, enunciati o impliciti, anche oggi nel discorso comune sulla poesia. Se l’infanzia è la poesia poiché l’infanzia è immaginazione, allora Minou può essere poeta. La poesia nasce dunque per partenogenesi. Scrive Barthes: «Ma innocente o adulta che si dichiari la poesia di Minou (cioè che la si lodi o la si sospetti), significa in ogni modo riconoscerla fondata su una profonda alterità posta dalla natura stessa fra l’età infantile e l’età matura, significa postulare il bambino come un essere asociale, o per lo meno capace di operare spontaneamente su di sé la propria critica e di vietarsi l’uso delle parole sentite al solo fine di manifestarsi pienamente come bambino ideale: credere al genio poetico dell’infanzia, credere a una sorta di partenogenesi letteraria, porre una volta di più la letteratura come un dono degli dèi. Ogni traccia di “cultura” è così messa in conto alla finzione (…)»
Una postilla

Il ragionamento implicito che Barthes mette allo scoperto è esatto ma naturalmente non esaurisce il tema. La poesia è anche codice letterario, cioè acquisizione colta ed è contemporaneamente codice culturale storico ed etnico. Nel mondo finlandese e in Provenza, intorno all’XII secolo, si scriveva e ascoltava lirica ma con modalità diverse. La Kalevala non assomiglia in nulla al Trobar e al Trobar Clus e nessuno dei due, tranne che per l’uso di alcuni parallelismi retorici (dalle omofonie alla metafora), assomiglia allo Dhvani indiano in uso già nel IX secolo.
Tuttavia anche questo aspetto, storico e strutturale, che si contrappone o perlomeno completa l’idea di poesia inattingibile e donata come il fuoco nei miti, non dice molto di più sulla natura della poesia.
Il mito del Genio

Nel suo La letteratura secondo Minou Drouet, Barthes passa ad esaminare un altro aspetto: «C’è in primo luogo il mito del genio, del quale ormai non si può più decisamente venire a capo. I classici avevano decretato che era questione di pazienza. Oggi, il genio è guadagnar tempo, fare a otto anni quello che normalmente si fa a venticinque». Il tempo, la velocità, l’economia del risparmio e del consumo che vi è implicata era già sotto-tema in quell’epoca, ma mantenendo le sue promesse è oggi divenuto addirittura una icona della Religione del Prodotto Lordo. Barthes non poteva sospettarne l’energia centrifuga, questo continuo ossessivo tambureggiare del Tempo nel XXI secolo.
Rimbaud
Ecco allora che il caso di Minou Drouet ha almeno un luogo in cui le due opposte tesi possono toccarsi: sia che la poesia sia inattingibile, sia che la poesia sia talento culturale, la bambina ha anticipato il Tempo e in ciò è una ipostasi minore di Rimbaud. «Ciò illustra assai bene – argomenta il semiologo – la nozione prettamente borghese di enfant-prodige (Mozart, Rimbaud, Roberto Benzi); oggetto mirabile nella misura in cui adempie alla funzione ideale di ogni attività capitalistica: guadagnar tempo, ridurre la durata umana a un problema numerativo d’istanti preziosi.»
Le ‘Trovate‘


Secondo Barthes i commentatori del caso, sui giornali, si trovano però d’accordo su almeno una cosa: che la Poesia sia «ininterrotto seguito di trovate, il nome semplice della metafora», che la poesia non sia più «un atto totale, determinato con lentezza e pazienza attraverso tutta una serie di tempi morti» ma «accumulazione di estasi, di applausi, di salve, rivolti alla riuscita acrobazia verbale: ancora una volta la quantità fonda il valore». Barthes si sofferma allora sulla poesia moderna poiché dubita che esista un’essenza della poesia esterna alla Storia, e prendendo in prestito Apollinaire, come modello di riferimento, scrive che bellezza e verità della poesia «derivano da una profonda dialettica tra la vita e la morte del linguaggio, tra lo spessore della parola e la noia della sintassi».
L’epoca del nouveau roman

Ai tempi di Barthes questa non è un’idea nuova, per quanto continui ad avere l’impatto di ciò che si oppone alla codificazione normata, alla tradizione. Louis Aragon aveva scritto che la poesia è continuo rinnovamento del linguaggio. Barthes ritiene che con l’idea del genio e dell’infanzia si addomestichi l’idea del disordine; il prodigio tranquillizza la normalità. La letteratura autentica, comincia però solo di fronte all’innominabile, davanti a un «altrove estraneo allo stesso linguaggio che cerca». Nel 1957, quando esce Miti d’oggi, la letteratura cerca effettivamente altrove: ci sono sulla scena francese narratori come Beckett e Leiris, ci sono gli autori nati dal ventre del Surrealismo come il poeta René Char, e sono compagni di strada tanto Claude Simon quanto Robbe-Grillet e Butor. In definitiva Barthes enuncia un concetto che trova referenti reali e altrettanti ne trova andando a ritroso: da Dante a Rabelais a Baudelaire.
Una strana coppia: Leggibilità e Banalità

Oggi probabilmente Barthes si sentirebbe (mi fa piacere pensarlo) di aggiungere altro. Direbbe che anche la reinvenzione della lingua, anche l’innominabile, quando diventa norma è da tenere in grande sospetto. Un po’ come le idee del genio e della fanciullezza negli anni Cinquanta.
Forse, davanti ai laboratori alchemici e asettici di molta poesia contemporanea francese e italiana, egli non potrebbe che richiamare una vecchia idea di Schelling per cui la poesia è sintesi di natura e tecnica, di immaginario e tradizione.
D’altro canto guardando il profondo abisso della narrativa europea del XXI secolo, confermerebbe tutto. Il semiologo che commentava con ironia le glorie del premio Goncourt, troverebbe che nel complesso l’opera narrativa del XXI secolo assomiglia sempre più ai canoni prefissati dal Mercato. L’imperativo della Leggibilità che prende a braccetto la Banalità è una coppia sempre più diffusa e doppiamente titolata dalle grandi case editrici. Leggibilità e Banalità se ne vanno in giro felici per le sperticate lodi che trovano ad ogni angolo, ad ogni muro dove l’affissione è possibile e ugualmente risibile.
A proposito di successi facili, chissà se anche il Robin Williams dell’Attimo Fuggente salirebbe oggi sui banchi per stracciare, pagina per pagina, non solo il vetusto manuale di letteratura, ma anche qualche romanzo, qualche raccolta di poesia presi a caso dalle vetrine.
Marco Conti
Vorrei ringraziare l’autore di questo bel saggio, ma non mi è chiaro chi sia. Forse per mia imperizia. Posso chiedere un aiuto? Comunque, grazie per aver pubblicato questo testo.
Grazie per la sua attenzione. Questa è una pagina internet personale benché siano talvolta selezionati testi autoriali di altri; anche in questo caso l’autore è quindi Marco Conti che riprende e commenta il testo di Roland Barthes. Ma poiché la sua domanda è condivisa da altre persone…ecco l’articolo firmato!