Il romanzo dell’editoria italiana

Gian Arturo Ferrari, ex direttore dei Libri Mondadori, si racconta narrando l’itinerario degli editori: da Treves e Sonzogno alle grandi concentrazioni di oggi

Quante sigle editoriali possiede Mondadori? Quante il Gruppo Mauri Spagnol? Le grandi concentrazioni accompagnano il XXI secolo in gran parte dell’Occidente e sollecitano altre domande sul ruolo dell’editoria, da sempre divisa tra Mammona e la cultura.  Di questa dicotomia parla Gian Arturo Ferrari nel suo Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio, 2022), un corposo saggio scritto con agilità ma soprattutto con la competenza di chi nell’editoria è vissuto e ne ha a lungo osservato le due anime l’una contra l’altra armata. Ferrari, docente universitario di storia del pensiero scientifico prima di diventare direttore della saggistica di Mondadori, poi  direttore della Rizzoli, quindi direttore dell’intera divisione Libri del colosso mondadoriano,  racconta la passione di una vita attraverso un itinerario finora inedito. Inedito non solo perché dall’Unità d’Italia arriva a questi giorni, ma perché l’autore diviene narratore della propria esperienza in momenti cruciali di trasformazione.

Si comincia con una retrospezione: Treves e Sonzogno ai tempi dell’ Unità d’Italia. Treves figlio del rabbino di Trieste, Sonzogno «erede scapigliato di una dinastia di tipografi-librai-editori» fin dal Settecento. Entrambi colti (e giornalisti free lance si direbbe oggi) hanno in comune un tratto che diventerà caratteristico dell’editoria italiana: la contiguità tra giornali e libri. Treves fonda nel 1875 l’archetipo della rivista, L’Illustrazione italiana; Sonzogno diventa editore de Il secolo e di una decina di testate; Treves è un monarchico moderato, Sonzogno un democratico radicale. Il primo cerca soprattutto la qualità letteraria, l’altro punta sulle collane popolari e ospita sui suoi giornali i romanzi a puntate. Sembra di vedere lo specchio deformato dell’editoria del dopoguerra con ruoli rovesciati: da un canto i conservatori (Mondadori e Rizzoli), dall’altro Einaudi e Laterza impegnati nella cultura più alta e di sinistra. Ma questo lo aggiungiamo noi. Ferrari, con maggiore precisione, si limita a osservare che Treves si trasformerà da editore di libri a editore di autori (nel suo catalogo ci sono Fosca di Tarchetti, Senso di Camillo Boito, Verga con I Malavoglia e nel 1886 il primo best-seller italiano, Cuore di De Amicis; nel 1889  Il piacere di D’Annunzio); Sonzogno avvicina il popolo alla letteratura con libri di avventura, romanzi condensati e strappalacrime. Ma resta con ciò il vero propulsore democratico perché, come ricorda Ferrari, i votanti in quello scorcio di secolo  rappresentano il 2% della popolazione, donne escluse, e quello che legge è approssimativamente il 5%.

Arnoldo Mondadori e i successi di D’Annunzio

La parabola mondadoriana comincia negli anni Dieci. Arnoldo Mondadori è uno stampatore con sedi a Ostiglia, Verona, Roma, Mantova e con l’arrivo della guerra inizia a capitalizzare grazie  agli ordinativi dei ministeri: una valanga di giornaletti propagandistici, di stampati e moduli e poi libri per le scuole e l’infanzia. In breve, nel 1919 Arnoldo fonda la sua casa editrice, acquisisce l’opera di un romanziere di successo oggi sconosciuto, Virgilio Brocchi, e gli affida la sua prima collana di narrativa “Le Grazie” dove compariranno Alfredo Panzini, Marino Moretti, Corrado Govoni, ma anche i meno fortunati Michele Saponaro, Guelfo Cirinini, Guido Milanesi e Antonio Beltramelli. I successi veri arrivano solo qualche anno più tardi con Ada Negri e Trilussa prima, poi con D’Annunzio che l’editore vuole nella sua squadra per acquistare il prestigio che non ha. La casa editrice resterà a cavallo delle due  forze opposte, denaro e cultura, anche negli anni a venire per quanto alcuni autori importanti come il Fitzgerald del “Grande Gatsby” finisca in collane da edicola. Leggendo Ferrari si ha intanto nozione di quanto un singolo autore o, più spesso ancora, un singolo best-seller, diventino discriminanti per l’intera attività. E’ il caso di Via col vento, titolo fortunato scelto tra altri 17 nel pensatoio mondadoriano. Tra questi “Rapito dal turbine” e “Vento d’uragano”.

Rizzoli, stampatore dei ritratti del Re e del Duce

L’editore destinato a competere a lungo con Mondadori è Angelo Rizzoli che negli anni Trenta è il miglior stampatore della penisola. Tocca a lui mettere sotto i torchi i ritratti del Re e del Duce. Un affare non di poco conto visto che le immagini sono destinate a ornare le pareti di tutte le scuole e di tutti gli edifici pubblici. Ma già alla fine degli anni Venti, Rizzoli (come Mondadori  di umili origini e istruzione formale che si ferma alle elementari) si era aggiudicato la stampa dell’Enciclopedia italiana di scienze, lettere e arti in 36 volumi. Opera che comportò l’acquisizione di capitali nuovi, ovvero di soci: Giovanni Treccani, industriale tessile e fondatore dell’enciclopedia, Ettore Bocconi che fonderà l’università omonima insieme a Senatore (di nome e di fatto) Borletti.  Fatta l’operazione, Rizzoli liquidò i soci e restò unico proprietario. In questo stesso periodo l’editore va disegnando però un impero fondato soprattutto sui giornali. Acquista le riviste che furono di Sonzogno e  Novella (da Mondadori): un periodico che all’epoca pubblica racconti e vende settemila copie al mese. Rizzoli lo trasforma in un settimanale dedicato alle donne: ed ecco dal cappello a cilindro uscire centoventimila copie di tiratura.  Rizzoli  (siamo ancora negli anni Trenta) editerà anche il settimanale inventato da Leo Longanesi, Omnibus, dove collaborano narratori come Bacchelli e Soldati, poeti come Montale, Vittorini, Flaiano; infine viene creata una collana di opere in cui figureranno i nomi di Dino Buzzati (con Il deserto dei tartari) e tra gli altri autori destinati a rimanere, di Elsa Morante.

 

Einaudi, ovvero il profilo alto dell’editoria

Se si esclude Laterza, rinvigorita di idealismo crociano, il paesaggio culturale italiano non ha un editore di saggistica. Ci pensa, ad appena ventun anni, nel 1933, Giulio Einaudi che ottiene i capitali da un banchiere, Luigi Della Torre, da Nello Rosselli (antifascista già scappato in Francia), da un professore e senatore del Regno, Francesco Ruffini, che non ha prestato il giuramento fascista, e dal padre, Luigi, docente di economia e già senatore. Le origini del marchio, in questo caso, faranno la differenza. Tanto più che due anni dopo il “cervello” della Einaudi deve fare i conti con la repressione ideologica fascista: Mila, Pavese, Bobbio, vengono arrestati insieme a Giulio e con loro Vittorio Foa, Franco Antonicelli, Carlo Levi, Luigi Salvatorelli, mentre Leone Ginzburg, già in carcere, morirà in quegli anni torturato dai nazisti. Il confino a cui sono destinati Cesare Pavese e Carlo Levi si trasformerà in seguito in due opere letterarie: Il carcere e, con larghissimo successo di vendite, Cristo si è fermato a Eboli.

La fine della guerra sancisce quindi anche le migliori credenziali democratiche alla casa editrice, tanto più che Giulio Einaudi fu per un breve periodo partigiano garibaldino ad Aosta. D’altro canto la produzione einaudiana non ha rivali in fatto di qualità. Alberto Moravia, ricorda Gian Arturo Ferrari, commenterà lapidario: «Bisogna riconoscere che Einaudi è l’unico editore che non ha mai pubblicato un libro per far soldi.»  Nel dopoguerra, con il successo di Carlo Levi, delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci e della saggistica, arrivano anche i libri di Pavese, di Italo Calvino (Le fiabe Italiane nei Millenni sono del 1956),  di Natalia Ginzburg a cominciare da Lessico familiare, e quelli della collana “I coralli” fondata da Pavese con le opere di Hemingway, Mann, Fitzgerald, Sartre, e dove esordiscono Arbasino e Bassani. Poi è la volta della traduzione della Recherche proustiana, di Brecht, di Musil, del teatro di De Filippo, mentre Vittorini mette in fila esordienti come Lalla Romano, Ottiero Ottieri, Mario Rigoni Stern, Carlo Cassola, e infine, su altro versante, Jorge Luis Borges.

Ma al netto delle polemiche posteriori (ne fui testimone personale presentando Giulio Einaudi negli anni ’90), polemiche  che volevano ridurre il ruolo della casa editrice in considerazione dell’orientamento marxista, vale la pena di chiarire, come recensisce lo stesso Ferrari che, Einaudi, fu il primo editore italiano a tradurre e a valorizzare la storiografia delle Annales, un nuovo modo di fare storia. Un contributo di enorme valore che rompe un modello di pensiero. Basti pensare che uno dei consulenti Einaudi, Delio Cantimori, storico insigne, aveva dato parere negativo alla pubblicazione di Braudel. La storia all’epoca si faceva sostanzialmente dal punto di vista della politica e delle istituzioni. La storiografia della vita materiale, delle classi subordinate in relazione all’economia, alla cultura antropologica era off-limits. Viceversa furono i Braudel, i Bloch, i Le Roy Ladurie, a cambiare la percezione del mondo.  La collana PBE (e la NUE, sul versante letterario-filosofico), servì anche a questo.

Marco Conti

(1- Continua)

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