Giovanni Ibello, Amin e gli specchi del mito

In un paesaggio eterogeneo come quello della poesia contemporanea, Giovanni Ibello scrive con  I dialoghi di Amin un libro che  si ritaglia uno spazio proprio, lirico quanto possono essere lirici gli slanci nel corpo variegato del mito. In ognuna delle quattro parti in cui è divisa questa partitura, i versi  sono uno specchio che riflette gli altri e dove il tempo non è quello secolare a cui ci ha abituati il secondo Novecento. Nell’introduzione Milo De Angelis parla degli archetipi a cui rinviano queste pagine, e certo di archetipi si può parlare in ordine a una natura copiosa e trascendente e ad un dialogo che talvolta sembra forgiato con la conoscenza  del mito.
L’esergo del poeta siriano Adonis è eloquente: «L’universo tutt’uno con me/le mie palpebre chiudono le sue/ l’Universo alla mia libertà fuso/chi di noi due ha partorito l’altro?».  Nel libro corre tra le pagine l’appartenenza orfica che stabilisce prima d’ogni altra cosa, con le parole di  Elémire Zolla, «la metamorfosi del poeta stesso», da presenza storica a spirito libero.

Lo specchio del mito

Se questo è lo sfondo su cui Ibello crea la sua tela, i versi mostrano una linea diegetica, un racconto, in cui la soggettività è pronunciata  attraverso lo specchio di Amin («Io sono Amin,/ colui che restò nel noncanto») e sembra via via avviarsi all’insussistenza. Palpebra, appunto, che chiude palpebra. Del resto il concetto non si potrebbe ribadire meglio di quanto fanno i versi di Ibello: «Dio, gheriglio di stella/ insegnaci a svanire/ poco a poco/ insegnaci il dialogo amoroso/ tra i picchi delle braci e l’arpionata notte.» La metafora di Ibello sostiene una visione. Se i «picchi di brace» ci immergono insospettabilmente  nel cuore della forza tellurica, altrove  l’immaginario disegna «l’assillo di aranceti» dentro il  «perimetro di un grido»  e l’alba, che sorprende Amin in ciò che è «ignota rovina». La parola sembra scandita con una pronuncia sapienziale e del dettato sapienziale ha la densità che porge l’allegoria in tutta la sua ambiguità. Ecco i primi versi di  “Io non torno più”, il  testo che apre la seconda sezione:

Ricavo dai roghi autunnali

un altare di gemme,

è il menhir dell’esiliata luna.

Io sono Giovanni

e non ho mai chiesto di essere amato.

L’amore stringe nel seno

la sorte del tuono:

frantumare il vetro dell’esistenza.

Sembra di cogliere nella voce dell’autore, nel suo io lirico ma trascendente anziché empirico,  una censura rispetto alla mondanità  mentre le fisionomie dell’immaginario acquistano una valenza assoluta: «Mai nessuno/ ci ha chiesto di essere vivi»  scrive in “E’ Questo il destino dei corpi”.

Luce cariata dall’avvenire

Nell’ultima parte del libro il tempo sorgivo dell’alba si fa ossimoro, notte portentosa, splendore del disastro e infine messaggio, soffio poetico:

Morte all’incanto,

alba di macellazione.

Un vitellino soffia alla luna:

sei tu l’hiroshima dello splendore.

Sei tu la mia regina assira,

l’ambasciata del vento,

la poesia che mi farà sole.

Per una analoga ragione, la mondanità a un tratto viene citata con il profilo evenemenziale di Maradona: «C’era l’immagine di Maradona/ sopra un muro di cemento/ ma l’arco degli occhi era sporcato/ da brandelli di manifesti mortuari». La colpa originaria, orfica si potrebbe aggiungere, per insistere sulle radici del mito, è  in certo modo ribadita nell’ultima esergo della quarta parte sotto il titolo “Luce cariata dall’avvenire”: «Scrivere è ammettere la colpa.»

Marco Conti

Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin, pp. 72; Crocetti Editore, 2022; euro, 11,00

 

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