Simic: due fette di pane su un piatto crepato

Non ha mai avuto nome

e neanche ricordo come l’ho trovata.

Me la portavo in tasca

come un bottone perduto

ma non era un bottone.

Basta questo incipit per entrare nella magia dei versi di Charles Simic. Serbo di origine, emigrato negli Stati Uniti adolescente, è scomparso lo scorso 9 gennaio a Dover. Aveva 84 anni. Le sue liriche coniugavano la prosa della quotidianità con le ombre e le sensazioni di una visione metafisica. Qualcuno, presentandone l’opera tempo fa, scrisse che le sue pagine migliori ricordavano la pittura di Edward Hopper. Una felice intuizione. Anche in Simic i paesaggi urbani, gli interni di appartamenti in cui si staglia, giorno e notte, un profilo solitario, dipinto con esattezza essenziale, scandiscono la sua lirica.

Charles Simic.  L’esordio poetico avvenne con “What the grass says” (1967). “Selected poems 1963-2003” è attualmente l’antologia più completa uscita negli Stati Uniti. In Italia è stato editato da Adelphi: “Hotel Insonnia”, “Club midnight”, “Il mostro ma il suo labirinto” sono i suoi libri più noti

Per definire la qualità dei suoi  paesaggi in versi, la critica ha parlato di minimalismo. Definizione giunta con una certa tempestività poiché i libri di poesia di Simic cominciarono a farsi conoscere nel mondo anglosassone proprio negli anni Ottanta,  insieme ai racconti di Raymond Carver.  Ma nei testi di Simic, in realtà, agisce un altro filtro lirico: quello del tempo, degli straniamenti onirici che si accompagnano con l’esperienza quotidiana. Per questo è facile entrare nei versi e nell’immaginario dell’autore, dove un’analogia, uno scatto  improvviso, cambia, come una pennellata più intensa, l’atmosfera della lirica.

Hotel Insonnia

«Ogni giorno – scrive in Hotel Insonnia – dimentico com’è. / Guardo il fumo salire/ a grandi passi sopra la città./ A nessuno appartengo.// Poi mi ricordo delle scarpe, / come calzarle, / come curvarmi per allacciarle/ e scrutare la terra.»

Andrea Molesini, il curatore e traduttore di Hotel Insonnia (Adelphi, 2002)  osserva nella postfazione che Simic è un maestro della sprezzatura, della lirica breve.  E parlando dei temi in filigrana al  libro, aggiunge: «l’insonnia è la malattia che lo ha reso poeta della solitudine, della visione estrema, della crepa che apre improvvisi spifferi metafisici». Da qui dirama anche il sorriso ironico che gli fa dire, nello stesso libro: «Alberi, miei cari, non vi riconosco/ più in questa luce invernale. Siete un promemoria di cui farei a meno:/  il mondo è vecchio, è sempre stato vecchio,/ e nel pomeriggio non c’è niente di nuovo. Il giardino potrebbe essere stato la finestra con lucchetto/ in quel banco dei pegni di cui studiavo/ ogni oggetto ricoperto di polvere.»

La pronuncia asciutta, il registro della lingua apparentemente così vicino alla prosa e alieno all’apparenza da ogni ricerca letteraria, hanno ottenuto il plauso di critica e pubblico. Dal canto suo Simic diceva che la ricetta usata era quella di fare piatti gustosi con gli ingredienti più semplici: «Soccorrere il banale è l’ambizione di ogni poeta lirico.» Ma il rischio della banalità non l’ha mai neppure sfiorato. Le immagini dei versi trattengono il silenzio, si fanno scudo delle apparenze, vivono di domande non fatte. E qualche volta di ironie davvero inarrivabili. Come in questa breve chiosa, tra le tante del suo taccuino: «Il cameriere si chiamava Bartleby – o così avrebbe dovuto. Mi servì due fette di pane carbonizzato sopra un piatto crepato».

m.c.

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