Moscè e la cartografia dell’anima

Alessandro Moscè, ormai uno dei marchigiani più conosciuti e talentuosi specie per la sua non comune versatilità letteraria (è poeta e narratore, ma ha scritto anche pagine di critica impegnativa sulla contemporaneità) con la raccolta in versi La vestaglia del padre edita da Aragno, nel 2019, ascolta “lievemente” il genitore che non c’è più, dando voce all’assenza e rendendo la morte, dunque il tempo scandito cronologicamente, un perimetro scavalcabile.

L’assenza

A chi conosce di persona Moscè non sarà sfuggito che il soggetto testuale, quasi come un taccuino di viaggio tra l’infanzia e l’oggi, si nutre di aneddoti, episodi estrapolati nel repertorio sentimentale, specie inerente la famiglia. L’elaborazione del lutto avviene nel tentativo di ridestare il nulla e il freddo provocati dalla mancanza, il vuoto pneumatico nelle stanze spoglie, articolando i versi, quasi per esorcizzare il malessere, nei movimenti paterni tra le città degli anni Settanta e Ottanta: Ancona e Fabriano, ma anche Roma, dove il genitore ha lavorato per un lungo periodo. Porto Recanati è il luogo delle estati trascorse in riva all’Adriatico e del divertimento in una percezione mai straniata, ma suggellata dalla ritualità infantile.

Un racconto nel racconto

L’autore si muove frantumando le riflessioni, puntando la luce su piccoli gesti, date precise, annate, natali, elevando l’interiorità di un soliloquio, il ricordo allungato nel legame ambivalente tra la sua esistenza e quella del padre (“Una volta, una volta sola / dovrebbe aprirsi l’accesso di una cantina sotto le scale / in quel passaggio che assomiglia alle uscite di sicurezza / dove darsi la mano, guardarsi tre, quattro secondi / e salutarsi con gli occhi arrossati. / Oppure comporre un numero telefonico, / sentire un fruscio di correnti, un buongiorno / e nient’altro”). L’aspetto determinante di questa raccolta ci sembra l’esercizio metaletterario di chi scrive seguendo una linea lirico-narrativa, scomponendola in un racconto nel racconto. Infatti Alessandro Moscè narra sotto forma poetica (non prosastica) nello spazio del reale con una volontà certamente comunicativa, tanto che il suo trasporto emotivo arriva subito al lettore in un deposito di sovrasenso.

Cartografia

 Il discorso poetico è la cartografia di un’anima che insieme al padre porta con sé i nonni e gli zii, le case, gli oggetti, i cibi, gli odori, il vedere e il sentire in una testimonianza scandita da eventi domestici, fitta di occasioni, specie nella seconda sezione (“Sei seduto sullo sdraio di Porto Recanati, forse, / e alzerai le braccia per salutare e ringraziare / chi è venuto a pregare il seme dell’eternità”). La poesia vera è fatta di parole, di materia, di dolore autentico, di ricordi, di follia, di amore, e di immagini sfuggenti, ha puntualizzato Roberto Cotroneo nell’introduzione a La vestaglia del padre. Moscè non esibisce la parola, ma sembra abitarla con il suo stesso corpo, catalizzando la consapevolezza della finitudine umana con uno sgomento che fa parte della propria identità, che non rinuncia, ancora una volta, alla comunione tra i vivi e i morti che tanto ricorda i versi di Vittorio Sereni e Giorgio Caproni.  Colpisce anche la sezione riservata ad una breve degenza ospedaliera, in cui lo sguardo fotografico di Moscè ferma istantanee su medici, infermieri e pazienti, così come la sosta, nell’ultima parte del libro, in un ex manicomio umbro, dove i degenti “aleggiano” nella veste di fantasmi notturni in una struttura abbandonata e ridotta a rudere.

«Re e imperatori di curve festose»

Ma anche in questo caso siamo dinanzi alla proiezione di un riflesso dove i morti conferiscono allegorie e tracce sparse, rimandi a qualcosa che non si è dissipato del tutto. Come non è andato perso l’amore per il calcio, che Alessandro Moscè paragona al basso epico di Jorge Borges. Il padre gli ha trasmesso una passione che incarna, simbolicamente, la lotta per la sopravvivenza come ogni forma di sport agonistico in cui qualcuno prevale sull’altro. E nel calcio viene ritrovata la figura mitica del campione preferito, il centravanti della Lazio del 1974 Giorgio Chinaglia, che fu protagonista di uno straordinario romanzo del 2012, Il talento della malattia (Avagliano), specchio riflesso e fedele di un’esperienza drammatica che Moscè, con la parola della verità, ha offerto al pubblico (“Cerca lui, il nostro amico fratello, il nostro amuleto di granito, / Giorgio Chinaglia, e digli che non è mai morto, / che è stato affidato alla penombra di cuori che battono nel mito. / Digli che facesse ancora un goal di sfondamento, / che ci rendesse felici, re e imperatore di curve festose / adesso, tutti insieme e in un domani senza calendari / nella meravigliosa infanzia, imprendibile gioia”).

Saverio Spadavecchia

Alessandro Moscè, La vestaglia del padre, Aragno, 2019, euro 12,00

Due Poesie dalla raccolta “La vestaglia del padre”

 Ancora un sogno nella fiamma del tramonto,
 in piedi che mi rimbocchi le coperte del letto sfatto
 e mi sussurri il risultato del posticipo della Lazio
 all’orecchio teso per la voce roca.
 Ti lamenti della squadra che ha la difesa debole
 e da viandante di un altro tempo
 non puoi dirmi dove vai dietro il sipario,
 qual è il punto d’arrivo.
 Ma vedi tutto, con decimi decimi negli occhi
 e una cartella sotto braccio,
 i tuoi appunti, la patente, l’agenda,
 i centesimi per il caffè e la pasta dolce
 mentre chiami l’ascensore e non chiudi la porta… 
 *
Tempo fuori programma
  
 La luce è opaca sotto i quadri ad olio 
 dove si consuma lo spazio imbevuto
 della famiglia con la coperta a scacchi sulle gambe
 e un album di fotografie, macchie seppiate
 da rovistare nei cassetti di casa.
 Esiste il tempo accucciato, fuori programma,
 dei cuscini che nessuno tocca e dei telecomandi fermi
 sui lividi della tovaglia e di un mondo
 di anni ghiacciati nella normalità
 tagliata dalla fine, dal tuo nascondimento.
 E’ scontato dire: “Dove sei papà?”,
 se il nipote spaurito non può salutarti più
 e se ne va inciampando sulle sue stesse parole 


Alessandro Moscè

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali 2008), Hotel della notte (Aragno 2013, Premio San Tommaso D’Aquino), la plaquette in e-book Finché l’alba non rischiara le ringhiere (Laboratori Poesia 2017) e La vestaglia del padre (Aragno 2019). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico.

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