metto la mano
sull’orizzonte
lo tocco
con desiderio
sto ridendo mentre piango
sto arrivando quando vado via
sulle scale
ho decretato
che per adesso
rimango qua
scrivo i miei poemi
su biglietti di parcheggio
il tubo con nebbia
si è rotto sulla città
gli alberi
stanno parcheggiati
con cura
sulle strade strette
le panchine
si sono ritirate
all’ombra
mentre ti stai girando
da tutte le parti
i documenti d’identità
dei morti
«E’ una attualità perenne quella che segna i versi di Eliza Macadan. Un’attualità – scrivevo nella prefazione ai versi italiani della poetessa romena raccolti col titolo Paradiso Riassunto (silloge edita da Joker nel 2012) – dove il futuro è una promessa di ripetizione senza orizzonte e dove il passato è impercepibile. Il mondo lirico di Eliza Macadan procede da queste nozioni. Il presente, il gesto e le cose colte nella loro fattualità sono l’ossatura di Paradiso Riassunto, non meno dell’intonazione ironica o scabra che s’innerva in questi versi fin dal titolo. Un’intonazione che attraversa la coscienza europea rispetto a uno scenario subìto e falsificato, messo in definitiva ai ferri corti dalla storia».

Il cane borghese
Nel 2013 esce Il cane borghese (edito da La vita felice) dove la soggettività ha voce più estesa e il paesaggio confini più vicini al poeta. Una poesia dice:
la casa del sonno
ha persiane rosse
sempre chiuse
tra me e l’infanzia
non scendo mai le scale
al cavallino di legno sta fiorendo la coda
la sua zazzera è alata
e sta vegliando dalla collina
la casa del sonno
è in fiamme
Altrove si disegna un crocevia, un punto d’incontro tra il mondo personale e le valenze necessariamente impersonali, quelle in cui la parola rinvia a un’altra rappresentazione di scenari più ampi e collettivi:
leggo di fronte
scrivo sul retro
poesia quotidiana
senz’orizzonte
sto frugando nella luna piena
nell’abbaio dei cani
dopo previsioni
a breve termine
non posso tergere
le tracce di pioggia
attraverso il parabrezza
E’ ancora nei tre versi finali, come nell’incipit, una voce ironica quella che scrive attraverso una sorta di sineddoche che dal parabrezza porta all’esterno, dalla contingenza meteorica alla sua valenza figurativa estensibile alla contemporaneità. Di pari passo i versi di un altro testo (cuore della notte) mostrano come un nucleo emotivo diventi scena lirica e lo diventi più precisamente attraverso uno scambio di figure: il sentimento di precarietà che si oggettiva nella passeggiata con l’animale mentre le fattezze dell’oggetto poetico restano incerte e reversibili.
nel cuore della notte
porto la morte a fare un giro
sul sedile di dietro
la tiro fuori dal fianco dei letti
dove stanno sdraiati giovani corpi
la rincorro sulle scale
per affiatarsi
la spedisco in pianura
per lasciarla fuggire impazzita
a pranzo sul marciapiede
la morte passeggia con il cane
davanti alla nipote del nonno.
Elio Grasso, nella prefazione alla raccolta, parla di poesie dove «convivono diverse lunghezze d’onda» agganciate al nostro passato, e cita a questo proposito Sereni e Menicanti. Propenderei per la seconda, stante la discorsività estesa del primo, almeno dopo Diario d’Algeria, ma è indubbio che qui come in Sereni vive anche «la messa a fuoco di due sopravvivenze, quella della poesia e dello scrittore che scova ciò che il cielo lancia addosso all’umanità (…)».
Anestesia delle nevi

Due anni dopo compare Anestesia delle nevi (La vita Felice, 2015). Qui Eliza Macadan, con un’ellisse del discorso lirico appena più pronunciata, evoca uno scenario di metropoli deprivato, ridotto al suo scheletro: potrebbe essere la Bucarest di oggi, ma anche Milano, oppure una sacca metropolitana di Parigi, la Gare du Nord evocata da Céline o, ancora, un luogo di provincia appena toccato dal mostro della globalizzazione, un Moloch che ha braccia sufficientemente feroci per unire stazioni e chiese nella stessa aura di annullamento di senso, di significato, di valore:
chi non ha vecchi con sé
esca a mendicare
dal palmo della mano
cadono sogni
raggirano la fame
la vita scorre nelle stazioni
come alle porte delle chiese
domenica
prima che Dio arrivi
con l’espresso delle otto
*
una zingara
indovina
il mio amore legalizzato
un passante
mi mostra
le sue zanne di fame
spacco la vetrina
di un negozio di animali
rubo un guinzaglio
per metterlo
al favorito alla presidenza
«Ogni sequenza – scrive Amedeo Anelli presentando il volume – è plurima e stipata di oggetti, aperti su più lati e prospettive. E’ una poesia di moto, un “andante con moto” inesorabile come il fluire dei tempi in un gorgo». E anche in questo caso l’ironia si sposa al rifiuto, fa propria la contemporaneità attraverso nodi associativi che la definiscono: le zanne di fame dunque l’animalità per raggiungere il domestico, il quotidiano urbano, ovvero il guinzaglio e la sua antitesi istituzionale e storica, la presidenza, in una parola il potere.
Si può vedere in questa lirica un unico disegno allegorico, come accade altrove tra le pagine della raccolta e come accadrà spesso in Passi Passati (ancora Joker, nel 2016)

Pioggia lontano
La raccolta successiva Pioggia Lontano (Archinto, 2017) riunisce le due estremità del metronomo lirico passando dalla soggettività al tempo collettivo, dal desiderio negato alla negazione di ogni possibile slancio. Il discorso si consolida legato ad un registro ironico, ad un lessico d’uso dialogico, a un ritmo irregolare che si disegna anch’esso su di un parlato ellittico (come nella prima raccolta qui convocata) nel quale l’immagine metaforica illumina ogni sequenza.
Piovono
pezzi di pianeta morto
un secolo fa
una metafora della fine del mondo
mi tormenta anche nel sonno
un poeta fissa lo schermo
dal quale si versano notizie di catastrofi naturali
nell’aria i treni disegnano
le loro ferrovie
per portare i passeggeri in cielo
c’è qualcosa che non nella gravità
La commistione di basso e alto, di prosaico e lirico è un dato insito in gran parte di questo itinerario e lo è anche quando la stessa lirica, la sua gravità liberatoria, diventa oggetto del discorso. Questa dialettica si rivela ugualmente attraverso la frequenza del verbo cadere e altri verbi assimilabili per significato: “cadono parole definitive” scrive Macadan nel testo appena sopra riportato; “cadono uccelli dal cielo” scrive nella poesia successiva; “cadono sogni” dice in chi non ha vecchi con sé; “occulte mani (…) lasciano cadere/ i veli di zaffiro” scandisce il verso di una leggenda giapponese. Le figurazioni della pioggia appartengono in definitiva a questo stesso immaginario, tanto personale quanto autentico e raro, come è rara l’assunzione diretta della storia contemporanea nella poesia italiana.
Trascorsa la stagione sperimentale, archiviate le poetiche di alcuni autori nati in quell’alveo o negli immediati dintorni (da Roversi a D’Elia a Di Ruscio) e senza voler chiamare in causa con la mia locuzione sopradetta Vittorio Sereni, la poesia di Eliza Macadan – autrice moldava di nazionalità romena ma poliglotta – ha talvolta sorpreso le patrie lettere per l’urgenza dei suoi temi e dei suoi modi. Dal finestrino di un convoglio partito da Bucarest, tutto sommato, il mondo si può vedere meglio.
Marco Conti
