
Spaesato come un bambino, cinico come un vecchio, irruente e gentile, ma soprattutto compulsivo, rapido in ogni cosa, nei modi, nel pensiero. Persino come lavapiatti,nella Little Italy di New York, Emanuel Carnevali impressionò gli amici per la velocità con cui svolgeva il lavoro davanti a una pila di stoviglie che toccava il soffitto. Tra i suoi amici c’era il poeta William Carlos Williams che più tardi, nella sua autobiografia, parlando del libro di Carnevali, A Hurried Man(“Un uomo che ha fretta”), annoterà: «A ragione, si intitolava così». Un carattere che sembra essere passato, come un fluido, dalla vita alla pagina letteraria.
La corsa del desiderio
Leggendo i suoi versi o le sue prose, si ha spesso la sensazione che la rapidità tracimi insieme ad un dettato nervoso e straordinariamente energico.
E’ forse la stessa velocità che Calvino, nelle “ Lezioni americane”, definisce come «la corsa del desiderio verso un oggetto che non esiste». Da noi Carnevali e la sua furia poetica vennero invece scoperti lentissimamente, più o meno trentasei anni dopo la morte dell’autore (avvenuta nel 1942), con l’antologia “Il primo Dio” pubblicata da Adephi.
Nella vita di Emanuel Carnevali nulla avvenne con cadenze regolari e la malattia che lo colpì a Chicago, nel 1922, quando aveva appena intravisto il successo letterario come redattore della rivista Poetry, gli conquistò,sfortunatamente, la ragione di tanta fretta.
La vita
Era nato a Firenze nel 1897 da un famiglia della piccola borghesia. Suo padre, un impiegato troppo intransigente, è descritto dal poeta come il «più ignobile degli uomini» poiché addebita alla violenza paterna un tentativo di suicidio della madre, al contrario amatissima da Emanuel, ma morfinomane dopo una malattia. Di fatto la famiglia si sciolse. Quando Emanuel aveva sette anni, la mamma e la zia lo portarono con loro emigrando dalla Toscana nel Biellese. Per alcuni anni vissero tutti insieme a Cossato grazie al lavoro della zia. Eppure, anche qui, si abbatte l’ala nera della sventura e, come in un feuilleton di dubbio gusto, entrambe le sorelle si ammalarono e morirono a distanza di poco tempo l’una dall’altra. La prima adolescenza trascorsa in alcuni collegi pagati dal padre non migliorò i rapporti tra i due.
Sedicenne Emanuel si imbarcò con il fratello, Augusto, per New York. E’ il 1918 quando Carnevali vede dal ponte della nave le spiagge del New Jersey, «sparse tra le colline, punteggiate di casette simili a giocattoli giapponesi».
Black Poet
Ma Emanuel non è l’immigrato tradizionale. E’ quello che Williams chiameràblack poet, è un ribelle, un maudit che in cima alle sue preferenze letterarie mette le poesie di Rimbaud, il Zarathustra di Nietzsche, le visioni libertarie di Whitman. Così, quando tornerà indietro con la memoria per scrivere le pagine del “Primo Dio”, ripensando al giorno in cui dalla nave vide spuntare le casette del New Jersey, aggiunge: «Dall’altro lato si poteva ammirare la statua della Libertà, se si aveva lo stomaco per farlo». I funzionari che salgono a bordo della nave chiedono come sempre agli emigranti se sono mai stati in prigione. Carnevali non se lo dimenticherà: «Questa, dunque era New York. Questa era la città di cui avevamo tanto sognato e questi erano i favolosi grattacieli. Provai una delle più grandi delusioni della mia vita infelice».
Il rimpatrio
Appena quattro anni dopo, gli amici scrittori saranno costretti a fare una colletta per rimpatriarlo. Carnevali si è ammalato di encefalite letargica, ha sintomi parkinsoniani e sarà obbligato a passare il resto della sua vita in ospedale, a Bazzano, poi in una clinica che gli è pagata dall’editore e scrittore Robert McAlmon ed infine in un altro nosocomio neuropsichiatrico, a Bologna, dove muore nel 1942 soffocato da un boccone di pane. In clinica Carnevali corrisponde con Pound (che non gli rimprovera la stroncatura subita dal poeta italiano anni prima) e con Carlo Linati che già nel 1925 si è occupato di lui e che ne tradurrà per primo, in italiano, i versi e alcune pagine di prosa. Ma soprattutto continuerà a scrivere in inglese, poesie, racconti e la sua autobiografia.
L’opera

Un’opera densa e originale, già tutta annunciata agli esordi e nelle letture americane.
Nelle note critiche l’anglista Linati osserva che con le sue poesie, i suoi racconti, Carnevali è capace di ricavare la bellezza dagli aspetti più squallidi del quotidiano. Un giudizio forse sopra le righe ma il tratto che meglio delinea l’opera – insieme a quella che Ezra Pound indicò come fury – è forse la compresenza del bello e del grottesco, del desiderio e della vacuità.
La fury del poeta è in fondo quella di una rabbia che ricava la sua linfa per contrappasso fluendo da un temperamento lirico. Il tratto intimistico, il timbro di sensualità esibita che deve qualcosa a Jules Laforgue, si sviluppa puntualmente nel disincanto :
«Sei
così povera di baci,
che ne sei così avara?»
E ancora:
«Faccio la mia serenata
battendo con il pugno chiuso
su un gong e un tamburo.
Ciò che voglio è darti
il suono di ciò che è un uomo»,
scrive in Serenade nel luglio del 1919. E’ lo stesso sguardo che, come sul ponte della nave in attracco a New York, si sposta dalle «casette simili a giocattoli giapponesi» alla irridente statua della Libertà, alla delusione dell’accoglienza. La franchezza di un pensiero che nulla vuole cancellare di ciò che è stato vissuto emotivamente, percorre ugualmente le pagine meno inquiete dell’infanzia.
Cossato

Tra queste il suo soggiorno a Cossato che acquista una scrittura mitografica nel ritmo nervoso e iperbolico della sua pagina. Cossato è per Carnevali il luogo della vita spensierata; descrive la bellezza di quella campagna, le incursioni tra i frutteti, cita e mette subito in disparte uno squallido incontro. Comincia con il parlare di Biella dove la zia aveva trovato lavoro come caporeparto in una fabbrica tessile.
Nei vent’anni di malattia successivi al ritorno in Italia, anche la poesia accentua questi elementi tranchants. Da Rimbaud ha imparato la sentenza tagliente, l’immagine grottesca e ficcante: «L’amore è una miniera nascosta nelle montagne della nostra vecchiezza», scrive in unadelle sue prime poesie.
Sherwood Anderson
Sherwood Anderson, che frequentò Carnevali poco prima che abbandonasse Chicago e la rivista Poetry, racconta nelle sue memorie i giorni in cui nuotavano spesso insieme in un lago: «Ci allontanavamo parecchio dalla riva, nuotando, finché io non mi spaventavo e tornavo indietro, mentre lui avanzava ancora verso il largo, finché pensavo che fosse veramente scomparso nell’ignoto – nella morte». Bracciata dopo bracciata nel buio denso dell’acqua: forse verso ciò che non esiste, come scrisse Calvino a proposito del desiderio della velocità e che si adatterebbe altrettanto bene ad una fuga. Ma in fondo non sono la stessa cosa?