
L’inganno supremo è volere molto. Lo diceva Arthur Schopenhauer a dispetto dell’età in cui scriveva quelle note, oggi raccolte negli scritti giovanili compresi tra il 1804 e il 1818. Il velo di Maja della storia negli ultimi cent’anni si è viceversa intestardito sul concetto contrario: il desiderio, sempre rinnovabile e mai saziabile, è diventato così la stella polare e la porta girevole dell’inganno. Sempre accogliente, sempre insufficiente. Tanto nelle cose che si possono acquistare, quanto in quelle indefettibilmente intellettuali come l’arte e la letteratura. Il che ci porta subito alle pagine di Sutra d’Occidente, di Roberto Bertoldo (Mimesis) dove la riflessione filosofica convive con il lampo dell’aforisma e dove il disincanto sul mondo è totale e senza remissione. Disincanto che tuttavia preme spesso sugli oggetti della storia recente come lo è la nozione di successo e sui concetti culturali più storicizzati che, al contrario, sembrano impilati dal primo ventennio del XXI secolo nel negozio delle anticaglie. Per esempio i concetti di autenticità e bellezza.
Sutra
Sutra, spiega la seconda di copertina, è titolo scelto per richiamare luna forma breve adatta a rappresentare l’essenziale tipica dell’India antica. E Bertoldo in questa emergenza sa essere più che convincente giocando sulla propria scelta e sulla saggezza popolare di casa nostra: «L’aforisma è un bel gioco perché dura poco.»
Gli ambiti precipui toccati dalla raccolta sono quelli della filosofia morale, della letteratura in relazione alla sua ricezione storica, del costume sociale e politico. Non poco anche perché se da un canto lo scrittore si preoccupa di rimuovere le pregiudiziali del proprio tempo e della faciloneria che gli è sottesa, dall’altro, innerva le riflessioni col distacco dell’umorismo: «Solo lontano dalle Sirene il canto di Ulisse non ha interferenze.» Al centro di questo percorso non c’è tuttavia il “mondo” o la mondanità in senso kierkegaardiano, piuttosto la condizione umana o – ancora più precisamente – con riferimento all’esistenzialismo, la condizione dell’uomo «gettato nel mondo» e un atteggiamento che da questa posizione rigetta l’enfasi delle forme culturali e sociali, il carosello di certezze che rifulge sopra il già citato “Velo” dell’allegoria schopenhaueriana.
Letteratura, arte, espressione
Per quanto l’autore proceda senza suddividere i temi, una lettura artificiosa come quella che propongo, consente di avvicinarci al pensiero di Bertoldo. A cominciare da questa frecciata all’ecumenismo obbligatorio: «Se l’arte perde il suo elitarismo perde, altresì, la sua potenzialità eversiva.» Nessuno oggi si sognerebbe di censurare Henry Miller o l’Ulisse joyciano come è stato fatto, ma ciò non è avvenuto solo e unicamente perché il primo promuoveva implicitamente un’idea promiscua della sessualità e il secondo un mondo subliminale ugualmente promiscuo. La premessa implicita era che la letteratura costituisse un paradigma dello spirito occidentale, non la sua estenuazione nella quotidianità trasgressiva. Si potrebbe certo discutere questa interpretazione, ma è un fatto che solo il sottinteso di liberalità e tolleranza sia congruo all’estensione del profitto senza fine. Il che a sua volta rinvia alla condivisione globale, sia per l’opera di genio, sia normalmente per quella mediocre, popolare, ovvia. Il discrimine diviene allora il numero anziché la qualità.
Le opere lodate
«Le opere lodate di una generazione sono la brutta copia, la copia semplificata, delle grandi opere denigrate o misconosciute della generazione precedente. La vera letteratura è quella sommersa.»
«Se uno scrittore è famoso i suoi errori sono considerati scelte estetiche, se non è famoso le sue scelte estetiche sono considerate errori.»
«A costruire gli scrittori sono gli editori e coloro che li assecondano: uffici stampa, critici da quotidiano, pubblicitari, librai, giurati. Sono soprattutto una costruzione finanziaria, gli scrittori famosi.»
A sostenere questa visione è una concezione severa e necessariamente elitaria (ma non classista) della letteratura, del resto ampiamente verificabile nella storia; idea che oggi parrebbe sostituita da quella di un discreto professionismo, già implicito in arte nel Rinascimento.
Altrove Bertoldo, poeta, narratore e saggista, annota: «Rileggersi in saggistica significa correggere e aggiungere, in narrativa togliere, in poesia buttare.» Il che parrebbe un consiglio condiviso, oltre che una prassi, per quanto mai sufficientemente praticato.
Morale e società
Il binomio di filosofia morale e società è più complesso. L’aforisma illumina senza discorrere, sentenzia senza assiomi. Così il campo delle espressioni si fa vasto. Nei Sutra d’Occidente troviamo l’acuta nota psicologica e morale («Uno scrittore non potrà mai usare la scrittura per le proprie faccende più intime e segrete, come un seduttore non potrà mai usare le donne per essere se stesso.»), e la chiosa che tocca l’antropologia del proprio tempo osservando il valore intrinsecamente politico del nucleo familiare e della sua, attuale disgregazione: «(…) la solidità familiare è un ostacolo alla pianificazione economica del capitalismo, il quale ottiene, con l’istituzionalizzazione del single, l’allargamento del mercato». La vena di humor che percorre altrove queste pagine non è meno arguta. «La prova del nove della presenza di una nuova dittatura è il risveglio dei delatori», scrive l’autore pensando forse alle ultime cronache della seconda Repubblica.
Vale per ogni pagina del libro un setaccio impostato all’etica e al discorso con il proprio tempo sfavillante di cliché ma, viceversa, rugoso per le numerose e vaste piaghe nascoste…Spesso neppure bene. Come si evince da questo postulato rovesciamento di ruolo e valori: «Qui da noi i diritti (dei lavoratori) li chiamano privilegi e i privilegi (dei parlamentari), li chiamano diritti.». Una boutade? Neppure in potenza se appena leggiamo la nota politica sul meridiano liberista di oggi. Ma questo, semmai, sarà un altro libro.
Marco Conti
Roberto Bertoldo, Sutra d’Occidente, pp. 239, Mimesis/Sisifo, 2022; euro 16,00