E’ raro trovare nelle opere degli autori italiani degli ultimi vent’anni il romanzo che interpella direttamente un tema, lo circoscrive, e rischia continuamente la tesi. Sia pure attraverso la ricchezza di una contraddizione o di una domanda senza risposta. Il romanzo di Fabio Bacà, Nova, è però uno di questi.
Il prologo della narrazione preleva dalla cronaca un episodio cruciale: nel maggio del 2013 Adam Kabobo, un ghanese, uccide tre persone con un piccone rubato in un cantiere lungo le strade di Milano. Ma se in quelle stesse ore qualcuno, minacciato dallo psicopatico, avesse segnalato la circostanza alla polizia, il bilancio non sarebbe stato così grave. «Non è sorprendente? Una coppia di tranquilli cittadini sfugge alle lusinghe potenzialmente fatali di un evidente squilibrato, ma nessuno dei due spende mezzo minuto per una telefonata alla polizia.» La voce narrativa non intende con questo approcciare il tema dell’indifferenza, del cinismo, dell’insensibilità. Al contrario sostiene «che per tutti noi la violenza è un fatto emotivamente alieno.»
L’incidente
Con questa premessa Fabio Bacà riflette la vicenda del suo protagonista, Davide, un neurochirurgo che conduce un’esistenza tranquilla, borghese fino al midollo, insieme alla moglie, Barbara, logopedista e vegana, e un figlio adolescente appassionato di astronomia. La narrazione, ampiamente ed eccessivamente descrittiva, procede senza soprassalti fin tanto che il medico non diviene spettatore di un episodio di idiozia belluina nel ristorante dove si appresta a pranzare con la famiglia. Un ubriaco molesta pesantemente la moglie di Davide mentre quest’ultimo si affaccia all’ingresso del ristorante tra la folla di clienti. Davide non ha la prontezza e il coraggio di intervenire. Lo fa invece uno sconosciuto che mette in un angolo l’aggressore impedendogli qualsiasi mossa e minacciandolo. Il medico è sconvolto, ma soprattutto si vergogna della propria inettitudine e vigliaccheria. Proprio per questo, quando casualmente intravede l’uomo che ha difeso la sua famiglia, lo segue in auto per poterlo ringraziare. Non ci riuscirà. Sarà invece lo sconosciuto, Diego, a riaffacciarsi e a divenire amico e guida di Davide.
Due personaggi complementari
I due personaggi, Davide e Diego, sono così l’uno di fronte all’altro (alla maniera in cui procede il romanzo a tesi; si pensi ad altra latitudine storica e filosofica ad Hermann Hesse con il suo lirico Narciso e Boccadoro) per completarsi o, sotto un altro profilo, per rispondere alla stessa domanda sulla violenza insita nell’uomo e nella società e sulla risposta che appare più accettabile per l’uomo di cultura. Diego nonostante la sua fisionomia tagliata con l’accetta, nonostante l’esordio minaccioso nel ristorante, è un monaco zen. La sua storia, o meglio la retrospezione del personaggio circoscritta in un unico capitolo, è forse uno dei momenti migliori del romanzo. Davide, pur continuando la sua routine, diviene in breve un allievo del monaco zen che lo accompagna in un percorso dove la riflessione, la forma fisica, la capacità oppositiva di fronte al mondo, sono tutt’uno. La violenza è tema interpellato allora da un Kōan, vale a dire un paradosso o meglio una aporia irrisolvibile, che costituisce il banco di prova e la meditazione del protagonista per cui l’aggressività è e non è risolutiva generando altra violenza e intridendo il mondo di se stessa.
Sotto il profilo narrativo il lettore percepisce la svolta di Davide ma lo fa attraverso la reattività violenta alla violenza, dunque con un adeguamento puramente psicologico. La narrazione si sposta a questo punto tra gli “sguardi” di Davide e Barbara e del figlio Tommaso fino a un apice di violenza conclusiva, il metaforico passaggio di una nova, ovvero di una stella che improvvisamente accresce la sua luminosità facendo deflagrare quanto la circonda prima di tornare alle sue condizioni normali.
La lingua, lo stile
Il romanzo di Bacà (esordito con Benevolenza cosmica) segna, come accennavo all’inizio, una apertura diversa e interessante della narrativa italiana. La lingua che lo scrittore usa, come la stella a cui si allude nel titolo, troppo spesso fa però deflagrare la scena che vorrebbe rendere sensibile. Diversamente da quanto si è scritto, la lingua di Bacà non è propriamente aulica, non è solenne, ma di una eloquenza barocca e ricercata. Ecco come descrive i tratti somatici del volto di Diego: «Aveva i capelli rasati, e gli occhi scuri erano inseriti in un viso concepito come un trionfo ecumenico di trigonometria – isosceli naso e mento, scalena l’attaccatura dei capelli, acuta la sporgenza delle orbite» (pag. 46). Un bussolotto è così traslato: «All’apice della scalinata una porta circolare orbitava pigra su se stessa: da quando lavorava a Campo di Marte, Davide non aveva mai visto interrompersi la sua torpida rivoluzione » (pag. 29). Più articolata nel percorso immaginativo esorbitante di aggettivazione metaforica e non, la descrizione di una periferia suburbana degradata: «Era apparsa una corta stradina: più in là, lo sfondo inaspettato di una larga radura ondulata, in mezzo alla quale c’era un boschetto attraversato dalla timida lucentezza del Serchio. Le colline all’orizzonte sembravano sbalzate dal bulino di un incisore» (pp. 120-121).
Può essere che a fronte del linguaggio di molta narrativa contemporanea volgente ad una trascuratezza che più nulla ha a che fare con le neutre di Barthes, il florilegio di aggettivazione risulti un contraltare tonico. Ma qui l’espressionismo dei Gadda non ha cittadinanza. Meglio sarebbe un colpo di lima, semmai due.
Marco Conti
Fabio Bacà, Nova, pp 279, Adelphi, 2021; euro 19,00
