«Non torno in Irlanda dalla morte di mia madre nel ’50 e spero di non tornarci mai. Sono proprietario di due locali su un’altura remota, oltre Meux, a una trentina di miglia da Parigi e in futuro spero di vivere per lo più lì, a guardare l’erba che cerca di crescere tra i sassi e a polverizzare la graziosa senape selvatica con il Weedon. Tout un programme. Riscrivimi presto e dimmi cosa posso mandarti. I miei saluti carissimi a Irene. Con l’affetto di sempre Sam».

Così Samuel Beckett conclude la lettera a George Reavey, suo primo editore e poeta irlandese. E’ il maggio 1953. Beckett si è appena trasferito da Parigi nella bianca casetta di Ussy-Sur-Marne dove vivrà fino al 1989 con la moglie. Non si direbbe, leggendo la corrispondenza del periodo, che Beckett abbia la consapevolezza di vivere il suo annus mirabilis. Ma è così. Non solo è l’anno di Aspettando Godot, che lo mette in luce da Parigi a Berlino a New York, ma è l’epoca in cui le sue opere precedenti in francese, Malone muore e Molloy trovano nuovi lettori e nuove versioni dopo gli stralci di entrambe pubblicati da “Transition Fifty” nel 1950.
Aria nuova
Il secondo volume delle Lettere (1941-1956) mostra in modo lampante come proprio il 1953 sia l’anno in cui si profila sulla scena letteraria francese un’aria nuova, con nuovi orizzonti espressivi, quelli che saranno poi riuniti sotto l’etichetta dell’ École du regard. La corrispondenza di questo secondo volume delle Lettere di Beckett documenta la contemporaneità di queste prospettive ma anche l’interesse che sta convergendo verso i testi dello scrittore irlandese. Scrivendo a Jérôme Lindon (Édition de Minuit), il 18 maggio 1953, Beckett mette in guardia l’editore rispetto alle proposte di adattamento cinematografico per Aspettando Godot e, nella stessa lettera, dice di dare «una bella stretta di mano» a Alain Robbe-Grillet per il suo Les gommes pubblicato da Lindon lo stesso anno. Il giorno dopo Beckett scrive a Rosica Colin per la messa in scena della sua pièce a Londra e annota che «le mie poche traduzioni di Francis Ponge sono insoddisfacenti», per dirle che non vuole vengano pubblicate. Due giorni dopo L’innominabile è in vetrina. A fine mese si parla dei diritti per “Godot” acquistati da un’agenzia teatrale olandese e il 25 luglio cerca di dare qualche informazione supplementare al regista tedesco della pièce.
En attendant Godot

Carlhein Caspari, regista di En attendant Godot, scrive infatti all’autore cercando di evitare interpretazioni fuorvianti dell’opera. Beckett è lapidario: «Mi è molto difficile dare spiegazioni sul mio lavoro. E non voglio influenzare la sua messa in scena. Non cercherò quindi di approfondire, come meriterebbero, le questioni che lei solleva.» Ma nello stesso tempo lo scrittore spiega che la pièce non comprende (se non a sua insaputa) elementi espressionisti e neppure simbolisti. Viceversa avvicina Caspari al carattere originale dell’opera escludendo qualsiasi scorciatoia culturale, e basando le sue indicazioni sull’ immaginario interno alla commedia: « Si tratta innanzitutto e soprattutto di qualcosa che succede, quasi una routine, e sono questa quotidianità e questa materialità che, secondo me, è importante far risaltare.» E ancora: «I personaggi sono essere viventi, a malapena, se si vuole, non sono emblemi. Mi rendo perfettamente conto del suo disagio davanti alla loro scarsa caratterizzazione. Ma la esorterei a vedervi non l’esito di un tentativo di astrazione, cosa di cui sono poco capace, quanto il rifiuto di attenuare tutto ciò che al contempo di amorfo e di complesso c’è in loro.» Infine: «Il tempo che ristagna, che salta intere vite, lo spazio impercorribile come la capocchia di uno spillo, sono forse i veri falsi dèi della pièce, se è proprio necessario che ce ne siano.»
L’opera, il successo
Più tardi commentando questa lettera il regista dirà che avendo la possibilità di interpellare l’autore, si rivolse a Beckett e lui «mi aiutò negandomi il suo aiuto». Il 4 settembre 1953 a Berlino andò in scena il “Godot” tedesco in presenza dell’autore. La corrispondenza dà conto di una assiduità senza pause dell’ autore sul proprio lavoro. Ora osservando che L’innominabile non ha avuto recensioni interessanti, ora seguendo le sorti di Watt (il romanzo scritto durante la fuga di Beckett nel sud della Francia dopo l’invasione nazista) che ha incontrato problemi per la pubblicazione con la Olympia Press: «Watt ha una nascita difficile, ma dovrebbe venire al buio del giorno la settimana prossima». In breve, nello stesso anno, il futuro premio Nobel mette in scena in Europa quella che sarà la sua opera più nota e chiude, con L’innomable, la trilogia di Malone Muore e Molloy (entrambi del 1951); infine stampa Watt. Un ventaglio di testi oggi irrinunciabili. Eppure, in quello scorcio di tempo, non pare che Beckett sia consapevole della sua originalità o, perlomeno, che l’ossatura della sua opera sia definita e neppure che proprio “Godot” annunci un successo indiscutibile.
Quindicimila lettere
Il carteggio che Adelphi ha in corso di pubblicazione (iniziato con la corrispondenza dal 1929 al 1940) è uno dei più imponenti del Novecento. I curatori hanno riunito oltre quindicimila lettere e sarebbero decisamente di più se il carteggio fosse pubblicato nella sua interezza. L’autorizzazione all’edizione, data da Samuel Beckett nel 1985 (quattro anni prima della sua morte), imponeva una selezione (post mortem) avendo come criterio essenziale l’inerenza delle lettere all’opera letteraria. Una indicazione vincolante, ma difficile da perseguire con puntualità, visto che rapporti, circostanze, lavoro, risultano spesso convergenti. Beckett lo sapeva benissimo tant’è che, scrivendo con la referente del progetto, Martha Dow Fehsenfeld, le dice: «Sarebbe un compito difficilissimo e sono sollevato al pensiero che sia in mani tanto devote e capaci quali le tue.»
Come è

Già nel 1996 i curatori si rendono conto che l’epistolario dovrà avere quattro volumi e non tre come si prevedeva, mentre nel contempo la società che ha stipulato il contratto, la Grove Press, si fonde con Atlantic Monthly Press per far procedere il lavoro sull’edizione. Impegno che comporta visite a domicilio, classificazione, richieste per cessione di diritti, traduzioni e talvolta decifrazione del testo (Beckett aveva una scrittura a volte illeggibile) per arrivare alla presente edizione fornita dei dati biobibliografici dei corrispondenti e di note critiche circostanziate filologicamente tutte le volte che questo risulta possibile.
I quindici anni compresi nel secondo volume ora editato, sono quelli in cui lo scrittore collabora con la Resistenza, fugge nel sud della Francia, rientra in Irlanda prima di trasferirsi a Parigi, ma soprattutto sono gli anni in cui si definisce il corpus centrale dell’opera o quantomeno i lavori per i quali è più conosciuto. Nel 1957 Beckett ritiene di «aver esaurito la vena», ma l’epistolario successivo mostra invece quali sono i nuovi slanci, i nuovi orientamenti. Dall’albero della trilogia e da “Godot” si diramano altre linee di ricerca: Come è, L’ultimo nastro di Krapp, oppure, più avanti, Mal visto mal detto per voler assumere un solo titolo emblematico degli anni conclusivi.
Marco Conti
Samuel Beckett, Lettere, volume II: 1941-1956, a cura di George Craig, Martha Dow Fehsenfeld, Dan Gunn e Lois More Overback. Edizione italiana a cura di Franca Cavagnoli. Traduzione di Leonardo Marcello Pignataro; Adelphi 2021, euro 55, 00