
Un mito è un mito. Non c’è niente da fare. Anche i critici più togati si sentono a disagio nel recensire un grande come lui. Figuratevi io. Potrei dire, prendendola alla larga, che Tabucchi è uno scrittore che tutti ci invidiano nel mondo; che, cosa rarissima per un italiano, alcuni suoi libri sono usciti prima all’estero che non in Italia. Ma i fatto è che Tristano muore o, come dicono molti «l’ultimo di Tabucchi» è un libro difficile; affascinante ma molto difficile da leggere vuoi per l’argomento trattato, vuoi per lo stile.
Il carnet dello scrittore
Il protagonista è un uomo che ha combattuto in Grecia nella seconda guerra mondiale e ora si trova a letto con una gamba in cancrena e sa che per lui non c’è speranza. Chiama uno scrittore per dettare i suoi ultimi pensieri. E’ chiaro che le premesse tendono ai massimi sistemi: eroismo, viltà, coraggio, tradimento. Ma uno scrittore come Tabucchi non corre il rischio della retorica, piuttosto quello che chi legge non colga bene i passaggi mentali del protagonista: tra frasi spezzate, puntini di sospensione, parole allucinate provocate dalla morfina. In una parola Tabucchi sceglie “il flusso di coscienza”, cioè una prosa destrutturata e scompaginata. Lo scrittore opta per uno stile irto di ostacoli, ma senza slogature. Anzi questo stile si intona ai pensieri e alle emozioni di un malato terminale. Però è, ribadisco, difficile da leggere. Davanti alla morte tutto scompare, anche le più belle parole. Quest’uomo che ha chiamato a sé uno scrittore che annoti le sue ultime frasi si contraddice durante tutto il libro confessando a se stesso che la scrittura è insufficiente a raccontare una vita.
Se la scrittura è falsificazione
«Sai, a conti fatti, di una vita è più quello che non si ricorda di quello che si ricorda». Altrove «dopo che ti avevo chiamato mi sono pentito di averti chiamato. Non so bene perché, forse perché non credo nella scrittura, la scrittura falsa tutto, voi scrittori siete dei falsari». Ancora: «Sei venuto qui a raccogliere una vita. Masai che cosa raccoglie? Parole. Anzi, aria, amico mio, le parole sono suoni fatti d’aria. Aria. Stai raccogliendo aria». E via di seguito. Un uomo che è stato in guerra non può evitare di parlare della bomba atomica: «…è stato detto che quelle vittime furono inutili. (…) e agli americani per piegare il Giappone sarebbero bastate le armi convenzionali. E’ un errore, non furono affatto inutili, ai vincitori furono utilissime, in quel modo fecero capire al mondo che i nuovi padroni erano loro». Niente di nuovo. «Che coglionata è la guerra». scriveva Prévert. Ma la zampata del vecchio leone è sempre in agguato, e ti ripaga di tutto il resto: « (…)Tu non immagini neppure come possono finire all’improvviso certi agosti che sbattono contro un settembre anticipato, come un’automobile finita contro un albero, e si accartocciano, si afflosciano come una fisarmonica che perde fiato (…)». O quando butta lì, come per caso, echi di Leopardi, proprio il pessimismo cosmico del “Canto di un pastore errante dell’Asia”, o anche quando ammicca a “La gloria” di Giuseppe Berto: «Sai se c’è qualcuno che i comuni Giuda, quelli che tradiscono per tradire, odiano senza pace, è proprio Giuda che tradì per fedeltà».
Laura Prete*
Antonio Tabucchi, Tristano muore, Feltrinelli, 2004, p. 162
da La Nuova Provincia di Biella (Società e Cultura), 13.03. 2004, p. 21

- Laura Prete è scrittrice e pubblicista. Ha pubblicato nel 1997 La vita che torna (Feltrinelli); La forza del cuore (Interlinea, 2000); Cara Vittoria (Interlinea, 2004); Fuori tempo massimo (Lineadaria, 2006).