
L’antichissima figura del re celtico Sweeney ha accompagnato a lungo la poesia di Seamus Heaney. I lettori del poeta irlandese lo hanno incontrato nelle vesti di vagabondo nelle poesie di Station Island ma difficilmente avranno prestato attenzione alla stratificazione di storia, mito e immaginario che Sweeney ha promesso e mantenuto per il suo interprete. Proprio nel 1984, mentre pubblicava Station Island, Heaney aveva appena concluso e dato alle stampe la sua traduzione in inglese di Sweeney Astray. Un regalo non di poco conto che oggi si può leggere nella bella versione di Marco Sonzogni, edita da Archinto, incontrando una delle più straordinarie e affascinanti opere del medioevo irlandese.
L’avventura del manoscritto

La stessa storia del libro promette un’avventura letteraria. La versione del gaelico Buile Suibhne – ce lo racconta Heaney stesso nell’introduzione – si basa sull’edizione bilingue di J.G. O’Keeffe del 1913. Il testo è tratto, come gran parte delle opere irlandesi da una compilazione manoscritta redatta tra il 1671 e il 1674, ma le fonti sono ben più antiche. Se lo scritto tramandato è di epoca moderna, la sua trasmissione risale perlomeno al medioevo e se ne trova traccia in un secondo manoscritto del X secolo: Sweeney il re folle vi era narrato infatti episodicamente in racconti e liriche del Libro di Aicill. Il tema riprende la battaglia di Moira del 637, uno scontro tra clan in cui il re perse la ragione e – nella versione leggendaria – venne trasformato in uccello in seguito alla maledizione di un chierico, costretto a vagare a lungo sulle sue terre sospirando i tempi andati. Nella vicenda si inscrive quindi il conflitto tra il monachesimo cristiano (i testi più antichi di San Columba sono del VI secolo) e il sostrato celtico. Tant’è vero che l’opera si chiude paradigmaticamente con Sweeney che accoglie la nuova religione e torna così a vivere come uomo, seppure per un solo attimo, prima di incontrare la salvazione eterna.
Il prosimetro
Haeney ha mantenuto la forma letteraria originale: una narrazione in prosa alternata al monologo, o più spesso al dialogo in versi, come accade ordinariamente nella letteratura gaelica, l’unica ad aver conservato questo modello risalente al canone indoeuropeo. Di pari passo il prosimetro testimonia anche il temperamento lirico del verso. Si tratti di un incantesimo, di un inno o di una descrizione elegiaca, la poesia procede per immagini essenziali. La poesia del premio Nobel gli è naturalmente vicina. Sfogliando Station Island si incontrano versi come questi:
Faccia di lentiggini, testa di volpe, baccello di ginestra,
Folletto dei pioppi, piccolo ramo di felce (VI, 1-2)
E’ lo stesso mondo verde di Sweeney, la sua ricchezza evocativa, con il passo e la libertà del Novecento di Heaney.

La croce, i celti, i monaci
Dunque la storia inizia con un c’era una volta: «C’era in Irlanda un certo Ronan Finn, un chierico santo e tenuto in grande considerazione. Era ascetico e devoto, un missionario attivo, un vero soldato di Cristo». E a quei tempi Sweeney regnava su Dal-Arie. Così quando il re sente il tintinnio della campana di Ronan che traccia il perimetro della nuova chiesa, decide di intervenire e getta via, nelle acque di un lago, il salterio del prete. Ma le cose si aggravano, il re va in battaglia e una lontra riporta il salterio nelle mani di Ronan che, senza incertezze, profetizza: «Folle e nudo per l’Irlanda vagherà/ E una punta di lancia morte gli darà.» Il racconto mostra quindi una società già ampiamente cristianizzata in cui la “follia” di Sweeney è sostanzialmente quella di chi non accetta i tempi nuovi. Quando i due eserciti si affrontano è già pronta, da aspergere, l’acqua benedetta dei salmisti come viatico. Ma «Sweeney pensò che lo facessero per prendersi gioco di lui, al che brandì una delle sue lance e la scagliò, uccidendo sul colpo uno dei salmisti di Ronan. Poi ne lanciò un’altra proprio contro il chierico, perforando la campana che teneva appesa al collo». E questa volta è una autentica maledizione ad abbattersi sulla caparbietà del celta: «incrinata la campana piena di grazia/ da quando il primo santo l’ha suonata – /essa ti dannerà a vivere tra gli alberi/ povero scervellato tra i rami.»
La trasformazione di Sweeney

Da questo momento la narrazione svolta verso la grazia dell’immaginario più mistico e denso della natura. E’ Sweeney e la sua peregrinazione a ritmare ogni evento e incontro. Come quello con la moglie: «Agitato come il battito d’ali/ dei ricordi, io mi libro/ su di te, e il tuo letto/ ancora caldo del tuo amante.»
Così nel mondo aereo e tormentato toccato in sorte al re-uccello si enumerano le essenze che accompagnano l’avventura:
La quercia folta e frondosa è l’albero più alto del bosco, i getti biforcuti del nocciòlo nascondono dolci nocciole. L’ontano è il mio tesoro, tutto senza spine nella forra, un po’ di latte di umana dolcezza scorre nella sua linfa. Il pruno è un cesto frastagliato punteggiato di prugnole nere; il verde crescione fa da tetto alle sorgenti dove va a bere il merlo.
L’alfabeto arboreo
Vecce, meli, tassi e rovi, agrifoglio e betulla sembrano nei versi successivi voler ricomporre quell’alfabeto che, proprio nel mondo celtico, ha dato per ogni lettera un’essenza arborea e ha fatto da filigrana al poemetto gallese di Taliesin “La battaglia degli alberi”. Tra gli incontri di Sweeney si profila una presenza appartenuta alla mitologia popolare, e qui tratteggiata con leggerezza, come quella dell’Uomo dei Boschi, ormai prossimo al tramonto, tanto che nei versi sa predire per sé l’imminenza della morte. Quando infine sarà Sweeney a guardare al suo percorso accidentato nell’imminenza della fine, anche il vagabondaggio solitario sotto forma di uccello sarà riconosciuto come conoscenza:
C’era un tempo in cui preferivo l’esultanza sommessa della tortora che volteggia intorno a uno specchio d’acqua al mormorio della conversazione. C’era un tempo in cui preferivo il merlo che canta sulla collina e il cervo che bramisce contro la tempesta alla lingua tintinnante di questa campana.
In fuga con Heaney

Immerso nella campagna nel sud del suo paese, emigrato o fuggito dai conflitti dell’Irlanda settentrionale, non c’è da stupirsi che Seamus Heaney abbia trovato una corrispondenza con Sweeney ben aldilà dell’assonanza del nome e che, dalla cultura gaelica, sia approdato in quegli anni (1983-1984) anche a Sweeney Redivivus, traslando questa volta dal passato il suo più intenso presente.
Marco Conti
Seamus Heaney, Sweeney smarrito (a cura di Marco Sonzogni), Archinto, 2019