Questa quinta sequenza ha probabilmente necessità di qualche premessa, che risulterà utile a spiegare perché, occasionalmente, ho già inserito alcuni nomi – come Eugène Guillevic e André de Bouchet, nella casistica. Ora tocca a Michel Butor e a Massimo Bontempelli…Ho voluto includere questi nomi per svariate ragioni: Eugène Guillevic è stato tra i maggiori poeti francesi del secondo Novecento, ma in Italia e altrove non ha avuto traduzioni (una con Scheiwiller in Italia) per la distanza della sua poesia dal pubblico più tradizionale. Lo stesso non vale per de Bouchet; tuttavia a parte la rarefazione delle traduzioni, in Francia oggi appare marginale. Michel Butor è tra i maggiori autori del nouveau roman. Ugualmente le sue poesie sono poco frequentate. Gallimard ha editato una antologia che risulta poca cosa rispetto alla monumentalità della sua opera in versi, mentre per Bontempelli vale a metà il discorso fatto con Butor: la sua opera narrativa continua a troneggiare nella storia della letteratura italiana (a ragione), ma le sue poesie restano uno sfizio o poco più per gli specialisti dell’opera. Infine…Poco cale…la pergamena virtuale non ruba neppure la carta! (la sequenza riprende qui le lettere A-B)

Alida Airaghi
Perché tardi? Da sempre sono qui,
o così sembra alle mie dita inquiete
che tormentano le tasche
del vecchio impermeabile. E’ giorno fatto.
L’oscura primavera smuove appena
l’acqua del lago attento.
Nulla finisce, o tutto, se immobile
decido di non esserci.
Alida Airaghi, da “Omaggi” in Nuovi poeti italiani, Einaudi, 2012
Bernard Atmani

Non si conta più il numero delle parole morte o ferite sui campi di battaglia.
Nel vasto cimitero delle parole, si vede sfilare ogni giorno una folla di parole
storpiate, parole con una gamba sola, che vengono a deporre in silenzio una bracciata
di fiori sulla tomba della parola ignota.
Bernard Atmani, “Il cimitero delle parole”, trad. M. Conti da “ Mi chiamo gioco” in La tortue-lièvre, n. 70, 2008
Bernardo Atxaga
Nessuno raffigurerebbe questo sole sabato pomeriggio
come una tigre con la bocca piena di fuoco,
né come una grande lampadina, nemmeno
i bambini della scuola, così piccoli.
Questo sabato il sole è un sacchetto, di pomeriggio,
con dentro tante campanelle e caramelle;
i suoi raggi bisbigliano nel cielo, mentre ruotano,
come i raggi di una bicicletta nuova.
E le ciminiere delle fabbriche dormono,
la gente parla di calcio, la biancheria
fluttua sui fili stesi alle finestre;
(E Ainoha passeggia per queste dolci strade
con un vestito di vaniglia e fragola.)
Bernardo Atxaga, “Famiglia III”, trad. G. Soria, da Dall’altra parte della frontiera, Guanda, 2003
Dino Azzalin
Qui sono le parole che contano,
vengono, vanno, scendono, salgono,
poche volte si fermano al posto giusto.
D’inverno si attorcigliano sulla lingua
come sciarpe, d’autunno sono come
fiamme nel camino. Le cerco, le bacio, le rompo,
sillabe, vocali, amanti, fratelli.
Una storia, un dolore, mutano perché una
parola è stata cambiata di posto o perché un’altra
si è accovacciata come un bimbo dentro
un verso o una frase, dove non era attesa.
Quella parola è rimasta ubbidiente a dare un senso
all’istante, al giorno, o alla sola voce,
poi è scappata, come un gioco.
La poesia è mia sorella, mia semina
d’aprile, mia speranza stropicciata,
mia eterna fedeltà, e i miei frutti d’estate sono qui
sulla tua bocca, dentro le parole che dirai.
Dino Azzalin, “Qui sono le parole che contano” 1979, in Poesia, n. 215, Crocetti, 2007

Massimo Bontempelli
Piccoli uccelli dell’Ovest
spinti dal fumigare delle rose
dentro un piovere di petali fitto,
di là dalla pioggia son veli di sole.
Ogni coda ha nove penne
ogni penna ha nove colori
gli uccelli dell’Ovest
sono novantamila.
Una penna è caduta su una zattera
un’altra posa sul fumo rosa
una naviga in mezzo alle viole
ma l’ultima penna serpeggia tra i primi veli di sole.
Pioggia obliqua delle violazzurre
volo obliquo dei piccoli uccelli
non la notte li scompiglia
nessun’alba li dissolve.
E in cima a tutto c’è il Sole.
Addosso al sole
sta la cornice di ferro
rigida.
Massimo Bontempelli, “Vetrate, 1”, da Il purosangue. L’ubriaco. Poesie nuove. 1919

Augusto Blotto

Riposeranno ancora da coltri intraviste
i canti, i bambini, i pappagalli che chiamavano
mamma nella sonorità semindustriale dei cortili
– nostro Piemonte com’eri pacifico
da fabbrichette, nei miei paraggi, caldo
e seminato, con i voli, una cotogna
ai miei guanciali e alla mia bella frutta –
di luglio, unti di loto e bianca di cose
traboccava la notte da quei casamenti
elevati e stagnava col chiacchierìo di tutti
fino al fiume di silenzi e canzoni improvvise,
cani tram lungi, tutto un popolo come
una pesca rilasciantesi attorno vago
di bambine, foglie, luna rosa e bel
luglio e si sta sereni di sfinitezza
guardandoci le mani potenti e assillate.
S’aveva mato, s’aveva lavorato: si riposava
e il fianco era la terra, bruna di molto e luna
amante e il vago rorido alle case
e agli argini tra le erbe provate:
una maschile
severità di lampioni in cammino (strada ignota)
verso la campagna terrosa era solida
di treni periodicamente a scuotere i cinema,
e rossi luci come sigarette (…)
Augusto Blotto, da “Vuoti occhi” (1950-’52) in Il 1950, civile, Rebellato, 1959
La vivente uniformità dell’animale
Nulla è perduto: la compagnia
del mio corpo ai colli saprà seguitare
la vista, l’accomiatare (scalini scesi)
cercherà odori d’angolo e la nobiltà
riflessiva userà a quella pace il vigore
necessario: pontili di città
schierati rugiadosi, velari o filiera
disserrano il remoto marino delle aurore
Augusto Blotto, “Nulla è perduto” da La vivente uniformità dell’animale, con un saggio introduttivo di Stefano Agosti, Manni, 2003
Ve l’avevo detto!; che il sole – smorto
come soltanto il bianco caldo felìcia,
sopra i bitumi, le grasse
curve a sobborghi o raccordi – una vela
arancione pulsa o filigrana, quasi
un volo d’uccelli carnei sciacqui a mattino
il biascio, nel carminietto di smalto
d’un bacino caratteristico, a tramoggia;
e soprattutto che gli aghetti di solfore
da ferriera appaciano mercati, tricicli
o furgoni appena ricciolati d’oro, nostra
consuetudine che pendaglia passi
al disserrare verso città, il vero
avendo continuato a riconoscerlo
(oppure balbando fronte a tocchettarlo, basiti
come lacrimuccia di catarro, o ligneo accenno di sudore
sotto giacca patalonante., soverchia)
scossi leggermente, in briglia, dalla possa di quel deposito
cospicuo, o orca, o oceanico, che deteniamo
alle spalle e accanto e ci brusisce
mentre la mano raffaelllitica non conosce mica più bene
il cognome che ci designa e da un momento all’altro
può entrare in gioco (…)
Augusto Blotto, “La vivente uniformità dell’animale”, saggio introduttivo di Stefano Agosti, Manni, 2003

Michel Butor
Siamo
persi fra
i semi d’una
gigantesca
polvere dura
come quella d’una
mola che si consuma,
ciascuno
dei semi molati
dal tempo, il
vento, la
polvere, da
una goccia
d’acqua persa che
s’è
infiltrata, che,
la notte
gela
facendo scoppiare
una scaglia
mentre
le nubi
accerchiano le
cime,
cambiando forma,
fanno cambiare di forma
le macchie chiare
della luna, fanno
cambiare, il giorno,
lo spessore
delle ombre,
l’importanza
delle fenditure,
velano o svelano
le ferite delle
pietre, sotto la mola
della luce che
trasforma tutto in
polvere.
M. Butor, da Illustrations, I (estrapolazione), trad M. Conti, da Poèsie 1, Editios de la Différence, 2006

I tuoi occhi sono grevi come carboni
I tuoi occhi sono grevi come carboni
E larghi, perfetti
come selci tagliate
Ma i frutti degli alberi
Sono più belli ancora
E noi non saremo mai
Come
frutti d’alberi
Se non posso renderti ancora più bella
Di tutti i frutti degli alberi
A cosa ti servirò e tu
Non sei l’impossibilità stessa
Se non puoi farmi albero
Sul quale tu stessa
Fruttifichi
Michel Butor, da “La Banlieu de l’aube à l’aurore”, trad. M. Conti, in IV Poésie, Editions de la Différence, 2006.
Samuel Brussel

l’erba è cresciuta e copre le rotaie
lo spirito s’esercita a ricostruire
a nominare questo “passaggio” il luogo della tua
infanzia tanti fantasmi in agguato intorno
l’edificio il rovo trattiene nella sua
mascella di pietra e smalto – ferma il tuo
sguardo: un bambino ti supplica con gli occhi
su quest’anima cento volte hai portato
la lama ora tu devi incidere
la tacca nel tronco dove “ricordo”
attraverso una vegetazione amara
non conserva che l’espressione d’una fine
Samuel Brussel, “Memoria” trad. M. Conti da Sosta lungo il percorso e altre poesie in Almanacco dello Specchio, 1989, Mondadori