La grande Beune

Lescaux, pittura rupestre

E’ il 1961 quando un giovane maestro è chiamato a insegnare in un piccolo paese del Perigord. Campagna, forre, strapiombi sul fiume, terre antiche segnate sin dai primordi. A pochi chilometri dal villaggio ci sono le grotte di Lascaux, le figure sciamaniche degli antenati, la loro pittura misteriosa. La destinazione sembra allora  al maestro un destino dove niente ha l’irrilevanza del contingente, dove tutto si mette in mostra nella trascendenza del simbolo: la volpe imbalsamata sopra il banco di mescita della taverna, pescatori e cacciatori grevi come le loro prede, la tabaccaia sensuale, Yvonne, alta e bianca «puro latte» o la locandiera che ricorda al giovane la Sibilla Cumana.

“L’origine del mondo”

Pierre Michon scrive con La grande Beune un racconto che attualizza una visione mitologica dell’esperienza mondana; una prosa di cui si capisce meglio l’energia leggendo poche righe in seconda di copertina: «Apparso per la prima volta nel 1996, la Grande Beune è in realtà l’incipit di un più ampio romanzo, mai portato a termine che avrebbe dovuto intitolarsi “L’origine del mondo”». Si afferra meglio così anche l’incedere lento dell’autore che dà corpo e implicazioni fatali ai personaggi senza per questo entrare davvero nell’articolazione di una storia. Pierre Michon narra attraverso la descrizione e il commento, entrambi immaginosi, entrambi avvolti in una frase ipotattica che coinvolge la notazione psicologica, l’ambiente, il presente e il passato:

«C’è una lunga linea retta dopo l’uscita dal villaggio, al di là dei noci, prima del bosco, interamente circondata da vasti campi; il mio sguardo perlustrava con insistenza quei campi, si spingeva fino al loro margine più lontano, risaliva ai bordi, tutti luoghi in cui mille volte nasceva Yvonne nelle sue calze, bianca, la schiena nuda nel freddo, morsa dal gelo, gettata fuori dal bosco nelle sevizie dell’inverno e della mia mente. Mille volte scompariva quella grande preda.»

Il trionfo dello stile

E’ insomma  il trionfo dello stile, di una scrittura che perviene ad essere, barthesianamente, stratificazione del passato e scarto rispetto alla norma.  Si può essere più o meno vicini, più o meno sedotti dalle pagine di Michon, ma finalmente si legge un autore che può avere titolo a questa qualifica, e che obbligatoriamente per queste stesse ragioni se ne infischia di una lingua piegata al diktat ecumenico della leggibilità, imperativo esterno ad ogni letteratura, imperativo della condivisione forzata e dell’economia sottostante.

Marco Conti

Pierre Michon, La grande Beune, Pp. 76, Adelphi, 2020, Euro 11,00

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