In principio era la Notte

Colibrì in una raccolta del XVI secolo di exempla calligrafici

Discorrere della luce significa incontrare la ragione stessa del mito, scoprire come la parola non possa allontanarsi dalla sua valenza di traslato, di metafora. 
Dove inizia la luce se non nel Caos, nell’invisibile, nel buio?
E’ questo il luogo in cui la parola comincia a mettere ordine, a fornire al tempo e allo spazio una forma e una definizione.
Così come il mito diventa un modello esemplare staccatosi dalla servitù dell’emozione, la Luce diviene la sostanza impalpabile dello svelamento. E non c’è svelamento dove non c’è enigma, notte, disordine.
Per questa ragione si cercherebbe inutilmente un mito sulle origini della luce nel quale, la luce  medesima, non abbia in qualche modo significato stretto con il suo contrario.

Genesi. La coppia luce e tenebre

Giorno e notte

Ma se ci fermassimo a questa nozione che la cultura occidentale ( e non solo questa) ha portato all’evidenza con i tramiti dei miti religiosi del mondo giudaico-cristiano, non scopriremmo molto sul Mito della Luce.
Certo il resoconto mitografico ci informa  soprattutto sulla base di un modello dualistico: Luce e Tenebre, come Eros e Thanatos, si fronteggiano, al punto che è facile immaginare il mondo diurno di Eros, fitto di richiami solari e sensualità, contro quello di Ade, sotterraneo, cupo, terrificante.
 Persino la psicologia del profondo inizia a questa metafora e racconta che il paziente dovrà portare alla luce della Ragione, o se si preferisce della Coscienza, il tumulto nascosto, il mondo infero di Ade.

Il ciclo morte e rinascita

Op. Shin-Bitjusukai

Se invece la notte avesse le sue ragioni? il buio, il mondo notturno e pauroso dei sogni e degli incubi, avesse con l’eloquenza che gli è propria, la stessa natura e solidità della Luce?
In altri termini, il mito ci induce a pensare alla Luce anche come complemento della Notte e del Caos, come unione (e non separazione) degli opposti. Accade così che nella cultura patriarcale sia diffuso il modello maschile del Sole  e  quello della Notte, dell’oscurità, femminili.
Ma proprio questo spiega che il ruolo giocato dai due termini non è necessariamente quello di antagonisti, che non si esaurisce nella opposizione, ma in un sapere complementare: se da un canto la Maestà, la Ragione, il Bene, sono incarnati dalla Luce Solare, dall’altro il Divenire, il ciclo di Morte e Rinascita, la crescita della Vegetazione, sono incarnati dal recesso dell’oscurità, dal principio lunare.

Miti tra popolazioni senza scrittura, l’Amazzonia

Op. Shin-Bitjusukai

Secondo un mito dell’Amazzonia centrale, all’inizio dei tempi un grande albero con il suo fogliame copriva la terra e l’intera volta celeste, tanto che dalle fronde la luce non poteva filtrare. Allora i progenitori della tribù dei Tucuna, lanciarono, con una fionda, una manciata di baccelli contro il soffitto di piante  e in questo modo si  scoprirono le stelle. Ma siccome era ancora buio e gli uomini erano decisi a vedere la luce, allora si decise di abbattere l’albero; tagliarono il tronco ma l’albero non cadde; pensarono che qualche liana lo tenesse in piedi finché non si accorsero che erano le sottili dita di un bradipo a reggerlo miracolosamente.
 Così si decise di inviare uno scoiattolo che portasse delle formiche sulla propria coda e questo, giunto accanto al lemure gliele gettò sugli occhi. Fu così che l’albero si abbatté al suolo lasciando finalmente filtrare la luce del giorno.
Si potrebbe dire che il mito racconta la luce come svelamento perché essa è data come un elemento preesistente.

Tra i pellerossa Caddo

Ma altrettanto evidente è che l’albero brasiliano dei Tucuna è un albero cosmico che ha il compito di unire la terra al cielo rappresentando così concretamente il concetto di bipolarità.
L’unione degli opposti è straordinariamente narrata da un mito degli indiani d’America Caddo, dislocati tra le pianure del Texas e dell’Arkansas. Il resoconto dice che, stanca dell’oscurità, la popolazione si riunì in assemblea per scoprire il modo di ottenere la Luce. Il problema era di carattere magico: si potevano ottenere i colori uccidendo i cervi colorati. Se avessero ucciso il cervo giallo, il mondo sarebbe divenuto giallo; se avessero ucciso un cervo chiazzato, le giornate sarebbero divenute chiazzate e impossibili. Rimanevano i cervi bianchi e i cervi neri. Ma se avessero ucciso un animale bianco, non ci sarebbe più stata la notte. Così gli uomini Caddo, consigliati da un profeta, ne uccisero uno bianco e uno nero, scoprendo il giorno e la notte.

Pittografia, danza tribale africana per ottenere la pioggia

In Etiopia

Dunque: luce e oscurità, in questo come in alcuni altri miti delle origini, sembrano essere più un ossimoro, l’unione di due opposti, che un antagonismo o una antitesi. La luce contiene il buio e viceversa.
Tra i Galla meridionali (sugli altopiani dell’Etiopia) in origine era sempre giorno finché l’essere Supremo (Wak) pensò che agli uomini dovesse essere riservato un tempo per il sonno. Anche in questo caso bastò richiamare un concetto magico. Wak disse a tutti gli esseri di coprirsi gli occhi. E così fecero tutti salvo il leone, il leopardo e la iena, che guardarono fra le dita. Creata la notte questi animali ebbero di conseguenza la facoltà di vedere nel buio. Qui la mitografia riporta in un unico referto anche una ulteriore spiegazione di carattere etologico, ma il punto saliente è che la notte deriva dalla sottrazione del giorno invece che da un altro e Opposto principio.

Tembé, quando il cielo è troppo vicino

Tra i Tembé (nel Brasile orientale) il cielo all’inizio dei tempi era vicinissimo alla terra ed era sempre giorno. Furono gli uccelli che decisero di spingere la volta del cielo più in alto perché gli uomini potessero dormire. Ma il cielo rimaneva troppo vicino comunque e fu a questo punto che un vecchio vedendo due pentole accanto a uno spirito demoniaco decise di guardarvi dentro. Vide che c’era la notte e sentì le voci dei gufi e delle scimmie, così rompendo la pentola più grande tutto il buio e i suoi animali vennero all’aperto facendo la notte.
La mitopoiesi  di queste popolazioni mette così a nudo la complementarità dei due termini.

Dualità senza opposizione

Tra i Tucuna e i Caddo, preesiste la Notte al Giorno; tra i Galla e  i Tembé, accade il contrario. Ma in ognuno di questi casi vi è opposizione, senza antagonismo.
Questa sottolineatura può forse dirci qualcosa di più poiché propone un modello conoscitivo diverso da quello percepito dalla cultura occidentale o, meglio, da gran parte della letteratura occidentale informata al pensiero aristotelico.
La presenza di una opposizione tra Luce e Buio, Tra Visibile e Invisibile, tra Alto e Basso, come tra Eros e Thanatos (per riprendere la coppia di cui abbiamo parlato agli inizi) si risolve facilmente nel nostro mondo in una dualità che è contraddizione. In altri termini, l’idea di conoscenza che è alla base della nostra tradizione ci porta a distinguere per spiegare, e la prima delle distinzioni è quella della logica oppositiva.
Ma il mito come la poesia porta con sé la metafora, ovvero una lingua che si sottrae al compito di distinguere. Anzi il traslato è somiglianza, ed è connubio.

Cristianesimo e sopravvivenze

“Annunciazione”, Beato Angelico

Nel mondo di Zoroastro, il signore della Luce Ormadz lotta invece contro Ahriman, la divinità delle Tenebre che prefigura il demoniaco. E da qui può prendere le mosse la lunga sequenza di divinità solari che fanno dello svelamento luminoso l’idea medesima del bene. Nel mondo ebraico come in quello cristiano il folclore ancora oggi annota la festa della Luce nel cuore dell’inverno.
Durante il solstizio invernale o durante l’Epifania si accendono in Europa dei fuochi, spesso in prossimità del sagrato della chiesa, che un tempo avevano valore propiziatorio per la crescita del raccolto nel momento in cui la luce del sole appariva più distante (nel solstizio invernale). Ma non a caso ciò coincide con due momenti cruciali per la religione del passato e quella del presente: alludo al culto mitralico (il culto di Mitra derivato dall’Oriente) nella Roma antica.

La festa ebraica delle luci

Hannukkiah, candelabro con nove luci; la tradizione Menorah ne porta sette

Il sincretismo ha portato il mondo cristiano a utilizzare una festività preesistente per collocare la nascita di Gesù in quella prossimità (dal 21 al 25 dicembre) e cogliere l’attenzione delle fedi preesistenti per volgerle a quella che nel III e nel IV secolo era una nuova religione.
La festività ebraica della Channukkà, cade nello stesso periodo (il 25 di Kislev) ma aveva in origine una valenza diversa. Dopo la liberazione della Giudea dall’occupazione siriano-ellenica nel 200 a.C., l’evento venne celebrato con l’accensione nel Tempio di un candelabro con nove candele per tutti gli otto giorni di durata della festa, tenendo conto che una candela è indispensabile per accendere le altre: una ogni giorno. Per questa ricorrenza si usa un candelabro speciale chiamato channukkià.
In epoca moderna la festività ha cercato di cogliere (proprio come accadeva nel mondo pagano per i cristiani) la popolarità del Natale in Occidente. Channukà è diventata quindi sia la festa dell’affermazione del popolo ebraico sull’invasore che quella simbolica delle luci contro il male.

Ra, Apollo e la Notte

Nefertari e Ra

Tutto ciò configura la luce come attributo del Sole, lo stesso astro che Apollo traina con il suo carro ogni giorno, affinché il Caos sia sconfitto. Mentre la Notte, che Ovidio chiama “amica dei misteri” diventa con il trascorrere del tempo, più una metafora che una forza, un contrappasso e una polarità.
L’osservazione del mondo e la notazione della precarietà della vita viene simboleggiata con maggiore evidenza e maggiore frequenza nel percorso ciclico del sole. Nell’antico Egitto i riferimenti al valore imprescindibile della luce solare (la divinità Ra o Atum) sono ridondanti di messaggi vitali. I testi delle piramidi raccontano come il Re defunto proceda in un cammino analogo al percorso solare: «Tu sorgi e tramonti – dicono – tu affondi con Nephtys, e ti immergi nell’oscurità con la barca serotina del Sole».

Genesi

Genesi: «E la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. E Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. E Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre. E Dio chiamò la luce giorno e le tenebre notte».
Soltanto dopo aver creato la terra per separare le acque e dopo aver creato la vegetazione, il terzo giorno vengono creati il sole e la luna, quali “luminari” e semplici segnatempo di stagioni e giorni
La presenza del divino come omologo alla luce compare in termini simili anche nel buddismo dove la sapienza è lontananza dal mondo contingente, e simbolo dell’assoluto. Questa qualità è invece confermata, in ambito cristiano, nel vangelo di Giovanni, là dove si afferma che «in principio era il Verbo» e che Giovanni venne «per rendere testimonianza alla luce » (1, 8).
N si scosta da questa metafora la letteratura dantesca per la quale Dio è “somma luce” o luce “etterna”. Così, nel primo canto del Paradiso, il poeta si trova “nel ciel che più della sua luce prende”, cioè nell’Empireo.

Altre vicende: il Graal

In un’altra epifania letteraria, quella del Graal, che costituisce il punto di incontro leggendario fra il sostrato celtico e la cristianizzazione, la luce è luogo della rivelazione. In Chrétien de Troyes, il cavaliere Perceval (che fu il Peredur dei racconti gallesi), entrato nel castello del Re Pescatore osserva con stupore e ammirazione una giovane bellissima attraversare il salone con un graal fra le mani: «Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero chiarore, come stelle quando si leva sole o luna ». Il Graal chiede nel mito il proprio riconoscimento, risplende della verità, si impone sopra gli eventi mondani. E’, in sé, lo svelamento per cui le lande sterili del Re Pescatore potranno tornare a diventare fertili. Ma Perceval, forte solo del suo coraggio e della sua lealtà, non chiede, non proferisce le parole che avrebbero compiuto l’opera, ridato fertilità alla terra in virtù dell’atto magico per il quale (come in poesia) la parola è la cosa.

Poesia

Perceval-Peredur dormirà una notte tranquilla per svegliarsi in un castello ormai deserto. La luce ancora non si è rivelata in lui, ancora la notte ha coperto il mondo luminoso. L’eroe dovrà cercare ancora. Ungaretti nei versi di “Cantetto senza parole”,  quasi propiziando l’incantesimo della conoscenza e alludendo a un altro liricissimo ossimoro, scrive: «A colomba il sole/ cedette la luce…/ Tubando verrà/ se dormi, nel sogno».

Marco Conti, da “In principio era la notte – In the beginning Was the Night”, in Risk, periodico di intercomunicazione culturale, Anno X, N. 27. Maggio 2000. E Atti del convegno internazionale “la luce”, Banca popolare commercio e industria, Milano, 2000
 

 

 

 

 

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