
Ghiacci e nevi
Dal 13 agosto le nevi non si sciolsero più.
Il 24 settembre l’innevamento si estendeva ancora su seicento chilometri, poi dalla fine del mese i ghiacci si ritirarono fino al polo australe scomparendo alla velocità di dieci chilometri al giorno. I dati concordavano. Si potevano vedere e si poteva immaginare questa lunga banchisa come una pianura di glassa slabbrarsi e morire nelle ombre che disegnava, arabeschi densi come muschio bianco e grigio che gli facevano stropicciare gli occhi a forza di premere sull’oculare del telescopio.
L’astronomo prese il notes, bagnò la punta del lapis e scrisse: «Possiamo argomentare da questo, che in Marte, come sulla Terra, il corso delle stagioni non è perfettamente il medesimo in tutti gli anni, e che si danno colà, come presso di noi, estati più lunghe e più calde, ed altre più brevi e più fresche».
Le stagioni e la vita
Giovanni Schiaparelli si accese il sigaro, posò ancora l’occhio sul telescopio e sbuffò. Sì, su Marte poteva esserci vita. Ma meglio fermarsi qui. Il saggio si sarebbe intitolato “La vita sul pianeta Marte”. Il punto non erano solamente le nevi o l’acqua, non erano le stagioni e i venti che forse spazzavano le creste dei monti come sulla terra. Il punto erano quelle linee scavate in profondità, quei “canali”, quei sentieri più grandi di qualsiasi vallone alpino, migliaia di volte più estesi di qualsiasi canyon. Erano una rete che correva e, in qualche caso, sembrava avere derivazioni, sbandare improvvisamente verso un altrove incerto e misterioso.

Canali, canali…Verso l’altrove
Seduto sullo sgabello come sulla tolda di una nave, l’astronomo guardava in basso le ombre massicce del quartiere Brera, poi alzava lo sguardo e tornava a bucare la notte con le sue lenti.
Dal 1877 il nuovo telescopio aveva permesso di raddoppiare la visibilità ed era stato allora che erano apparsi chiari i segni di avvallamenti, depressioni, canali o come diavolo si potevano chiamare. Giovanni Schiaparelli optò per il più semplice “canali”. Pubblicò la relazione.
Su Marte c’era la vita? Sembrava che il mondo non aspettasse altro.

Telescopio Gregory XIX
La storia era lunga.
Aveva cominciato quel Cyrano di Bergerac immaginando “L’altro mondo o gli stati e gli imperi della Luna” due secoli prima, poi erano arrivati Swift e Voltaire, e adesso aveva fatto fortuna Jules Verne. Ma quasi tutti puntavano gli occhi sulla Luna. Si capisce: non c’era bisogno del telescopio, bastava alzare la testa. Invece il più convinto sostenitore della vita su Marte era un matematico tedesco. Karl Friedrich Gauss, una testa d’uovo che in un un certo giorno della sua vita abitudinaria pensò di comunicare con gli abitanti di quel pianeta lontano disegnando forme geometriche sulla neve della tundra. Cose strane, come fossero rune…Che del resto non erano lontane.
Ora, alla vigilia della nuova pubblicazione, l’astronomo piemontese non era ancora deciso a sposare la causa che tutti gli sollecitavano. Sì sul pianeta Marte poteva esserci qualche forma di vita. “Poteva”… per l’appunto, non “doveva” come avrebbero voluto in tanti e come aveva già scritto
l’ americano Percival Lowell preso dall’entusiasmo della scoperta di Schiaparelli.
Dietro le lenti
La famiglia dell’astronomo italiano veniva dal Biellese, un posto poco propenso ai voli pindarici. Giovanni aveva messo in un cassetto la sua laurea in ingegneria per guardare altrove, diventare astronomo, direttore dell’osservatorio di Brera; ma da qui a immaginare cavallette giganti e bipedi con le antenne ancora ci correva. E infatti anche adesso, nel turbinoso 1895, quasi alla fine della sua carriera, mentre si preparava a scrivere le sue pagine più famose, il dubbio era di rigore, anzi era la sua “stella polare”.
Altre scoperte
Nel 1872 aveva fatto un viaggio, era stato insignito della medaglia d’oro della Royal Astronomical Society per aver scoperto la relazione esistente tra le comete e gli sciami meteorici, poi aveva fatto nuove osservazioni su Marte. Oltre all’americano, a pensare alla vita su Marte c’era l’astronomo francese Camille Flammarion che credeva nell’abitabilità del pianeta. Adesso si aspettavano una conferma che non poteva venire. Non ancora.

Non “canals” ma channels
Giovanni scrisse: “Piuttosto che veri canali della forma a noi più familiare, dobbiamo immaginarci depressioni del suolo non molto profonde, estese in direzione rettilinea per migliaia di chilometri, sopra larghezza di 100, 200 chilometri od anche più. Io ho già fatto notare altra volta, che, mancando sopra Marte le piogge, questi canali probabilmente costituiscono il meccanismo principale, con cui l’acqua (e con essa la vita organica) può diffondersi sulla superficie asciutta del pianeta”.
L’acqua, sorgente di vita, poteva essere la ragione, l’origine di tutto. Ma di più cosa poteva mai dire?

Bastò questo, insieme all’uso spregiudicato della parola “canali”. Quelli che Schiaparelli aveva visto dall’osservatorio di Brera e poi disegnato scrupolosamente, così come apparivano, calcolando distanze, ipotizzando corsi d’acqua e nevi, nella versione inglese vennero tradotti col termine “canals”. Il guaio è che in inglese la parola corrisponde ad opere manufatte che implicano esseri intelligenti, mentre l’astronomo biellese intendeva parlare (come effettivamente fece nel suo saggio) di depressioni del suolo, incavature straordinariamente ampie. Il traduttore avrebbe dovuto usare la parola “channels” che indica una conformazione del terreno.
L’esistenza dei canali venne confermata da molti altri astronomi, non da tutti, finché telescopi più grandi, di ottiche migliori dissero altre cose. Ma paradossalmente portarono ad errori più grandi.
Tornando sul pianeta

L’astronomo greco Eugenios Michael Antoniadi con un telescopio più grande di quelli usati in precedenza da Schiaparelli, con 83 centimetri di apertura (era il più grande esistente in Europa, precisamente a Meudon), una notte del 1909 guardò in direzione dei canali di Schiaparelli, nell’emisfero australe, e scorse non linee ma crateri, vuoti, laghi « e le zone al sud di Syrtis Maior offrivano l’aspetto di una regione composta di freschi prati e di foreste di un verde più scuro, il tutto variato da minuscoli punti bianchi. Nessuna geometria… »
Lassù dove Giovanni aveva visto strade di ghiaccio o d’acqua, c’erano foreste, laghi, praterie. Più aumentavano i dettagli, più Marte sembrava un territorio fertile; più aumentava la grandezza dell’ottica, più il disegno era poetico.
Una sonda su Marte
Nel 1965 le fotografie inviate dalla sonda Mariner 4 a breve distanza dal suolo scopersero il doppio inganno. Aveva torto Schiaparelli, aveva torto Antoniadi. Non c’erano foreste, laghi, praterie, canali; non c’erano neppure fiumi su Marte. C’erano crateri di varie dimensioni.
La storia è fatta di “ma”. Le telecamere delle sonde mostrano che non ci sono canali e tuttavia ci sono formazioni naturali lunghe centinaia di chilometri, simili a letti di fiumi asciutti o ghiacciai. Le lunghe rughe misurate dall’astronomo sono altra cosa, ma ci sono. Per la seconda volta la visione falsata di Schiaparelli nasconde una sorpresa: su Marte non può esserci acqua ma vapore o ghiaccio oppure ampie colate laviche, formazioni geologiche sbalzate nel corso del tempo.
Adesso bisogna andare a vedere.
Marco Conti
