Elsa Schiaparelli… Quando i bottoni sono labbra

La stilista Elsa Schiaparelli (Anni Trenta)

Non è celebre come Coco Chanel né un marchio popolare, eppure Elsa Schiaparelli vestiva Greta Garbo, Marlene Dietrich, Mae West, vale a dire l’Olimpo dello star system degli anni Trenta.
Torinese di origine, biellese di famiglia,  passò gran parte della sua vita a Parigi dove nel 1927 aprì una boutique che divenne un mito e che replicò con un altro atelier a Londra.
Il Museo della Moda e del Tessile parigino le ha dedicato una vasta retrospettiva una quindicina d’anni fa; nel 2012 lo ha fatto il Metropolitan Museum  of Art di New York abbinando il suo nome a quello di Miuccia Prada e da una manciata di mesi  data la riapertura della “Maison” a lei intitolata  nella capitale francese.
Nonostante le sue origini ( le stesse del cugino egittologo, Ernesto, a cui si deve il Museo Egizio di Torino) e lo straordinario successo proprio mentre l’industria tessile biellese si qualificava tra le più importanti in tutto l’Occidente, i due “marchi” non si incontrarono mai.  O per meglio dire: gli industriali non si fecero mai raccomandare dalla sua fama per creare un’immagine spendibile.

Il cappello-scarpa ideato dalla modista-artista

Elsa e André Breton

Eppure  Elsa Schiaparelli è per la moda del Novecento quello che Picasso rappresenta per l’arte. Fu la prima a ideare quei gioielli di plastica che furoreggiano ancora oggi, che si aprivano come corolle alle dita di Alda Merini; fu la prima e forse la sola nel mondo della moda ad aderire all’arte d’avanguardia, al surrealismo soprattutto, inventando cappelli stranissimi come il cappello-scarpa, oppure ideando lo scandaloso copricapo a forma di bistecca in omaggio ai suoi amici, André Breton e Salvador Dalì.  Di Eleonor Fini è la scultura di una bottiglietta rosa  per  un profumo destinato a diventare celebre, col nome  “Shocking”. Correva l’anno 1936 e  la stilista aveva già creato i profumi Salut, Souci, e Schiap.

Guinevere van seenus in un vestito schiaparelli, via pagina facebook @vintage now

Un vestito aragosta per Dalì  e Bottoni come labbra

L’anno dopo, un’altra collaborazione con Dalì, metterà in vetrina il vestito-aragosta. L’aragosta venne dipinta su un abito bianco da cui si stagliavano ciuffetti di prezzemolo. L’abito – oggi al Philadeplphia Museum Art – ebbe un seguito ideale ancora con l’estro dell’artista catalano che disegnò un modello da sera, bianco, con finti strappi che mostravano pezzi di tessuto rosa come se si intravedessero le carni. Con Jean Cocteau, Dalì diventò uno dei suoi disegnatori preferiti, mentre lei stessa si divertiva creando modelli di sfrenata immaginazione.
Nascono così i golf in cui compaiono foulard, cruciverba e tatuaggi che non sembrano disegnati ma realizzati insieme alla lana. E, tra le altre cose,un maglione trompe-l’oeil  che venne indossato dalla borghesia più ricca e anticonformista degli anni Trenta. Non poteva diventare un successo invece – ma un esempio di surrealismo inimitabile – un vestito fatto a cassetti di stoffa, al pari dei bottoni-sculture realizzati insieme a un altro artista, Jean Hugo. E bottoni a forma di labbra, di teste di animali, di calamai. Man Ray fu uno dei suoi estimatori più assidui.
La stilista è stata forse la sola, ieri come oggi, a investire con una immaginazione sfrenata il mondo della moda. Oggi infatti la Maison Schiaparelli non è solo la sua storia: in Place Vendôme 21 a Parigi veste Céline Dion, Cate Blanchett, Juliette Binoche

Elsa Schiaparelli a braccetto con Salvador Dalì
I bottoni di Elsa

Shoking Life

Nel suo libro, Shocking Life, del 1954, scrive: «Per inciso, ritengo che disegnare vestiti non sia una professione, ma un’arte. La consideravo un’arte molto difficile e di poca soddisfazione, perché un vestito, appena nato, è già qualcosa che appartiene al passato. Spesso devono intervenire molti elementi perché si possa realizzare un’idea che corrisponda esattamente a ciò che si ha in mente». Come essere più chiari? L’insoddisfazione di Elsa Schiaparelli riprende quella dell’artista che vede fatalmente la distanza tra la concezione e l’atto. I suoi abiti trompe-l’oeil dicono più di quanto non esprima la sua autobiografia. Quando nel 1927 cominciò a indossare un golf che simulava un fiocco, intrecciando due fili di diverso colore, doveva già esserle chiaro come fosse la creazione anziché l’uso, la sua stella polare.
Gli anni in cui lavorò a Parigi erano del resto quelli che riunivano scrittori e artisti destinati a cambiare il paesaggio del romanzo e della pittura. Non solo i surrealisti, suoi costanti compagni di strada, ma contemporaneamente Hemingway e Beckett, Bunuel e Giacometti,  Giorgio de Chirico e Filippo De Pisis, Chagall e Picasso.

Gli esordi letterari

Lei stessa aveva esordito con un’opera letteraria, una raccolta di poesie che scandalizzò la famiglia per la sensualità che la percorreva. Un esordio che le costò l’esilio in un collegio.
 “Fu un vero cataclisma – disse nel corso di un’intervista – che mi segnò per sempre. I giornali se ne occuparono ampiamente. Mio padre considerò la vicenda una terribile disgrazia e non lesse mai il libro. Fui mandata in un collegio della svizzera tedesca con l’intento di calmare il mio temperamento”.
Di versi veri e propri non pare ne abbia scritti più, ma le sue collezioni portano il segno dell’immaginazione come non è mai più accaduto. Non solo attraverso le invenzioni  clamorose ma anche nei titoli delle collezioni, (“La commedia dell’arte” è il titolo che sceglie per i vestiti del 1939), nei materiali, in idee coraggiose: sua è la scollatura cosiddetta “Diana”, cioè quella che lascia una spalla nuda.
Quando nel 1942 lascia Parigi e si imbarca per Gli Stati Uniti, organizza una mostra a New York. Con Breton, Duchamp e Calder crea l’atmosfera dell’Europa di quegli anni tendendo fili spinati che passano davanti alle opere in mostra, poi si occupa della raccolta di fondi, del ponte invisibile con la realtà.
 

Un altro modello Schiaparelli


 

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