
Storia umana e storia naturale si sovrappongono nell’ultimo cospicuo libro di Fabio Pusterla. Diviso in quattro sezioni con un prologo e un epilogo, Cenere, o terra è nondimeno tanto compatto nel suo immaginario quanto costruito, come capita ormai raramente nella poesia contemporanea.
Parlando si sé Pusterla scrive in una estesa nota: «Per qualche tempo, è parso all’autore che la scrittura lo stesse conducendo in una direzione assolutamente imprevista, cioè verso gli antichissimi quattro elementi fondamentali (terra, aria, acqua e fuoco); non già secondo il calcolo di un progetto, piuttosto attraverso un agguato dell’immaginazione». I testi sono stati scritti infatti dal 2014 in poi e diversi sono già apparsi in riviste, antologie, pubblicazioni d’arte. Ma non c’è alcun dubbio che non ci si trovi di fronte ad una “raccolta” né che, in conclusione, l’autore abbia realizzato semplicemente un adeguato collage.
Il filo conduttore non è solo tematico o di scrittura, ma strutturale: l’identità emergente da queste pagine è quella di un immaginario che rinvia continuamente alla natura e dalla natura alla storia o viceversa.
Preghiera della rondine

Il prologo, “Preghiera della rondine” è un totem (postula una parentela allegorica) dove già nella prima quartina si legge compiutamente il traslato:
Verso la chiazza di luce sul fondo
verso il riflesso del sole
con la memoria dell’ombra
con la speranza del mare.
Un volo che si avventura « per tutte le cose precarie che splendono miti/ per tutte le cose del mondo. So solo/ volare impazzita rischiare/ un viaggio».
Pasolini appeso
Il prologo è una sorta di avvertenza al lettore che, col titolo della prima sezione, Pasolini appeso, apre l’uscio della storia contemporanea; uno scenario di desertificazione che ha due emblemi: il selfie che una ragazza scatta sul monumento dell’olocausto di Berlino, il Denkmal («ho visto una ragazza/ mettersi in posa da cubista su una stele» si scandisce in “Sovrapposizioni a Berlino” ), e la scritta su un muro che inneggia all’omicidio di Pasolini: «ma lungo via Trinchese il segno nero/orrido sopra il muro: “Pasolini/ appeso”. Pasolini chi, ci chiediamo,/ Pier Paolo? Ma è già stato massacrato/ in vita e in morte: adesso ancora/ appeso? Vilipeso/ quarant’anni più tardi? E da chi?»
Luce invernale
Accanto a queste incursioni nella vita quotidiana, Pusterla annota un paesaggio invernale, deprivato: «Poi finalmente si è fatto vivo il vento/ da giorni e giorni in agguato dietro i boschi» e «tutto sembrava un addio: costoni alti/ scissi in triangoli gialli, lame d’acqua/ metalliche e lanuggini/ inerti, forse di nebbie in dissolvenza,/ forse di fumi lontani». (“Luce invernale”).
Ecco dunque i due termini del discorso lirico, sui quali si dipanano diversioni oniriche (“Tre sogni”) e apparizioni improvvise, folgori dell’immaginazione come su di un fondale distante ma ugualmente eloquente.
Pietre nere

“Nella luce e nell’asprezza” è il terzo tempo del libro e chiama in causa la pietra, il suo silenzio che è privazione di senso, privazione di umanesimo e deragliamento.
Lungo questo sentiero di silenzio:
pietre nere, pettirossi quasi immobili
su balze di muro o ringhiere,
lunghi gatti che guardano altrove.
E quando passi si stirano pigri,
i gatti, i pettirossi volano via.
Come si tu non ci fossi. O fossi già
tu andato via.
Tacciono l’acqua e i boschi
Lo scorcio appena sopra citato è connotazione di un futuro in disarmo di cui il testo annota diversi scenari. Con la pietra è chiamata in causa una volta stellata inquietante, fatta di meteore, nebulose, astri e disastri. La scrittura si è intanto addentrata fin dalla prima lirica in una foresta silenziosa, in una natura contigua e in sfacelo: «Tacciono l’acqua e i boschi/tacciono gli animali/ tace il cielo deserto/ e tacciono le ali» (“Nel silenzio. Lamento di F.K.”). Qui vale la pena osservare che il registro è diverso: Pusterla adotta la quartina di ottonari con rime irregolari o assonanze forti per poi tornare al suo modulo più discorsivo e omogeneo al consueto dettato che, nella sua scrittura, ha variazioni solo per incontrare sincopi, ellissi, versi brevi.
Zingonia
La direzione del percorso poematico è univoca anche quando la poesia assume valenze storicamente circoscritte come in “Lettere da Zingonia”, in riferimento al progetto architettonico – a breve distanza da Milano e Bergamo – di un villaggio creato negli anni Sessanta e oggi divenuto ghetto, tra «periferie tangenziali che anellano/ Inurbamenti coatti progetti falliti/ posteggi d’orrore» e «controviali dove si cammina/ tra macerie»… Anche la storia, sembra di poter concludere, segue la ciclicità della natura. L’inverno si estende nel simbolo della pietra, tra i boschi silenziosi, nelle città e nelle opere derelitte. Tocca ascoltare ora l’onda in piena, la maturazione della fine. Ed è questo il teatro della sezione successiva, “Confuscazioni”.
Confuscazioni

La parola è prelevata dal codice Leicester, una raccolta di scritti di Leonardo da Vinci dove compare anche uno studio sull’acqua. E l’acqua ha moti, movimenti, colori, velocità, stati diversi. Leonardo ne inventa i nomi per definirne la natura e tra questi ecco le confuscazioni dopo termini come “sbalzamento” e “conrusione d’argine”. Un lemma che individua il fondersi alla vista della materia acquorea con altri materiali? Certo Pusterla appronta un campo semantico variegato per questa dizione leonardesca. Ancora più sicuramente qui si trova il centro nevralgico del libro, la sua ascesi e liberazione. La lirica di questa sezione racconta il sopravvenire delle acque, l’onda che tutto spoglia e rimette alla luce.
Quasi ovunque il colore dell’acqua
vista dall’altro estranea. Come forma
altra dell’essere che chiama e allontana,
verde menta o fangosa, limpidissima
o nera impenetrabile, ma sempre
pullulante, anche stagnando, sempre
in movimento verso direzioni
diverse. E sempre bella
e irraggiungibile, persa
paesaggio per paesaggio. Di canale
o do fiume, d’oceano o di torrente,
da ponti minimi o sterminati o distrutti.
Città dopo città, che ti aspettava. Ponti e porti.
(da “Ponti, rocce, sbalzi”)
Il custode delle acque
Il libro anticipa con questa lirica un’allegoria più compiuta, tant’è che la sequenza immediatamente successiva, cioè i 33 testi di Ultimi cenni del custode delle acque, ha retto autonomamente un libro apparso nel 2016 e stampato da Carteggi Letterari. La sequenza è introdotta da una contestualizzazione narrativa fittizia che si riferisce tuttavia alla “Casa del custode delle acque”, toponimo di un edificio sui navigli lombardi di Vaprio d’Adda. Un’ispezione mostra che la Casa è stata disertata da tempo. Al centro di un muro si legge una scritta che riconduce al trattato leonardesco “Delle acque”: «Il nulla nasce nel termine della cosa, dove finisce il nulla nasce la cosa; e dove manca la cosa, nasce il nulla»
All’interno di Cenere, o terra, Pusterla scrive con questa sezione la sua lirica più compatta e scolpita. L’allegoria del fiume che cerca il proprio corso e non ascolta nulla, l’acqua che riverbera la paura umana («hai paura lo so») vive di un ritmo sicuro, di immagini nitide; il Bachelard che chiedeva al poeta qual era il suo fantasma (Silfide, Ondina, Salamandra o Gnomo?) per entrare nell’immaginario dell’opera, troverebbe in queso caso la sua risposta. La materia acquorea scivola ora altrettanto bene tra significato e significante:
Viene la tumultuosa.
Sento l’erba che annuncia il rovescio
l’animale inquietudine parla.
Viene la tumultuosa,
a distruggere i ponti
a cambiare
e in chiusura dello stesso testo:
L’erba si rizza intanto come un pelo
ogni pietra si contrae.
Le salamandre cantano nel fuoco,
alzano la testa.
Più avanti si parlerà dell’acqua che indovina la paura dell’uomo e inferisce:

La piena
non potrà essere rinviata per molto ancora. Anche tu vedi bene
i segnali, i topi fuggono
e in alto quel volo confuso
di corvi.
Ma io
non sono dio. E tu
non sei innocente.
E se forse nessuno lo è
alcuni lo sono di meno
e li servi
e di nuovo lo sai.
Una chiosa in cui si avverte il timbro e la gravità del sacro.
L’incedere più disteso e narrativo, in contrasto anche tematico, si fa strada con l’ultima sezione, “Lo splendore”, dove l’emblema è il fuoco.
Lo splendore
L’acqua torna calma, il passo ritmico si distende, la fuga è conclusa. Pusterla rende implicito che il primordiale domina sulla Storia. In “Pizzo dei tre signori”, il verso detta:
Tre signori.
Il primo nome è la distanza,
il fuoco che brucia lontano,
con tenera angoscia;
poi viene mite il signore
dell’aria e del sangue, la piuma
che splende e scompare;
e infine il terzo è nome di pietra,
radicata nei millenni che dicembre
di avere pazienza e fiducia.

Ovidio a Tomi
In quest’ultimo suo tempo il libro vive ormai di emblemi e rinvii colti nettissimi: Ovidio esiliato a Tomi parla, chiosa, domanda. Gli ultimi versi de “I fuochi di Tomi”, sembrano voler rimettere in causa ogni sapienza per rintracciarne una più alta, distante dal chiasso infernale del XXI secolo, così come da quel selfie sul monumento dell’Olocausto. Per il nostro autore il poeta latino riflette:
Se manca tutto più chiara è la sorte
più terso il vivo fuoco e i suoi colori
più onesti. Forse anche tu lo sai.
Forse lo ignori. Ti appresti
a quali onori, a quali
olocausti?
Dalla letteratura contemporanea Pusterla richiama un altro poeta, Milo De Angelis, nella lirica che offre il titolo alla sezione . Il riferimento intreccia il motivo della vertigine della giovinezza e quello della misura: «No non di tutto è facile parlare. E in questo caso/bastano due millimetri a tagliare/ il tempo con la lama: due millimetri in più,/ due millimetri in meno, e tutto cambia,/ luce o buio, fiore o secca/definitiva. (…)». Il testo porge quindi questo inciso: «Millimetri: era il titolo/ di un libro molto amato,/ ma già ringhiava dentro,/ dura, la disadorna, falci e forbici/La vertigine dunque lasciamola muta (…)».
Nell’unità del tutto
Il fuoco è sempre in cerca di un’esca: «Ciangotta nell’erba?/Nelle felci? Nella terra rossastra su cui/ salgono svelte betulle, si allargano castagni?/Foglie autunnali, fiamme verso il cielo, scintille./ Fuoco scomparso, fuoco sempre qui./ Sera bigia di luci assorte.»
L’epilogo sembra comporre il referente etico del testo. La figura giovanile richiamata al termine del percorso nella poesia “Lucio”, è un nuovo invito shelleiano alla custodia del mondo sia pure nella sua implicita e feroce armonia: cosa guarda Lucio?
La cincia sopra il filo, il merlo in volo,
il cielo che rinnova
l’acqua d’abisso, il fuoco, l’ala verde
dell’anitra non sono altro da lui
La «vita che comincia nell’unità del tutto», scrive gli ultimi versi: «Porta ogni cosa in sé, porta anche noi.»
Marco Conti
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Fabio Pusterla, Cenere, o terra, pp. 220, Marcos y Marcos, 2018. €.20,00