Il romanzo dell’editoria italiana (2)

Gian Arturo Ferrari, ex direttore dei Libri Mondadori, si racconta narrando l’itinerario degli editori. I libri unici della Adelphi, le vicende di Mondadori e Berlusconi; i nuovi brand

Uno speciale contraltare di Einaudi, ma di altissima qualità, si definisce con la fondazione di Adelphi. Non per caso le fondamenta le costruisce Luciano Foà nel 1961, andandosene dalla Einaudi e portando con sé alcuni collaboratori come Giorgio Colli e Bobi Bazlen. Il capitale di partenza? Ci pensa il figlio di Adriano Olivetti, Roberto, con Alberto Zevi. Il primo passo è l’opera completa di Friedrich Nietzsche, al netto delle aggiunte dalla sorella del filosofo e con la competenza filologica di Giorgio Colli che restituisce l’opera in ben 22 tomi. Ma il banco di prova più importante sarà la “Biblioteca Adelphi”, «una collezione di libri letterari non categorizzabili in quanto deliberatamente “unici,  precipitati di fantasia e di vissuto che solo nella forma libro si solidificano e cristallizzano», scrive Gian Arturo Ferrari.

E per fortuna non c’è modo di dargli torto. Dopo i primi exploit la Biblioteca si è arricchita di testi, narrativa e saggistica, di indubbia qualità: da Strindberg a Grossman e Kundera (L’insostenibile leggerezza dell’essere fu un caso letterario clamoroso), dall’acquisizione di Landolfi  e Nabokov, alle opere di René Dumal, Marcel Granet, Emanuele Severino, a quelle riunite nella collana “Il ramo d’oro”.

 Feltrinelli e gli strani casi del “Dottor Živago” e del “Gattopardo”

Pochi anni prima, nel 1955,  erede di un capitale enorme (immobili, aziende in Austria, foreste, partecipazioni in società europee e statunitensi) Giangiacomo Feltrinelli mette insieme una squadra editoriale di tutto rispetto in cui spiccano i nomi di Valerio Riva, Luciano Bianciardi, Nanni Filippini, Mario Spagnol, Giampaolo Dossena. Con un imprenditore com’è Feltrinelli, di carattere ribelle, iniziano a pubblicare Bertrand Russel (Il flagello e la svastica)  e si avviano sulla strada dell’anticonformismo: di sinistra ma senza cipiglio. Arriva così due anni dopo la fondazione l’occasione che ogni editore vorrebbe: un caso internazionale, diritti da vendere, qualità dell’opera e – in più –in perfetta sintonia con il proprio temperamento: Boris Pasternak con il manoscritto inedito (e uscito dall’Unione sovietica di straforo) del Dottor Živago; sarà in libreria con 12 mila copie, poi ne venderà centinaia di migliaia e milioni nel mondo. Il Pci, perde l’occasione di stare zitto. Ferrari ricorda infatti che Rossana Rossanda scrive ad Alicata dicendo che i giornali appena l’hanno recensito e che finirà nel dimenticatoio. E invece…Ecco Collins e Gallimard che scalpitano per averlo, ecco New York con le vetrine inondate dal libro di  Pasternak a cui sarà a breve assegnato il Nobel.  Ma non è tutto.  Feltrinelli fa il “pieno” con un altro libro maltrattato: Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Lo hanno rifiutato tutti, Einaudi e Mondadori compresi, che in questo caso contano, entrambi,  sul giudizio di Vittorini. A voler incaponirsi sul nuovo, sia pure letterariamente inteso, si può far danni. E di fatto a dire sì al libro del principe siciliano sarà Bassani, una delle “Liale” arringate dal Gruppo ’63.

 Letteratura versus capitale

C’è da chiedersi, viaggiando con questo straordinario libro di Ferrari,  se questi ultimi trent’anni di editoria omogeneizzata dai diktat del profitto, avrebbero consentito non  la pubblicazione di un testo composto come Il Gattopardo, ma quelli di Pasolini e Gadda. Livio Garzanti negli anni del boom economico affida alla collana divulgativa “Saper tutto” il compito di far cassa ma pubblica su consiglio del poeta Attilio Bertolucci il romanzo Ragazzi di vita, una narrazione in una lingua gergale, frammentaria, in cui si parla di prostituzione maschile. Non contento l’editore dà la caccia a uno dei grandi del Novecento italiano, restio a mandare in vetrina le sue opere e di ardua lettura per i canoni ordinari: Carlo Emilio Gadda con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Più avanti è la volta di Fenoglio (portato via da Einaudi) e del giovanissimo Goffredo Parise.

 

Certo la questione del denaro non è ininfluente. L’autore e direttore della Mondadori lo sottolinea come meglio non potrebbe. Parlando delle sorti di Einaudi, scrive: «Il tallone d’Achille dell’Einaudi – sempre stato e sempre sarà – sono i soldi. Quelli che servirebbero, quelli che non ci sono. La casa editrice, per dirla in gergo tecnico, è cronicamente sottocapitalizzata. In parole povere non ha i denari sufficienti per sostenere, cioè finanziare, il grandioso programma in cui vuole impegnarsi.» Einaudi non cerca dei soci per non essere condizionato, ricorre ai prestiti e più tardi inventa la rateizzazione che – ancora oggi – è operativa con le varie agenzie Einaudi: dà al lettore la possibilità di acquisire molti libri con un piccolo esborso mensile. Ma i denari tornano lentamente.  Da qui nasce anche l’esigenza di “affittare” il proprio catalogo. Il che accade con la cessione alla Mondadori, nel 1957, del catalogo in edizioni economiche e per dieci anni. Gli Oscar Mondadori si avvantaggiano di titoli e autori di qualità e la casa editrice torinese può nuovamente respirare, così come  accade con la cessione del catalogo scientifico diventato patrimonio della Bollati Boringhieri.  Va detto peraltro sul fronte degli “economici” che il primo editore a creare una collana di grande tenuta fu Rizzoli su consiglio del suo direttore, Rusca: la Bur, fatta di classici della letteratura di ogni tempo e paese, si affacciò nelle librerie al costo di cento-duecento lire offrendo per ogni titolo una introduzione critica e traduzioni non raffazzonate.

Le cose cambiano. Einaudi in difficoltà;  Rizzoli  e “la P2”

Il primo sentore di concentrazioni pericolose nasce negli anni Ottanta. Mentre Einaudi cerca, senza riuscirci, di sopravvivere  editando una serie impressionante di grandi opere: la Storia d’Italia, la Storia della letteratura italiana, la Storia d’Europa, I Greci, La Storia di Roma,  e infine L’Enciclopedia Einaudi,  Rizzoli (siamo nel 1981) corre incontro alla catastrofe. Nel ’74 ha acquistato Il Corriere della Sera e sette anni dopo esplode il caso della Loggia massonica P2 a cui Angelone Rizzoli risulta affiliato con il suo factotum Bruno Tassan Din. L’amministrazione controllata mette una seria ipoteca sugli affari poiché anche gli autori non possono essere pagati. L’agente letterario Eric Linder – sottolinea Ferrari – finisce per trasferire tutti i “suoi” scrittori alla Mondadori: con Enzo Biagi anche John Le Carré, cioè due miniere. Ma i problemi investiranno ugualmente Segrate sotto un altro profilo: la Mondadori ha  fondato nel 1982  il  canale televisivo Rete 4 e la programmazione assorbe una parte gigantesca del fatturato. «Viene in soccorso Enrico Cuccia – spiega l’ex direttore di Mondadori –  che per evitare il fallimento costruisce una delle sue classiche scatole cinesi. Rete 4 viene ceduta a Berlusconi e la maggioranza della Mondadori, il 51 per cento, diventa una finanziaria la cui maggioranza, a sua volta il 51 per cento, resta in mano alla famiglia che in pratica con il 25 per cento mantiene il controllo dell’azienda.»

Ma qui già si può osservare l’anomalia italiana del connubio tra editoria libraria e mediatica, aggravato dalle vicende conflittuali che dagli anni Ottanta arriveranno alle soglie del nuovo secolo. L’autore di Storia confidenziale dell’editoria italiana recensisce i momenti importanti di questo percorso, ma la struttura del libro, a tappe alterne, tra vita vissuta, panorama editoriale ed episodi cruciali, non gli  permette una interpretazione complessiva di queste vicende. Di certo non ha cronaca esaustiva il percorso degli anni Ottanta tra l’acquisizione di quote della CIR di De Benedetti (che porterà L’Espresso in Mondadori)  e che vorrebbe ottenere la maggioranza della casa editrice milanese. Un progetto contrastato da Silvio Berlusconi il quale è già socio di minoranza. Da qui, come è noto, nascerà un lungo contenzioso giudiziario. La scaturigine sarà la morte del presidente di Mondadori Luca Formenton, marito di Cristina Mondadori, nel 1987. I due rami della famiglia si dividono con i rispettivi figli e «scendono in campo i rispettivi alleati, Berlusconi per Leonardo da una parte e De Benedetti, il partito Formenton-Debenedetti, grazie a un colpo di mano (o di stato?), prevale» commenta Ferrari.

La coda del drago

La storia del più grande editore italiano non è però finita con il capitolo De Benedetti. Di fatto la famiglia Mondadori-Formenton, forse sconcertata dai modi impositivi del nuovo presidente incaricato, cioè Caracciolo, fa una giravolta e vende le sue quote a Berlusconi che così le somma a quelle acquisite da Leonardo Mondadori.  Il seguito è guerra aperta nei tribunali. Il cosiddetto “Lodo Mondadori” si conclude momentaneamente solo nel gennaio 1991.

L’impero editoriale

Berlusconi diventa dunque il dominus di un impero mediatico con «tre reti televisive, il primo quotidiano italiano, un’infinità di altri giornali minori. i due principali news magazine. E non da ultimo una casa editrice di libri», chiosa Ferrari. E’ a questo punto che il presidente del Consiglio, Andreotti,  perché organizzi la spartizione. I libri con la vecchia Mondadori resteranno a Berlusconi ma il tema si riproporrà nel 1993 con la celebre «discesa in campo» del leader politico, tanto più che l’anno dopo Berlusconi vincerà le elezioni. Il frangente comporta, nel mondo letterario, qualche netto diniego: Sandro Veronesi e Walter Veltroni lasceranno la Mondadori. Ma Ferrari aggiunge alla questione di merito sul ruolo del leader in ambito letterario che Berlusconi non esercita alcun controllo diretto (il che, invece, secondo la testimonianza dell’autore, accade con Agnelli nel gruppo Rcs, quando Ferrari dirigeva il settore). Ci sono invece i conoscenti di Berlusconi che chiedono talvolta di pubblicare con la sigla di Segrate ma in quei contesti il leader di Forza Italia non impone niente. Invece, quando il giornalista economico Marco Borsa scrive «un libro non tenero su Agnelli, De Benedetti, Romiti, Ferruzzi, Gardini, Pirelli, intitolato Capitani di sventura, con la significativa omissione di Berlusconi», il dominus dell’editoria si ritrova chiamato in causa perché a un’assemblea di Confindustria «Romiti lo ha aggredito per via del libro. Romiti, nel suo stile, pensa che l’autore non conti niente e il direttore editoriale meno di niente. Secondo lui è stato chiaramente Berlusconi a ordire e ordinare questo agguato. Berlusconi mi ingiunge di ritirare il libro, l’ha promesso a Romiti, Io gli dico che non possibile perché i librai sono legalmente i proprietari delle copie che hanno acquistato, Ripiega sul divieto, assoluto, di ristamparlo. Lo ristampiamo due, tre volte senza scriversi copra “seconda edizione”, “terza edizione”».

Einaudi è in vendita

Anche Einaudi finisce tra le braccia di Mondadori. L’editore torinese dopo anni di amministrazione controllata può risolversi solo con la vendita. I candidati sono Guido Accornero (fondatore del Salone del Libro), Luciano Mauri delle Messaggerie Italiane che distribuisce Einaudi e proprietario con Mario Spagnol del gruppo Longanesi e Giorgio Fantoni, editore insieme a Emilio Vitta Zelman, di Electa. Prevarrà nel 1989 quest’ultimo che costituirà una nuova società accordandosi con Mondadori. Si chiamerà infatti Elemond, fusione dei due marchi. Il contratto stabilisce che «di lì a cinque anni (dunque nel ’94) uno dei due soci – presumibilmente Electa – potrà cedere la propria metà all’altro – presumibilmente Mondadori, che sarà obbligato ad acquistarla. In pratica è  una vendita a Mondadori rimandata di cinque anni».

Da questo nuovo accorpamento nasce anche un orientamento non più spiccatamente rivolto alla saggistica – aggiungo in margine al saggio di Ferrero –  come era nella tradizione einaudiana, ma un percorso narrativo che ha due orientamenti: gli autori di qualità letteraria più intellettuale (De Lillo, Roth, Auster, Modiano, Marìas, per restare tra gli “stranieri” ) verranno pubblicati da Einaudi e nascerà la collana dei tascabili  “Et”, secondo Ferrari il vero «pilastro economico della casa editrice». Resta però il fatto che, al di là del catalogo storico, la qualità einaudiana si è persa, né altrove nessuno ha la forza economica e la volontà per ritentare una analoga avventura di alto profilo e numero di titoli.

 I libri della Fiat

«La curiosa situazione per cui la medesima proprietà, la Fiat in ultima analisi, agisce nei libri con due braccia separate – la Rcs da una parte e il gruppo Fabbri (oltre alla Fabbri, Bompiani, Sonzogno ed Etas dall’altra – viene sanata nel ’90 quando il gruppo Fabbri confluisce (è acquistato) in Rcs». Dunque Berlusconi non è il solo a estendersi in quegli anni con grinta nell’impero di carta. Ma nel 2016 Fiat Chrysler lascia il gruppo. La Rcs Libri sarà acquistata per intero da Mondadori,  mentre i giornali, saranno acquisiti da Cairo Communication nello stesso anno.

Una mappa di sigle e concentrazioni

Se non la vetrina, dedicata ai best-seller e ai titoli più vendibili, gli scaffali delle librerie non sono forse mai stati così eterogenei in fatto di sigle editoriali. Almeno all’apparenza e al netto dei gruppi  che invece racchiudono, come il guscio delle noci, gherigli di nomi.  Gli editori che marciano in splendida solitudine sono pochi ma tra questi ci sono, per fortuna, alcune biblioteche di qualità: Adelphi innanzitutto, Sellerio, E/O, Neri Pozza, Nottetempo, Marcos y Marcos, Fazi, il Saggiatore, Cortina e naturalmente  La nave di Teseo, nata dal dispetto dell’omogeneizzazione per iniziativa di Umberto Eco quando ancora (ma qui è Ferrari a parlare) l’antitrust non si era pronunciata sulla Mondadori.   Dopo l’acquisto della Rizzoli Libri, l’antitrust chiese infatti l’alienazione di una parte delle case editrici. Bompiani, Marsilio furono così acquistate la prima da Giunti, la seconda da Feltrinelli.

A proposito di Feltrinelli, nel corso degli ultimi anni, l’editore ha proseguito la strategia legata alle librerie. Oggi rappresenta forse la prima catena di vendita nazionale. Ma nel 2005 dandosi la struttura di Gruppo con Carlo Feltrinelli ha acquisito non solo Marsilio ma Sonzogno, Gribaudo e in ultimo Crocetti, editore di poesia e fino a due anni fa dell’unica e forse più letta rivista di cultura poetica. Con il passaggio editoriale, la rivista è però cambiata: la cadenza è divenuta bimestrale, le recensioni sono scomparse, la grafica e l’edizione lussuosa ne hanno fatto un altro oggetto, prezioso ma meno ricco di contenuti. Nello stesso 2005 è nato anche il Gruppo Mauri Spagnol (Gems) «che comprende le case editrici pazientemente collezionate dagli anni Ottanta da Mario Spagnol e dunque, oltre a Longanesi, Guanda, Salani, Tea, Corbaccio, Ponte alle Grazie, Vallardi». Ma non solo. Del gruppo fanno parte Newton Compton e Chiarelettere, e soprattutto sia Garzanti che Bollati Boringhieri (dal 2009). Mondadori riunisce  invece con il suo brand storico, quelli di Einaudi, De Agosti, Sperling & Kupfer e Fabbri Editori. Ma naturalmente conta sul catalogo storico Rizzoli.

Un’ ultima compagine che, forse per la più discreta presenza in vetrina, rischia di essere dimenticato è Giunti Editore Spa. Ferrari ricorda che dopo l’acquisizione di Bemporad (poi divenuta Marzocco), il gruppo contava sul sempreverde di Collodi, Pinocchio, «maggior successo italiano di tutti i tempi e a quanto si dice il secondo libro più venduto nel mondo dopo la Bibbia».

 

Della fine degli anni Cinquanta è l’acquisizione di Barbèra. Dal ’75 Sergio Giunti orienta l’attività verso l’editoria d’arte e i libri per bambini. Ma ha creato anche una catena di librerie e, come si è detto, ha ottenuto Bompiani (e De Vecchi) senza venir meno a una attività editoriale legata all’infanzia di cui il capitolo forse più rilevante e recente è l’accordo, nel 2014 con Disney Italia e Marvel per i prodotti cartacei e digitali. Il fatturato è straordinario, oggi pare essere, sotto questo aspetto, il secondo editore italiano.

Marco Conti

(2-fine) 

Il canzoniere di Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli, una delle voci più originali del secondo ‘900 italiano, è morta ieri a Roma. Era nata a Todi nel 1947

«Vado, ma dove? oh dei!»

In questo incipit di Patrizia Cavalli, c’è una parte cospicua dell’originalità di timbro e temi dell’autrice. La poesia, inclusa nella raccolta L’io singolare mio proprio, con il registro giocoso e lieve che accompagna l’opera fino alle ultime battute, porta il lettore al centro del canone classico. Come l’intera opera anche questa è una lirica intessuta di amore e disamore, scaturita dall’assenza, dal dubbio, come altrove dalla vacuità dell’essere. Non a caso molte poesie cominciano con una domanda o un periodo ipotetico, non a caso il discorso si dissolve nell’attimo e nella circostanza richiamata dal testo attraverso lunghi enjambement. Ecco la lettura completa della poesia citata:

«Vado, ma dove? oh dei!»
Sempre al bar, al ristorante, nei musei
a ciondolare anoressica o bulimica
sempre tra le due madri
quella che mi ama falsamente
e mi vorrebbe privare di ogni cibo
e l’altra che mi ama falsamente
e mi vorrebbe uccidere di cibo,
e io costretta a uno dei due eccessi
o l’astinenza o l’incontinenza
e intanto guardo il bel viso di un ragazzo
sempre lontano dai miei veri amori
spinta al turismo da cerberi
infelici viaggiatori.

Come si è spesso chiosato,  la poesia di Patrizia Cavalli assume la scena di un momento, la quotidianità (parola detestata dall’autrice peraltro) per portare il verso all’incontro con un’assenza, un limite, ma essi stessi pronunciati con una voce che sottrae peso, che induce alla leggerezza e dove la rima sembra quasi fortuita nell’incedere idiomatico, gli accenti tonici un caso come quegli dei che baciano i musei al secondo verso.

L’iperbole al rovescio e il classicismo

Il carattere che struttura fin dagli esordi il mondo di queste pagine è quello della riduzione: riduzione dell’io lirico, presente ma dimesso, e riduzione del tempo storico a incidentalità.  Il titolo del primo libro, Le mie poesie non cambieranno il mondo,  vive sotto questo segno benché  sia stato scelto da Elsa Morante…Nel 1974 (data della pubblicazione) la titolazione assertiva sembra infatti un annuncio polemico fatto per sottrarsi al dibattito intellettuale in corso. L’iperbole retorica percorre così ampiamente il senso più raro della figura. E fin dall’inizio è una contingenza dichiarata, non una epifania, a dare energia al testo facendo convergere ogni elemento ai confini di quanto è pronunciabile.

Anche quando sembra che la giornata 
 sia passata come un’ala di rondine, 
come una manciata di polvere
 gettata e che non è possibile
 raccogliere e la descrizione 
il racconto non trovano necessità
 né ascolto, c’è sempre una parola 
una paroletta da dire
 magari per dire 
che non c’è niente da dire.

Il contrappasso è clamoroso: si addensano in questi versi con l’evocazione (in assenza) del crepuscolo, la fugacità (l’ala di rondine) e l’inconsistenza del reale (una manciata di polvere) mentre l’ispirazione è contraddetta per affermarsi: la descrizione e il racconto non trovano necessità, tanto che una paroletta espressa coincide con la sua vacuità. Eppure mentre il dibattito critico ferve intorno alla neo-sperimentalismo e l’orfismo, mentre la poesia diventa oggetto tematico, Patrizia Cavalli adopera gli strumenti del canone per ribaltare ogni pretesa necessità intrinseca nel lavoro letterario del tempo. E’ vero che risulta frequente qui la pronuncia dell’epigramma diaristico («Ma per favore con leggerezza/ raccontami ogni cosa/ anche la tua tristezza», scrive nella stessa raccolta d’esordio) ma in realtà – e senza il ricorso a quella adesione del verso al modello del sonetto come farà negli anni ’80 Patrizia Valduga – proprio questo primo libro sembra incuneare la “prosa”, l’idioma, a cui tendono molti versi degli anni Settanta nell’alveo della classicità e di una indefettibile chiarezza. Dato che inserisce Patrizia Cavalli in una linea di tendenza alla pronuncia classica del verso, linea che congiunge Saba a Penna e a cui sono tutt’altro che estranei sia Pasolini, sia Dario Bellezza. Nel fervore un po’ artefatto della critica engagé, la poesia di Cavalli piacque anche ad Alfonso Berardinelli, polemico nei confronti della lirica “oscura”.

Il cielo

La seconda raccolta, Il cielo (1981) privilegia il tema dell’assenza, del disamore, non senza una sottostante visione filosofica. Ecco in apertura del libro il “paesaggio emotivo” con immagini decisive della vacuità e del desiderio:

Quella nuvola bianca nella sua differenza 
insegue l’azzurro sempre uguale:
lentamente si straccia nella trasparenza
 ma per un po’ mi consola del vuoto universale. 
E quando cammino per le strade 
e vedo in ogni passo una partenza
vorrei accanto a me un bel viso naturale. 

Più avanti l’assenza riprende corpo ed è allora marcatamente la banalità dell’ambiente familiare a controbilanciare una “nuvola che si scolora” con la sua promessa di libertà. Anzi è la prigione delle passioni, confermano i versi di Patrizia Cavalli, ad essere desiderata:

Adesso che il tempo sembra tutto mio
 e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
 adesso che posso rimanere a guardare
 come si scioglie una nuvola e come si scolora,
 come cammina un gatto per il tetto
 nel lusso immenso di una esplorazione, adesso 
che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte
 dove non c’è richiamo e non c’è più ragione 
di spogliarsi in fretta per riposare dentro 
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta, 
 adesso che il mattino non ha mai principio 
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
 a tutte le cadenze della voce, 
adesso vorrei improvvisamente la prigione.  

E’ forse uno dei testi più belli e compatti della silloge dove il discorso monologante cresce e si carica di tensione attraverso l’iterazione quasi percussiva dell’avverbio adesso.

Pigre divinità e pigra sorte

Risalendo tra gli esiti e le matrici, in Pigre divinità e pigra sorte (2006) dopo Sempre aperto teatro (1999), sembra che Patrizia Cavalli radicalizzi l’interrogazione filosofica, ne voglia osservare l’ampiezza come aprendo un ventaglio. Un versante che diviene cospicuo perché se la scena quotidiana, il gioco del «Sempre aperto teatro»  sono state le costanti, altrettanto decisivi sono l’orrore della gratuità esistenziale e le domande esplicite sull’identità e il tempo. Tant’è vero che la compattezza dell’opera appare indiscutibile, come ha scritto John Ashbery  in poche parole presentando nel paratesto la traduzione americana: «Come Emerson Patrizia Cavalli dice sempre la stessa cosa e ogni volta è incredibilmente fresca e sorprendente. Il mondo cambia raccontandolo». Ed eccoci quindi a ridosso di quella scorrevole discorsività che contraddistingue i testi della Cavalli: l’incontro con il nume, con la fortuna, o meglio con l’ineffabile casualità del mondo.

Pigre divinità e pigra sorte
cosa non faccio per incoraggiarvi,
quante occasioni con fatica vi offro
solo perché possiate rivelarvi!
A voi mi espongo e faccio vuoto il campo
e non per me, non è nel mio interesse,
solo per farvi esistere mi rendo
facile visibile bersaglio. Vi do
anche un vantaggio, a voi l'ultima mossa,
io non rispondo, a voi quell'imprevisto
ultimo tocco, rivelazione
di potenza e grazia: ci fosse un merito
sarebbe solo vostro. Perché io non voglio
essere fabbrica della fortuna
mia, vile virtù operaia che
mi annoia. Avevo altre ambizioni, sognavo
altre giustizie, altre armonie: ripulse
superiori, predilezioni oscure,
d'immeritati amori regalie.

L’ultimo tempo

Elsa Morante con Bernardo Bertolucci, Adriana Asti, Pier Paolo Pasolini.  Elsa Morante propiziò l’esordio del primo libro della Cavalli, “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (1974), una sorta di controcanto del libro della Morante, “Il mondo salvato dai ragazzini” del 1967

Il desiderio di conoscere e la prospettiva etica dell’esistenza, si fanno più perentori negli ultimi due libri: Datura nel 2013 e Vita meravigliosa nel 2020. I paesaggi interiori prima articolati con poche movenze e immagini, emergono in entrambi i libri ma in “Datura” prende corpo una voce a tratti più ampia di volute monologanti. Lo stesso titolo,  allusivo della pianta che induce la visione (Datura Stramonium),  sembra allontanare la poetessa dal dato circostanziale, dall’immagine colta al volo mentre  resta quasi immutata  l’essenzialità del dettato. La lirica “Ma io non voglio andarmene così”  esprime con assoluta chiarezza la ricerca svolta in poesia assumendo proprio la lingua poetica come tema:

Ma io non voglio andarmene così, 
lasciando tutto come ho trovato 
in questa scialba geografia che assegna
 l’effetto alla sua causa e tutti e due consegna
 all’umile solerzia dell’interpretazione.  
Un altro è il mio progetto, la mia ambizione
 è accogliere la lingua che mi è data
 e, oltre il dolore muto, oltre il loquace 
il suo significato, giocare alle parole
 immaginando, senza un’identità, una visione.  

Altrove, nello stesso, libro Patrizia Cavalli dispiega un verso poematico. Così accade in La patria e L’angelo labiale. Ma sorprende soprattutto un terzo poemetto, La maestà barbarica. Qui l’autrice  dà voce alla fisionomia di un personaggio per parlare di poesia, di una donna invischiata nella propria capacità retorica. Tanto che dalla terza persona Cavalli passa alla prima per soggiungere: «Io non oso parlarle, / ma la guardo sempre, / discosta e laterale. Ogni giorno/ ho bisogno di vederla. se non la vedo, la vado a cercare (…)». La ricerca, l’interrogazione, trascorre dal passato al futuro con Vita meravigliosa  dove l’immaginario torna formalmente dentro le misure consuete dell’autrice per chiosare intorno all’ultimo approdo, ad un paradiso incerto come ogni cosa: «prima di morire/ forse potrò capire/ la mia incerta e oscura condizione/. Forse per non morire/continuo a non capire/sicura in questa chiara confusione.»  Il predominio del tema, che isola e percuote, non toglie leggerezza al verso a cominciare dal poemetto dedicato all’autrice e amica scrittrice, Con Elsa in paradiso, per proseguire e voltarsi per traguardare l’esiguità del suo tempo. «Ma quel che ho visto si è tutto cancellato./ E quasi non avevo cominciato». Sbagliava Patrizia Cavalli parlando di un disegno incompiuto. La tela in questione è qui, forte più di quanto non prometta molta poesia di ieri e di oggi.

Marco Conti

Amelia Rosselli, il desiderio e la letteratura

AMELIA ROSSELLI 1997

Più di qualsiasi altra opera poetica del Novecento italiano, quella di Amelia Rosselli sembra formarsi omogenea intorno a un paesaggio di esclusione dove l’identità è frantumata e la follia riconosciuta come un non vedere, un non sapere. Nelle sue pagine non si incontrerà mai la voce orfica delle visioni salvifiche, né si fa strada quella incantata accettazione della vicenda esistenziale, come avviene nella lirica avvolgente di Alda Merini, ugualmente segnata da una lunga malattia mentale.

La poesia di Rosselli, da Primi Scritti a Documento, porta con sé l’autentica forza eversiva delle opere assolutamente necessarie. La sua poetica nasce dal continuo distruggere e riplasmare la lingua in cerca di una possibile forma. Stare sull’orlo del codice linguistico, come stare sull’orlo incerto della coscienza, in ascolto del proprio sé,  è la condizione che ne ha contrassegnato l’opera e la vita. Il suo verso, così come è avvenuto per le ossessioni persecutorie che l’hanno accompagnata nella quotidianità[1], pare procedere da una continua inconclusa scoperta del mondo, con i rischi che vi sono connessi, con i tracolli e le rivelazioni di nuove possibilità. Tra queste, il presunto lapsus  rilevato da Pier Paolo Pasolini e che  Rosselli rivendicò invece come «invenzione linguistica»[2].

L’itinerario poetico

L’intero suo corpus  poetico  parla attraverso una continua instabilità semantica da cui proliferano nuove possibilità di senso.  Meno visitato ma ugualmente ricco di energia, è invece il paesaggio lirico disegnato da un lessico che compone  ossessivamente la nozione di marginalità: sia sotto il profilo dell’esperienza, nel mondo controverso della Storia e nel vissuto dei ricoveri ospedalieri, sia, e a maggior ragione, nella straordinaria immaginazione analogica.

La lingua segue questo percorso di vagabondaggio dal mondo della Storia (e della sua presunta idealità) verso quello di una poesia intesa come spazio autonomo, come luogo distante e solitario omologo a quello della soggettività. Ne La Libellula, leggiamo: «La giacchetta di tutte le destrezze mi pigliava/ forte sul lato debole: oh io amo forse le colline e le fresche brezze e le verdescuro pinete, che i giganti passi dell’uomo”»[3].

Panegirico della libertà

Lo stesso poemetto, che risale al 1958, porta il sottotitolo “Panegirico della libertà” aprendo con ciò il sipario di due campi semantici opposti. Nel primo c’è la simbologia trasparente e immediata della libellula (con il suo librarsi, con il «movimento rotatorio delle ali della libellula» e il rinvio all’omofono «libello», come annota l’autrice al termine del libro), nel secondo si richiama il modello retorico della lode, appunto il “panegirico” e dunque una convenzione. Nell’intervista fatta da Giacinto Spagnoletti[4], Rosselli sottolineò questa ironia fondata dallo scarto tra il vissuto mondano (il panegirico) e l’immagine personale della libellula come traslato della poesia. Questo primo porsi nell’alterità  immerge il lettore nella terra straniata che si troverà  nei versi successivi dove la poesia sembra avvertita come antitesi al vivere e soccorso all’esclusione. Più esplicitamente nei testi lirici in inglese di Sleep scritti tra il 1953 e il 1966, quindi nello stesso arco di tempo che vede nascere La Libellula, si trova questa opposizione: «Un tenero sonetto è tutta la forza che ho/ di creare, piena facile vita che io ho sempre e poi sempre/ di nuovo e di nuovo distrutta, ma era dio a gridare/ dentro di me spegnete tutte/ le luci! Nessun amore sia concesso a colui che/ odia ogni amore  tranne la vita/ scritta su carta, là scorre il mio/ seme folle alla morte».

L’esilio

Il tema dell’esilio del poeta, qui addirittura motivato da una sorta di trascendenza, sarebbe da ascrivere al mito romantico non vi fossero incluse nel breve cerchio di questa rappresentazione anche le nozioni della  punizione e della scrittura come colpa. Poesia come assenza, dunque, e poesia come eccesso. Sull’altro versante, l’esistenza appare ustionante, una autentica discesa agli inferi poiché ogni cosa, slancio, sentimento, scelta, ha una metà destinata al male. In Variazioni Belliche (edito nel 1964, ma nel quale il primo gruppo di poesie risale al 1959) Rosselli  affida all’anafora questa progressiva caduta: «L’inferno della luce era l’amore. L’inferno dell’amore/ era il sesso. L’inferno del mondo era l’oblio delle/ semplici regole della vita: carta bollata ed un semplice protocollo».

La lingua instabile

Linguisticamente la sua opera continua ad adoperare una struttura sintattica discorsiva ma, inaspettatamente, quasi sempre subordinata al dominio di immagini dotate di  una prepotente visualità fitta di elementi simbolici: «Io mi fingevo pazza e correvo a sollevare i pazzi dal suolo, fiori spetalati»; «Temo la rossa onda del vero vivere, e le piante che ti dicono addio»; «La pazzia amorosa non è che una stella filante nel deserto. Il mio corsetto mi stringe troppo forte»[5].

La follia stessa, con l’isolamento che vi è implicito,  diventa un tema perlustrato, frammentato in paesaggi, spazi  domestici, servitù quotidiane e in squarci allegorici dove l’esperienza del male, sempre allusa e spesso intesa metafisicamente, sovrasta l’intera esistenza. «Io sono una – scrive ancora in La Libellula– fra/ di tanti voraci come me ma per Iddio io forgerò/ se posso un altro canale al mio bisogno e le/ mie voglie saranno d’altro stampo». Ma non ci sarà nella vicenda di Rosselli ribellione diversa da quella promessa dalla poesia.

Disamore

L’io e il travaglio della propria esperienza interiore si travestono con gli elementi di un paesaggio funestato, avverso, gonfio di segni premonitori e di calamità conseguenti al disamore, con tratti espressionisti che, qualche volta, sembrano richiamare la desolata brughiera di Emily Bronte. Così è per il paesaggio della campagna  battuta dal vento, lacerata dalla tempesta, che si rivela essere la sentenza di un amore funesto: «Sono così sola e ti amo tanto, il vento morde in mezzo alla campagna, gli opuscoli volano nei miei occhi e tutta la grandine dice: “Non sei dei nostri”»[6]. Altrove il grumo del disamore ha per emblema una capanna desolata: «Vi è solo ombra attorno alla capanna, solo/ monti  morti e vuoto attorno il mio segreto».[7] In Diario Ottuso, cheraccoglie le uniche prose rosselliane, scritte tra il 1954 e il 1968, un’allusione sembra richiamare il ruolo e l’irruenza dell’inconscio nella scrittura: «Intenta a descrivere il paesaggio mi intromisi, ne sgorgava irrequieta la scena primaria: trottole, caverne, demistificatorie scene». L’intensità del linguaggio simbolico viene allora a ridosso di una vertigine. Con il surrealista  Jacques Rigaut si potrebbe dire che la follia definisce l’evenienza in cui la persona perde il proprio specchio e l’amore resta l’irraggiungibile altrove, che presuppone il riconoscimento di sé attraverso l’altro.

Viceversa «quello stormire violento di uccelli, quel loro vezzoso/ rialzarsi in sciami dagli alberi più duri» e «quel loro posarsi sulle punte più sottili», «questo», soggiunge Rosselli,  «è il tuo desio», osservando così l’oggetto della propria passione, «che sorvola» i suoi «monti d’angoscia»[8]. Il binomio di eros e solitudine corre in filigrana in tutta l’opera dell’autrice, spesso anche attraverso una dichiarata valenza erotica che amplifica l’intensità emotiva e l’inavvicinabilità dell’esperienza talvolta in modo esplicito, là  dove il desiderio prende la strada della passione e del gioco alliterativo: «Per le notti che presero la lungaggine/ di un infarto rimai lussureggiante lussuria permanente»[9].

Documento

Nei versi di Dialogo con i Morti in Documento, il desiderio tocca l’assunto batailliano[10] per cui l’amore è l’approvazione della vita fin dentro la morte: «E il massacro volge in lussuria: e/ la lussuria in estasi contemplata nel/ grano sifilitico che s’attorciglia al/ mio collo, stremato dai troppi abbandoni.// Abbandonarsi al vuoto sesso e poi ritenersi/ anche insudiciati dalla nera pece del/ fare». Ancora con il filosofo francese si delinea come necessario il parallelo tra  l’esperienza erotica, in sé inavvicinabile nel suo eccesso, e la solitudine.

L’ultima raccolta di poesie, riconferma anche l’impossibilità del dialogo e rivisita ancora una volta l’universo frantumato della propria diversità. E’ il luogo dove «i fiori vengono in dono e poi si dilatano», dove il mondo «è un dente strappato» ma anche una fragile superficie «sottile» e piana in cui «pochi elefanti vi girano, ottusi». Il sentimento di esclusione, la «solitudine quadrata», la «stella nera» del destino,  tornano a confrontarsi inutilmente con il desiderio e ad accendere l’ “eccesso” della letteratura.

Marco Conti

Note:

[1] Amelia Rosselli, “Storia di una malattia”,  in «Nuovi Argomenti», ottobre-dicembre 1977.

[2] Giacinto Spagnoletti (a cura di)  Antologia poetica, Garzanti, Milano, 1987.  L’antologia contiene una intervista del curatore del volume in cui  Rosselli spiega che, a suo avviso, «il  lapsus sarebbe dimenticanza mnemonica, mentre l’invenzione linguistica è di solito conscia», p. 157.

[3] Amelia Rosselli, La Libellula. Panegirico della libertà, SE, Milano, 1985, p. 15.

[4] Giacinto Spagnoletti, op. cit  p. 157

[5] Amelia Rosselli, Variazioni belliche,  in Le Poesie, Garzanti, Milano, 1997. Le tre diverse citazioni esemplificative contenute nel paragrafo sono tratte dalla stessa raccolta.

[6] Amelia Rosselli, Serie Ospedaliera in Le Poesie, op. cit. p. 403.

[7] Amelia Rosselli, ibidem. p. 400

[8] Amelia Rosselli, Variazioni belliche,  in Le Poesie, op. cit. p. 189.

[9] Amelia Rosselli, Serie ospedaliera, in Le Poesie, op. cit. p. 356.

[10] Georges Bataille, L’erotismo, Mondadori, Milano, 1972


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