Una sera, non molto tempo fa, volevo raccontare una storia. Immaginavo di farlo intorno a un tavolo, come un tempo davanti a un camino. Gli ingredienti c’erano tutti e ad essere sinceri ricalcavano un cliché che avevo sempre trovato fastidioso: una notte piovosa, il vento che spazzava le prime foglie cadute, la giornata festiva che sarebbe seguita. Ma dopotutto non dipendeva da me. La storia che volevo raccontare parlava di uno scrittore, dei suoi personaggi vagabondi e di quanto quei vagabondi assomigliassero agli eroi delle fiabe. Ero rimasto nell’incertezza fino all’ultimo. Mi dicevo che le fiabe erano – e letteralmente sono – storie troppo vecchie per piacere o sorprendere davanti alla mole di immagini e intrecci dei romanzi.
Ad ogni modo mi trovavo ormai sul posto. Accese le luci, acceso il fuoco nella stufa, mi ero messo a sedere. Ma dopo una decina di minuti ancora non vedevo nessuno. Un corteo celebrativo con fiaccole e microfoni aperti era passato davanti alla casa sciogliendo nell’aria un brusio sottile come una polvere e poco dopo si era slacciato in una piazza cupa, troppo grande anche per le celebrazioni.
Così ero salito in auto pensando che una partita a biliardo non sarebbe stata una cattiva idea. In città c’era un locale con undici tavoli di biliardo aperto sette notti su sette. Le tende scure che drappeggiavano le pareti, i neon accesi sui panni verdi e un vecchio mobile intarsiato dove i proprietari tenevano i giochi della dama e degli scacchi, mi rendevano familiare l’atmosfera di un vecchio film. Se Paul Newman fosse improvvisamente entrato, labbra increspate, occhi luminosi e stecca alla mano, avremmo cercato di vedere dov’era la cinepresa, lasciando in disparte il tempo e qualsiasi brandello di ragione.
Quando Augusto mi venne incontro all’ingresso abbracciandomi non avevo ancora raggiunto il biliardo e, senza lasciarmi dire niente di più di qualche saluto, mi invitò al suo tavolo.
Augusto era stato mio insegnante e neppure trent’anni prima assomigliava al suo nome. Piccolo, macilento, la faccia rossa intaccata da due rughe alle guance… Ora con il giubbotto di velluto e la barba bianca fin sotto gli occhi, sembrava più a un pastore che ad un insegnante in pensione. Mi resi immediatamente conto che il professore mi parlava come fossero passati pochi giorni dal momento in cui avevo lasciato la scuola.
Dopo aver ordinato due birre cominciò a interrogarmi. Da dove arrivavo a quell’ora della notte? Davvero insegnavo anch’io? Avevo in mente di raffrontare i vagabondi delle fiabe con Paul Auster e magari anche con Samuel Beckett, infilandomi in un ginepraio di citazioni? Ero troppo colto o troppo ingenuo? E perché non avevo continuato a scrivere quelle poesie?
Augusto era uno dei miei primi lettori e probabilmente tanto gli era bastato, o forse, semplicemente, non aveva avuto notizia di quello che avevo scritto dopo.
«Te la ricordi la fiaba di Basile? Voglio dire Il Pentamerone…La fiaba dei Tre cedri che vi avevo spiegato guardando quei pioppi andati a male nel cortile?»
Mi fece la domanda mentre seguiva con gli occhi la ragazza che ci aveva appena serviti.
La ricordavo ma in quel momento mi infastidiva il suo tono e la voglia di salire in cattedra. Dissi: «Vagamente…»
(1 – continua)
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