(2- segue)
Napoli andata e ritorno
«Vagamente è troppo poco».
«C’era un principe se non sbaglio che cercava la sua sposa e la trovò nei frutti di cedro…»
«E’ così o meglio…Se non vogliamo fare di ogni erba un fascio le cose sono più interessanti. Allora…La storia dice che il padre, il Re in questione, voleva una discendenza ma il figlio, il principe Cenzullo, non ne voleva sapere. Un bel giorno tagliando una ricotta si ferì a un dito e fu affascinato dal sangue sgorgato sul latte. Sta di fatto che in quel momento decise di partire per cercare una ragazza bianca e rossa come quel latte…»
«In genere – interruppi – il principe cerca tre mele rosse e quando le apre sente una vocina, ecco allora spuntare la fata.»
«Già, ma nel nostro caso Cenzullo naviga mari, perlustra terre e alla fine capita nell’isola delle Orche dove incontra due vecchie che gli consigliano di scappare lontano: “Squaglia di qua se non vuoi servir da merenda”, dice la seconda vecchia. Ma saprai che questo ricordo mi viene dal mio caro Croce, che ha tradotto dal napoletano il libro…. saprai che Basile scrisse le fiabe nel milleseicento…».
La mia irritazione a quel punto gareggiava con la curiosità. Partito con l’intenzione di raccontare i modelli della fiaba nel nostro gruppo di lettura, mi toccava risentire una storia che avevo letto almeno tre o quattro volte. Ugualmente, mentre lo invitavo fuori dal locale per poterci accendere una sigaretta, mi resi conto che per Augusto sarebbe stato umiliante se non lo avessi fatto finire. Così mi raccontò del terzo incontro decisivo, di come alla fine Cenzullo si trovò in un boschetto “dove le ombre facevano palazzo ai prati perché non fossero veduti dal sole”. Smontato da cavallo vicino ad una fontana il ragazzo cominciò a tagliare il primo cedro vedendo spuntare la fata che gli chiese da bere, e troppo meravigliato per la sorpresa, la vide anche scomparire.
«Sì – continuò – anche qui il numero tre è magico. Solo all’ultimo momento intagliando il terzo cedro avviene il miracolo. Esce la fata, chiede di poter bere, e lui gli porge l’acqua. Ecco allora una bellezza paragonata alla soppressata di Nola e al prosciutto d’Abruzzo. Ma è nuda e così decide di nascondere la fata sopra un albero; riprende il cavallo e va a preparare le nozze dicendole che tornerà con i vestiti che debbono vestire le principesse. Il resto è noto…»
Non ero affatto d’accordo. Il resto era importante ma il professore in un attimo si era rabbuiato come se gli fosse venuto in mente qualcosa di sgradevole. Tirò fuori da una scatola un sigaro e ci volle un minuto buono per scartarlo e accenderlo. A quel punto io avevo cominciato a raccontargli quanta importanza avesse dato Paul Auster alla narrazione orale e come in alcuni romanzi si ritrovassero le stesse situazioni della fiaba. Certo la conclusione dello scrittore non poteva essere la serenità ritrovata, i denari disseppelliti eccetera eccetera…Anzi i protagonisti non concludevano la ricerca o quando lo facevano il finale non era consolatorio.
Avevo l’impressione che Augusto non mi ascoltasse più; rientrammo al caldo della birreria, e questa volta il mio amico ordinò due whisky, chiedendomi soltanto dopo se volevo altro.
«La storia di Cenzullo – riprese con una voce mogia che non gli conoscevo – è che quando arriva alla fontana non trova più la fata ma la saracena, la serva che ha preso il suo posto e così torna al paese scornato con una sposa miserabile, o come dice lei stessa “un anno faccia bianca, un anno culo nero”».
«Dimentica una parte professore…»
«Mah…a me sembra che la sostanza sia questa».
«La colomba e il finale sono importanti»
«Già…fossero rose e colombe, lo sarebbe…»
Non raccolsi il commento. Dissi: «La saracena alla fontana ha infilato uno spillone in testa alla fata e subito una colomba è volata via mentre l’infingarda ha preso il suo posto. E poi il finale, lo sa meglio di me, è decisivo. Quando celebrano il matrimonio con la serva nera appare una colomba che la saracena fa uccidere per mangiarsela. Allora il cuoco…»
«…Il cuoco esegue l’ordine e butta via l’acqua della bollitura nel cortile. Tre giorni dopo sorge un cedro e nel giro di altre tre giornate spuntano i frutti. Il Re vuole mangiarli ma ecco che gli nascono di fronte una, due, tre fate. L’ultima è quella di Cenzullo. La serva è messa al rogo e la fata diventa principessa».
«Allora se la ricordava!»
«Un altro!» Augusto voltò la sedia verso di me: «Mi faresti un piacere se fossi meno formale. Manca solo che mi dai del ‘voi’ come nel Ventennio…».
Mi raccontò che quella fiaba la conosceva quasi a memoria ma che per lui la storia finiva quando la saracena prendeva il posto che non le spettava.
C’era stato un giorno, mi disse Augusto, in cui aveva lasciato casa:
«Fu subito dopo l’università ma ero un Cenzullo che non sapeva dove andare e che non aveva neppure l’auto. Sono salito su un treno e mi sono detto che sarei andato giù fino a Napoli dove un amico mi aveva invitato qualche mese prima. Non sapevo se davvero sarei andato a trovarlo, ero soltanto disgustato per quello che mi succedeva intorno. La fidanzata aveva rotto tirando in ballo delle storie ridicole e, per rincarare la dose, avevo perso il posto di supplente dai salesiani nel momento in cui ne avevo più bisogno».
Mi chiedevo se il giorno dopo si sarebbe pentito di questa confessione. Cercai di scherzarci sopra e siccome non la smetteva, alla fine mi dissi che non toccava a me togliermi dall’imbarazzo.
Mi parlò di una certa Sara, di una ragazza che aveva conosciuto tramite il suo compagno di studi. Sembrava che andassero d’accordo e «un bel giorno – riprese – eccomi convinto…Ah c’era un albero di fichi nel cortile dove viveva, era da vedere, ritorto come un ricamo abbandonato, sembrava davvero di stare fianco a fianco al Basile. Ma i soldi stavano per finire. Me ne sono andato e sono tornato la settimana successiva. Al suo posto non c’era nessuna saracena e men che meno una serva. Lei era esattamente la stessa, bianca e rossa, trecce nere, un culo che faceva girare la testa anche agli asini».
Augusto si fermò qui. Si rimise il giubbotto, andò alla cassa dove non riuscii a pagare nulla di quanto avevamo ordinato.
(2 – continua)