
Sul finire di giugno le strade sono deserte. Gli ingressi alle porte della città sono presidiati giorno e notte. L’ordine è di stare in casa. E’ previsto che i trasgressori siano frustati e siano loro confiscati i beni. Chi ha un campo può però andare in campagna con la propria famiglia. Chi ha delle granaglie da macinare porterà i sacchi fuori dall’abitazione del mugnaio che consegnerà poi il macinato sull’uscio di casa del proprietario, oppure davanti ai forni dei panettieri, il tutto coperto con un pezzo di stoffa. E’ il 23 giugno 1599 quando il medico Giovanni Battista Piana scopre il primo caso di peste nel piccolo rione di Cossila.
I primi allarmi a Torino 23 anni addietro
La città era già sottoposta a norme precauzionali fin dal 1576, quando il Magistrato della Sanità di Torino aveva emesso un’ordinanza che vietava a tutti, laici ed ecclesiastici, di entrare nei territori sabaudi se provenienti dai centri dove vi erano stati casi conclamati del male. Neppure sulle strade aperte gli osti potevano accogliere gente che arrivasse da Venezia, Mantova, Vicenza, Milano e persino da Seregno, da Monza, Voghera, Merignano, da tutto il Tirolo, da Sicilia e Calabria. Ma per un ventennio le norme furono un colabrodo con qualche eccezione: il 10 maggio 1576 due mercanti di tela di Occhieppo (un altro centro nel Biellese) vennero fermati e interrogati dal Podestà. Venivano da Palestro e per sicurezza furono messi in quarantena in una cascina fuori dalle mura in attesa dei pareri dei medici. Sempre per sicurezza il Podestà in quello stesso anno ordinò che chiunque avesse dei parenti in viaggio fuori dal Biellese dovesse fornire indicazioni del posto in cui si trovavano.
Scarseggiano le granaglie
Quando arriva il peggio, nell’estate e autunno 1599, Biella è già in difficoltà: poche risorse alimentari (le granaglie arrivano dall’esterno), un debito comunale e territoriale consistente, i commerci impediti di fatto, mentre la necessità di procacciarsi le scorte alimentari è impellente. Da alcuni mesi i notabili hanno lasciato il centro cittadino e si sono rifugiati in campagna, nelle ville, nelle cascine, come durante le epidemie del medioevo.

Chi è colpito muore in una ventina di giorni
Chi è colpito dal male muore in una ventina di giorni, in qualche caso ne bastano tre o quattro. I medici si affacciano sulla porta e, se il caso è sospetto, li inviano nel lazzaretto. In breve Biella ne avrà due, fatti di capanne, con un guardiano e qualche inserviente. I monatti, una trentina, vengono reclutati in Lombardia e pagati come meglio possono consentire le finanze pubbliche. Ciò non toglie che il primo caso di peste conclamato quel 23 giugno 1599 venga represso con una drastica decisione da cui emerge più il terrore che l’intelligenza: la casa del malato, Antonio Ramella, viene data alle fiamme. E poiché l’incendio è eseguito male, va a fuoco anche la casa della vicina Giovanna Ramella. Il provvedimento successivo non è meno severo: si inviano delle guardie intorno a Cossila e si vieta che gli abitanti escano dalla borgata. Naturalmente è fatica sprecata. L’estate si annuncia torrida e avarissima.
Zolfo, arsenico, salnitro, resina di pino

Al minimo sospetto vengono fatte disinfezioni secondo una formula prescritta dal Magistrato torinese. Vengono cioè impregnate delle carte con un composto fatto di zolfo, salnitro, arsenico e resina di pino. Poi si bruciano i fogli stanza per stanza. Il Comune assolda altri tre medici per visitare tutte le case mentre alle porte della città le guardie hanno l’ordine di non lasciare passare nessuno senza il documento di certificazione chiamato Bolletta di Sanità. Gli stessi abitanti dei rioni esterni a Biella non possono varcare i portoni con l’eccezione dei residenti di frazione Barazze. All’epoca esistono ancora solide mura: sulla collina, al Piazzo, da Porta Torrazza al Vernato; a Biella Piano da Riva verso sud e verso San Cassiano. Ognuno diventa sorvegliante del vicino e la paura lascia pochi varchi aperti. Forse solo nelle magre campagne circostanti e sulle montagne si respira con tranquillità. Tanto vale uscire verso i boschi, rientrare a notte, raccontare la propria storia proprio come nelle giornate della lieta o meno lieta brigata dei novellatori inventati da Boccaccio.
Il primo lazzaretto
Il primo lazzaretto viene recintato in un prato appartenente a Giacomo Boglietti; un secondo viene fatto ai confini con regione Monté. I guardiani sono incaricati di evitare le fughe che, comunque ci saranno, proprio verso la fine dell’epidemia. Intanto si sparge la voce: dei casi di peste si sono già avuti anche a Zubiena, Cerrione, Alice, Cigliano dove il Biellese acquista il grano e le farine. Dal 19 ottobre 1599 a dicembre dello stesso anno vengono portate nel lazzaretto di Biella 130 persone, ne moriranno 75; 170 sono le case disinfettate. Chi viene portato al lazzaretto e se la cava, si è salvato due volte. La quarantena è divisa in due periodi: venti giorni di cosiddetta “quarantena brutta” e venti di quarantena “bella”. I malati e i sospetti vivono in capanne, col terrore perenne di scoprire un ascesso, un bubbone, col sospetto che il cibo servito possa essere veicolo d’infezione. Tanto più che sono i monatti a portare i vassoi. Anche per questo c’è chi tenta la fuga e rischia il carcere…In prigione già c’è.
La peste si attenua. La prevenzione
Non mancano i casi di speculazione, di sciacallaggio. In Comune arrivano alcune segnalazioni di pani pagati a carissimo prezzo e fatti con materiali scadenti. Ma l’epidemia comincia ad attenuarsi nel dicembre dello stesso anno. Nei tre mesi successivi del nuovo secolo i morti di peste saranno solo cinque. Difficile pensare che il merito sia delle cure. All’epoca le ricette erboristiche non prevedono neppure l’uso delle piante antisettiche più energiche che verranno successivamente riconosciute utili almeno per le infezioni batteriche. In città, fra le prescrizioni mediche di cui si ha traccia, è consigliato un impiastro con foglie di malva, viola, radici di scabbia, giglio e consolida; oppure si prescrive un cerotto di “bettonica” (betonica), lauro, piantaggine, mille foglie, verbena, trementina, cera bianca e “raggia di pino”.
Per la storia della medicina, quella del Cinquecento e del primo Seicento fu però una epidemia meno grave di quelle che seguirono: furono colpiti soprattutto i poveri, i più denutriti, i mendicanti, anche se tra le vittime non mancarono ovviamente le persone abbienti. A Biella il bilancio della pestilenza del 1599 appare oggi drastico ma non devastante come in altre città di pianura.
Quattrocento vittime su seimila abitanti

Un ruolo non irrilevante lo svolse Traiano Gromo, il rettore della città che giorno per giorno si spendeva con ostinazione, qualche volta cavalcando di rione in rione per accertarsi dello stato delle cose. Quando l’incubo finì, il Consiglio cittadino – composto fra l’altro di alcuni notabili che soggiornarono in campagna durante il pericolo – gli tributò una lode pubblica e fu tutto. Un documento del 1593 permette di calcolare l’incidenza statistica della peste. Dal “Quinternetto dei fuochi e dei capi di casa” si ha il numero dei capifamiglia presenti sia in città, sia nei rioni, tra i quali c’era anche Pralungo, ma non Chiavazza (oggi rione cittadino). In quella data i fuochi erano 1241. La media di ogni famiglia, all’epoca, era di cinque persone: dunque 6205 erano all’incirca i residenti. In sette mesi, dal giugno 1599 alla fine del gennaio 1600 i morti furono 460, vale a dire più di sette persone su cento. Le ultime battute della nostra storia riguardano i giorni successivi l’epidemia. Il 3 marzo 1600 i medici incaricati di visitare ogni famiglia avevano pronta la relazione in cui si affermava di “non hauer ritrovato alcuni ammalati infetti né sospetti ma solo ammalati di mali ordinari”.
Torna il mercato “entro le mura”

A quel punto, tuttavia, la stessa sorte dei sospettati di peste tocca alla città intera che deve entrare in quarantena, dimostrare di essere salubre, per ottenere le libertà consuete e riprendere i commerci. Il 22 aprile il Podestà che era stato allontanato per la sua sicurezza rientra a Biella e poco dopo si riconfermano i benefici: il macello si farà solo al Piazzo e sarà vietato nella città bassa, mentre il mercato che, durante la peste e ancora prima dell’epidemia conclamata si faceva ad Occhieppo, tornerà dentro le mura. Restaurati i privilegi, si pensò al trascendente. Ecco spuntare allora “100 ducatoni” che contribuiranno a costruire una nuova chiesa intorno al Sacello della Vergine come si scriverà all’indomani della processione cittadina al santuario di Oropa, il 17 agosto del 1600.
Marco Conti

Ho trovato molto interessanti le informazioni sulla pestilenza e diverse le affinità con la situazione che stiamo vivendo al tempo della pandemia da corona virus. A questo proposito, la divisione in quarantena brutta e bella assomiglia molto al lockdown e alla fase 2. Eclatante è poi il paragone tra la Bolletta di Sanità e le nostre autocertificazioni. Son trascorsi diversi secoli ma le similitudini sono molte.
Effettivamente è così. Là dove non c’è cura né vaccino, restano le difese e le accortezze collettive sul collettivo.
Molto interessante e istruttiva la documentazione storica riportata.
Oltre alla peste a Milano di manzoniana memoria, conoscevo quella che fa da sfondo alle novelle del Decamerone.
Non sapevo che anche il territorio biellese fosse stato interessato da un contagio nel XVI secolo.
Nella peste del 1630, di manzoniana memoria, a Biella si registrarono 0 contagi. Probabilmente le misure adottate con l’ esperienza del 1599 servirono.