
Quando l’Africa centrale era ancora fatta di tribù e di insediamenti coloniali, a Ife in Nigeria, l’antropologo tedesco Leo Frobenius scoprì in un santuario una scultura in ottone di straordinaria bellezza. In quel volto non c’era niente che avesse mai visto prima nel mondo africano. La fattura appariva così raffinata e diversa dalle sculture tradizionali – le stesse che di lì a poco avrebbero ispirato Modigliani e Picasso – da far pensare ad un’ altra Africa, diversa, ispirata come quella mediterranea. Nacque così la tesi di Atlantide.

L’Atlantide di Frobenius
Passando al setaccio quell’idea bisognerà convenire che ben pochi sono oggi gli indizi per confermare l’ipotesi. Ma nel 1910 il mondo occidentale aveva una conoscenza approssimativa dell’arte e della cultura africane. Frobenius coltivò l’idea, del tutto congrua, che un lembo di terra sommerso a fianco del continente, potesse costituire l’anello mancante che faceva di quella scultura una pagina di estetica confrontabile con l’arte greca. Bisognò aspettare ancora vent’anni per avere migliore intelligenza del ritrovamento. Nel 1938 all’interno del Palazzo Reale di Ife (quindi in un sito diverso della stessa città) si scoprirono altre tredici teste della medesima fattura e cultura estetica cui apparteneva il primo reperto. Ne parlarono vari giornali e riviste. Gli studi si susseguirono. E si stabilì con certezza che le sculture di Ife risalivano a seicento anni prima, vale a dire al XV secolo…Insomma un Rinascimento nel cuore dell’Africa a fianco di quello italiano.

In quell’epoca il territorio nigeriano commerciava avorio con la costa occidentale attraverso i fiumi e, dalla regione occidentale, i traffici risalivano verso il nord e il Mar Mediterraneo. Ife era un sito religioso importante delle tribù yoruba. L’idea più accreditata è che quelle sculture fossero quindi divenute una sorta di totem per i riti e le cerimonie di Ife. Il volto ieratico e attento ritrovato da Frobenius era forse il ritratto o l’alter ego di un’ alta autorità morale.
I manoscritti salvati dall’Isis

Ma questo non è il solo caso in cui etnografia, arte e letteratura, riservano delle sorprese che spazzano via in un momento i cliché dell’Occidente tecnologico raccontando come sia sempre il passato a fornire un’identità, anziché la sicumera di un futuro magnifico, come accade oggi con i mantra della globalizzazione. Ce lo ribadisce questa seconda storia. Nei pressi di Mossul, in Iraq (nella terra di Ninive) un domenicano, Michaeel Najeeb, ha salvato circa ottomila manoscritti dalla furia distruttrice dell’Isis. Ha fotocopiato circa un milione di pagine e le ha successivamente scansionate. Nel 2014 quando Mossul stava per cadere nelle mani dello Stato Islamico Najeeb ha avuto l’energia e il coraggio di caricare su di un camion centinaia di quei manoscritti ormai fragili come cortecce secche, tra cui una copia del Canone di Medicina di Avicenna (XII secolo), i commenti in arabo di Averroè, epistole e opere del cristianesimo primitivo e molto altro ancora. Così, mentre i cannoni distruggevano la Biblioteca di Massul, due camion con 809 manoscritti attraversavano il Kurdistan. Quando infine gli invii furono resi impossibili dalla guerra, padre Najeeb continuò la sua missione affidando le opere a chiunque fuggisse verso Erbil, lontano dalle cannonate. Ne scriverà nella prosa autobiografica di Sauver les livres et les hommes (Grasset, 2017).
La carta di Manden

Tuttavia quando il domenicano venne invitato a Bruxelles per testimoniare del lavoro svolto non era solo. Con lui c’era Abdel Kader Haïdara, un mussulmano, un erudito di Timbuctù. Anche Haïdara era ospite del consesso internazionale per aver portato in salvo migliaia di pergamene del Mali e molte opere religiose contenute nella biblioteca dell’antichissimo sultanato. Nel 2012 la guerra di Al Qaida aveva già compiuto sul territorio diverse distruzioni ed è in corso tutt’oggi. Tra le opere messe in salvo dall’erudito figura un testo che – come le teste d’ottone di Ife – farà discutere ancora molto. Ma fin d’ora la sua eccezionalità è fuori d’ogni dubbio. Si tratta della Charte du Mandé o Carta di Manden. E’ un testo trasmesso in origine oralmente proprio come avviene con una leggenda. Ma non si tratta di una narrazione orale qualunque. E’ verosimilmente il primo atto politico e giuridico con cui vengono sanciti i diritti della persona e abolita la schiavitù. L’eccezionalità della “Carta” sta tutta nella sua datazione. Secondo molti studiosi questo specie di proclama dei Diritti dell’Uomo risale infatti al 1222.
Nessuna vita è più rispettabile di un’altra

La prima norma dice: «Una vita è una vita. Nessuna vita è più rispettabile di un’altra o superiore ad un’altra». La seconda recita: «Che nessuno attacchi il vicino gratuitamente; che nessuno gli faccia torto o lo martirizzi»…A cui seguono: «Il torto reclama una riparazione» con l’invito «Pratica il mutuo soccorso». Altrove si legge: «La guerra non distruggerà mai più un villaggio per prendere degli schiavi; ciò significa che nessuno metterà d’ora in poi il morso in bocca al suo compagno per andare a venderlo; nessuno verrà picchiato neanche a Mandé, figuriamoci messo a morte, perché è figlio di uno schiavo».
Secondo i locali la trascrizione venne fatta per volontà di Sundjata Keïta, (1217- 1255), cioè il primo imperatore e fondatore dell’impero del Mali, ma vi sono forti dubbi circa l’interpretazione del proclama che, per varie generazioni, è stato tramandato oralmente. Si obietta che in realtà la Carta di Manden voleva regolare semplicemente le tre “caste” dell’epoca fornendo un’immagine pubblica di riferimento per mitigare i conflitti. Tuttavia, qualunque sia l’interpretazione, la Charte racconta una storia che l’immaginario occidentale non supponeva neppure lontanamente. Un po’ come se tra un millennio il documento fondante l’ Unione europea dovesse comparire improvvisamente per suggerire non la realtà, ma i sogni, ben sapendo che i sogni non sempre sono innocenti.
Osvaldo Enoch