Il centenario della nascita dello scrittore, autore ormai centrale del Novecento italiano
Prima edizione, Einaudi 1968
La fortuna letteraria di Beppe Fenoglio non ha fatto che crescere nel corso del Novecento e continua a farlo come hanno mostrato le manifestazioni e soprattutto il convegno (tra Torino e Alba) in occasione del centenario della nascita. Le sue pagine appaiono ormai centrali non solamente nell’ambito del realismo. Autore che nel dopoguerra racconta il mondo partigiano, dove è stato ufficiale di collegamento con le truppe inglesi, esordiente nella collana dei Gettoni di Elio Vittorini con La malora (1954) dopo alcuni racconti scorporati dalla raccolta che diventerà I ventitré giorni della città di Alba, Beppe Fenoglio ha ormai il profilo di un autore centrale del secondo Novecento.
Lorenzo Mondo, dopo la prima edizione del romanzo, peraltro incompiuto, Il partigiano Johnny, anticipò che l’autore di quella narrazione non era più il «fratellino di Pavese», non era più «il neorealista tardivo in sospetto di lesa Resistenza, ma un grande e compiuto scrittore epico, una delle esperienze narrative più trascinanti del Novecento italiano. Perfino i segnali esterni lo rivelavano: le radicate monomanie, la lingua splendente reinventata attraverso il filtro dell’inglese, la sovrana distanza dai circoli culturali, il dialogo solitario con i propri autori, il senso tragico e insieme reverente della vita, tutto lasciava presagire in Fenoglio uno scrittore di altura.» Così è stato.
Una lingua forgiata passo a passo
Le pure importanti questioni filologiche inerenti la redazione del Partigiano Johnny (Fenoglio morì a quarant’anni e non aveva neppure suggerito un titolo) che Mondo assemblò da due testi, non hanno mai ridotto il valore e l’originalità del romanzo di cui esiste notoriamente anche un primo approccio, se non una redazione, in inglese. In certo modo è stato proprio questo romanzo a portare l’attenzione sulla precedente e superficiale lettura degli altri, dove autobiografia e graffio neorealistico sembrano esaurire tema e scrittura. In realtà ha avuto ragione la critica posteriore nel parlare di un mondo in cui dominano la connotazione epica e il simbolismo della morte. Differenti sono stati gli approcci, le tecniche narrative. Il primo Fenoglio, ovvero i primi romanzi e racconti, era caratterizzato da una lingua con costrutti dialettali (La malora e i Ventitré giorni della città di Alba) e un monologare fitto, tra scorci lirici e drammatici come in Primavera di bellezza .
Nella prosa de Il partigiano Johnny , è rilevante invece il calco sulla lingua inglese, ma anche il percorso tematico-espressivo è sensibilmente diverso rispetto alle altre opere. La narrazione è mediata da una focalizzazione in terza persona che stempera il registro colloquiale più consueto di Fenoglio, senza con questo perdere la tensione del periodare. Gian Luigi Beccaria ha osservato in una sua pagina critica che il romanzo incompiuto di Fenoglio pare corrispondere a una prosa «frutto di volontà e non di dono: possesso, ricerca, conquista, come dopo un tenace corpo a corpo contro e con la lingua». Dato inequivocabile se si pensa che le due versioni sono anticipate da un testo narrativo in inglese. Ma non è solamente la lingua inglese, con le sue inserzioni nelle successive redazioni, a dar conto di una ricerca. La frase immediata, breve, sintetica, che si affaccia fin da La malora ( paradigmatico l’incipit: «Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.») resta un modello ma più diluita, talvolta pervasa dal commento. Ugualmente in queste pagine la connotazione è frequeste e il traslato si accompagna spesso al neologismo, per esempio con l’aggettivazione dei sostantivi:
«Le acque erano nere e, così dappresso, praticamente mute, l’impatto dell’altra sponda alle acque più lontane indiscernibile. Da dietro, veniva a tratti come il racconto del’incuboso dormire della città sul filo del rasoio»; aggettivazione che prende la strada del traslato in inglese: «I campanili della città batterono la mezzanotte, il freddo e l’umidità avevano influito sugli uomini, su quella loro briskness che li aveva fatti montare e pattugliare tutt’insieme.» Ecco dunque l’aggettivo d’invenzione “incuboso” e quello inglese per “brio”, briskness, ma con valore figurato, in due momenti narrativi di descrizione (entrambi nel diciottesimo capitolo, p. 191, ed. Einaudi, 1968).
Dalla Resistenza all’ontologia
La narrazione stabilisce quindi le coordinate della realtà storica (geografia, date, eventi seguiti dall’autore durante il conflitto con l’aiuto di un taccuino) dalla quale l’espressione di Fenoglio prescinde come in un processo di smaterializzazione. Il processo diegetico coinvolge anche il piano storico. Fenoglio nel capitolo dodicesimo della prima redazione illustra in alcuni passi il senso di disagio, di non appartenenza rispetto alle prospettive sociali condivise: «La dolce comodità antica della poltrona». Johnny, l’alter ego, si sente viceversa un eterno partigiano, «unico passero» «che non cascherà mai» perché in definitiva l’impressione che gli perviene è che la Resistenza non sia, in ultima analisi, una circostanza evenemenziale, ma un dato dell’esistenza, un percorso obbligato. In questo contesto le sensazioni accompagnano questa nozione filosofica, come quando (nel capitolo diciannovesimo), in un momento di apparente tranquillità dopo una marcia, il partigiano Johnny si ferma lungo un torrente, si osserva come distante da sé medesimo, dal suo corpo. Così che nell’istante successivo, alla ripresa della marcia, egli avverte di procedere «in un libero aliare di venti».
In margine al centenario, che si concluderà il primo marzo 2023, ricordo un recente saggio sulla figura e l’opera dell’autore, Beppe Fenoglio. Vita, guerre e opere, scritto da Franco Vaccaneo per Priuli & Verlucca.
Osvaldo Enoch