
«Vado, ma dove? oh dei!»
In questo incipit di Patrizia Cavalli, c’è una parte cospicua dell’originalità di timbro e temi dell’autrice. La poesia, inclusa nella raccolta L’io singolare mio proprio, con il registro giocoso e lieve che accompagna l’opera fino alle ultime battute, porta il lettore al centro del canone classico. Come l’intera opera anche questa è una lirica intessuta di amore e disamore, scaturita dall’assenza, dal dubbio, come altrove dalla vacuità dell’essere. Non a caso molte poesie cominciano con una domanda o un periodo ipotetico, non a caso il discorso si dissolve nell’attimo e nella circostanza richiamata dal testo attraverso lunghi enjambement. Ecco la lettura completa della poesia citata:
«Vado, ma dove? oh dei!» Sempre al bar, al ristorante, nei musei a ciondolare anoressica o bulimica sempre tra le due madri quella che mi ama falsamente e mi vorrebbe privare di ogni cibo e l’altra che mi ama falsamente e mi vorrebbe uccidere di cibo, e io costretta a uno dei due eccessi o l’astinenza o l’incontinenza e intanto guardo il bel viso di un ragazzo sempre lontano dai miei veri amori spinta al turismo da cerberi infelici viaggiatori.
Come si è spesso chiosato, la poesia di Patrizia Cavalli assume la scena di un momento, la quotidianità (parola detestata dall’autrice peraltro) per portare il verso all’incontro con un’assenza, un limite, ma essi stessi pronunciati con una voce che sottrae peso, che induce alla leggerezza e dove la rima sembra quasi fortuita nell’incedere idiomatico, gli accenti tonici un caso come quegli dei che baciano i musei al secondo verso.
L’iperbole al rovescio e il classicismo
Il carattere che struttura fin dagli esordi il mondo di queste pagine è quello della riduzione: riduzione dell’io lirico, presente ma dimesso, e riduzione del tempo storico a incidentalità. Il titolo del primo libro, Le mie poesie non cambieranno il mondo, vive sotto questo segno benché sia stato scelto da Elsa Morante…Nel 1974 (data della pubblicazione) la titolazione assertiva sembra infatti un annuncio polemico fatto per sottrarsi al dibattito intellettuale in corso. L’iperbole retorica percorre così ampiamente il senso più raro della figura. E fin dall’inizio è una contingenza dichiarata, non una epifania, a dare energia al testo facendo convergere ogni elemento ai confini di quanto è pronunciabile.
Anche quando sembra che la giornata sia passata come un’ala di rondine, come una manciata di polvere gettata e che non è possibile raccogliere e la descrizione il racconto non trovano necessità né ascolto, c’è sempre una parola una paroletta da dire magari per dire che non c’è niente da dire.
Il contrappasso è clamoroso: si addensano in questi versi con l’evocazione (in assenza) del crepuscolo, la fugacità (l’ala di rondine) e l’inconsistenza del reale (una manciata di polvere) mentre l’ispirazione è contraddetta per affermarsi: la descrizione e il racconto non trovano necessità, tanto che una paroletta espressa coincide con la sua vacuità. Eppure mentre il dibattito critico ferve intorno alla neo-sperimentalismo e l’orfismo, mentre la poesia diventa oggetto tematico, Patrizia Cavalli adopera gli strumenti del canone per ribaltare ogni pretesa necessità intrinseca nel lavoro letterario del tempo. E’ vero che risulta frequente qui la pronuncia dell’epigramma diaristico («Ma per favore con leggerezza/ raccontami ogni cosa/ anche la tua tristezza», scrive nella stessa raccolta d’esordio) ma in realtà – e senza il ricorso a quella adesione del verso al modello del sonetto come farà negli anni ’80 Patrizia Valduga – proprio questo primo libro sembra incuneare la “prosa”, l’idioma, a cui tendono molti versi degli anni Settanta nell’alveo della classicità e di una indefettibile chiarezza. Dato che inserisce Patrizia Cavalli in una linea di tendenza alla pronuncia classica del verso, linea che congiunge Saba a Penna e a cui sono tutt’altro che estranei sia Pasolini, sia Dario Bellezza. Nel fervore un po’ artefatto della critica engagé, la poesia di Cavalli piacque anche ad Alfonso Berardinelli, polemico nei confronti della lirica “oscura”.
Il cielo
La seconda raccolta, Il cielo (1981) privilegia il tema dell’assenza, del disamore, non senza una sottostante visione filosofica. Ecco in apertura del libro il “paesaggio emotivo” con immagini decisive della vacuità e del desiderio:
Quella nuvola bianca nella sua differenza insegue l’azzurro sempre uguale: lentamente si straccia nella trasparenza ma per un po’ mi consola del vuoto universale. E quando cammino per le strade e vedo in ogni passo una partenza vorrei accanto a me un bel viso naturale.
Più avanti l’assenza riprende corpo ed è allora marcatamente la banalità dell’ambiente familiare a controbilanciare una “nuvola che si scolora” con la sua promessa di libertà. Anzi è la prigione delle passioni, confermano i versi di Patrizia Cavalli, ad essere desiderata:
Adesso che il tempo sembra tutto mio e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena, adesso che posso rimanere a guardare come si scioglie una nuvola e come si scolora, come cammina un gatto per il tetto nel lusso immenso di una esplorazione, adesso che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte dove non c’è richiamo e non c’è più ragione di spogliarsi in fretta per riposare dentro l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta, adesso che il mattino non ha mai principio e silenzioso mi lascia ai miei progetti a tutte le cadenze della voce, adesso vorrei improvvisamente la prigione.
E’ forse uno dei testi più belli e compatti della silloge dove il discorso monologante cresce e si carica di tensione attraverso l’iterazione quasi percussiva dell’avverbio adesso.
Pigre divinità e pigra sorte

Risalendo tra gli esiti e le matrici, in Pigre divinità e pigra sorte (2006) dopo Sempre aperto teatro (1999), sembra che Patrizia Cavalli radicalizzi l’interrogazione filosofica, ne voglia osservare l’ampiezza come aprendo un ventaglio. Un versante che diviene cospicuo perché se la scena quotidiana, il gioco del «Sempre aperto teatro» sono state le costanti, altrettanto decisivi sono l’orrore della gratuità esistenziale e le domande esplicite sull’identità e il tempo. Tant’è vero che la compattezza dell’opera appare indiscutibile, come ha scritto John Ashbery in poche parole presentando nel paratesto la traduzione americana: «Come Emerson Patrizia Cavalli dice sempre la stessa cosa e ogni volta è incredibilmente fresca e sorprendente. Il mondo cambia raccontandolo». Ed eccoci quindi a ridosso di quella scorrevole discorsività che contraddistingue i testi della Cavalli: l’incontro con il nume, con la fortuna, o meglio con l’ineffabile casualità del mondo.
Pigre divinità e pigra sorte cosa non faccio per incoraggiarvi, quante occasioni con fatica vi offro solo perché possiate rivelarvi! A voi mi espongo e faccio vuoto il campo e non per me, non è nel mio interesse, solo per farvi esistere mi rendo facile visibile bersaglio. Vi do anche un vantaggio, a voi l'ultima mossa, io non rispondo, a voi quell'imprevisto ultimo tocco, rivelazione di potenza e grazia: ci fosse un merito sarebbe solo vostro. Perché io non voglio essere fabbrica della fortuna mia, vile virtù operaia che mi annoia. Avevo altre ambizioni, sognavo altre giustizie, altre armonie: ripulse superiori, predilezioni oscure, d'immeritati amori regalie.

L’ultimo tempo

Il desiderio di conoscere e la prospettiva etica dell’esistenza, si fanno più perentori negli ultimi due libri: Datura nel 2013 e Vita meravigliosa nel 2020. I paesaggi interiori prima articolati con poche movenze e immagini, emergono in entrambi i libri ma in “Datura” prende corpo una voce a tratti più ampia di volute monologanti. Lo stesso titolo, allusivo della pianta che induce la visione (Datura Stramonium), sembra allontanare la poetessa dal dato circostanziale, dall’immagine colta al volo mentre resta quasi immutata l’essenzialità del dettato. La lirica “Ma io non voglio andarmene così” esprime con assoluta chiarezza la ricerca svolta in poesia assumendo proprio la lingua poetica come tema:
Ma io non voglio andarmene così, lasciando tutto come ho trovato in questa scialba geografia che assegna l’effetto alla sua causa e tutti e due consegna all’umile solerzia dell’interpretazione. Un altro è il mio progetto, la mia ambizione è accogliere la lingua che mi è data e, oltre il dolore muto, oltre il loquace il suo significato, giocare alle parole immaginando, senza un’identità, una visione.
Altrove, nello stesso, libro Patrizia Cavalli dispiega un verso poematico. Così accade in La patria e L’angelo labiale. Ma sorprende soprattutto un terzo poemetto, La maestà barbarica. Qui l’autrice dà voce alla fisionomia di un personaggio per parlare di poesia, di una donna invischiata nella propria capacità retorica. Tanto che dalla terza persona Cavalli passa alla prima per soggiungere: «Io non oso parlarle, / ma la guardo sempre, / discosta e laterale. Ogni giorno/ ho bisogno di vederla. se non la vedo, la vado a cercare (…)». La ricerca, l’interrogazione, trascorre dal passato al futuro con Vita meravigliosa dove l’immaginario torna formalmente dentro le misure consuete dell’autrice per chiosare intorno all’ultimo approdo, ad un paradiso incerto come ogni cosa: «prima di morire/ forse potrò capire/ la mia incerta e oscura condizione/. Forse per non morire/continuo a non capire/sicura in questa chiara confusione.» Il predominio del tema, che isola e percuote, non toglie leggerezza al verso a cominciare dal poemetto dedicato all’autrice e amica scrittrice, Con Elsa in paradiso, per proseguire e voltarsi per traguardare l’esiguità del suo tempo. «Ma quel che ho visto si è tutto cancellato./ E quasi non avevo cominciato». Sbagliava Patrizia Cavalli parlando di un disegno incompiuto. La tela in questione è qui, forte più di quanto non prometta molta poesia di ieri e di oggi.
Marco Conti