Trevi: una coperta infeltrita nella casa del mago

Se l’autobiografia presuppone certezza e l’autofiction l’interrogazione sul proprio tema, non c’è dubbio che Emanuele Trevi con La casa del mago aggiunga un altro tassello a quest’ultimo genere,  fra storie vissute e sospese. Protagonista, come annuncia il titolo, non è soltanto la figura del mago, ovvero del padre del narratore; lo è di pari passo la sua casa, l’appartamento dove il narratore trasloca dopo qualche incertezza e con una inquietudine che resterà tra le mura delle stanze e tra i ricordi. Il romanzo diventa così il tragitto tra la memoria del padre, Mario, psicoanalista junghiano e l’identità del narratore. Un mistero insomma che sollecita altre domande. Tanto che Emanuele Trevi commenta: «Non ho una grande inclinazione a interpretare in modo vincolante i fatti che racconto. Di ogni storia, anche di quella confezionata con la maggiore efficacia, basterebbe tirare un filo per far venire tutto giù, riducendola a un nugolo di fatti insensati. Tanto più con storie di questo tipo, pescate nei fondali limacciosi della vita, della memoria, senza che ci sia bisogno di ricorrere ai trucchi sempre efficaci del mestiere.»

Il cubo di Rubik

In Due vite (2020), Emanuele Trevi  perlustrava le attitudini dei protagonisti, due amici scrittori prematuramente scomparsi  disegnando i loro percorsi attraverso episodi che sancivano tanto i rapporti quanto l’ evidente inconciliabilità dei caratteri. Nel nuovo romanzo la perlustrazione dello spazio e delle parole del padre appare più problematica. Il primo nodo da sciogliere è l’evidenza di un profilo elusivo. « “Lo sai com’è fatto”. Quando mia madre mi parlava di mio padre ci metteva poco ad arrivare al punto, sempre lo stesso: per affrontare qualunque faccenda con quell’uomo enigmatico, quel cubo di Rubik sorridente e baffuto, bisognava sapere-come-era-fatto.» Ma la formula idiomatica nasconde un sapere tutt’al più intuitivo. Emanuele Trevi gioca con sovrana ironia intorno all’enigma: il suo atteggiamento taciturno, la sbadataggine, gli interessi che dalla psicoanalisi trascorrono alla simbologia e all’astrologia, campi questi ultimi condivisi dal suo maestro, il guaritore Ernst Bernhard, i passatempi che che lo hanno accompagnato per una vita: disegnare complesse figure geometriche e lucidare sassi. Tutto ciò non fa che rendere più arduo il ritratto. Emanuele Trevi pesca dunque nella memoria, traccia qualche parallelo con la propria vita, racconta come lo psicanalista perse il figlio durante un soggiorno veneziano nell’istante in cui Emanuele acciuffò per strada la cintura del trench sbagliato seguendolo tra le calli; così come di ritorno a Venezia con il padre, in età adulta, si fecero derubare entrambi perché, nottetempo, non chiusero lo scompartimento della cuccetta

La coperta di lana

Mentre le domande si riconcorrono l’una appresso all’altra, almeno di una cosa siamo certi: la casa, snobbata dalle giovani coppie di sposi che avvertono tra le mura qualche aura contraria se non misteriosa, diventa il fulcro della storia, il luogo dove Emanuele si decide a prendere residenza mantenendo tra tutte le suppellettili una maestosa scrivania che nasconde cassetti, sportelli, ripostigli. E’ il primo oggetto di una lunga sequenza che Trevi adopera per circoscrivere l’ansia del presente e l’incertezza del passato. La scrivania sgombra, ordinata, luogo di lavoro e cesura tra paziente e guaritore, tra domande e risposte, ma anche il posto che separa padre e figlio nell’intervista di Emanuele allo psicoanalista, ormai ottantenne. Più oltre l’attenzione si sposta sui quaderni di appunti e la calligrafia paterna, «un corsivo così ordinato, così esattamente ricorrente nelle sue forme, da dare l’idea di un carattere stampato, di tipo gotico». Anche per lo scrittore, infine, è difficile prendere possesso dell’appartamento. A lungo gli scatoloni del trasloco rimangono a terra in attesa di essere svuotati. Tanto basta per ricordare due preziosi vasi cinesi che ora risultano scomparsi. Ma ben più importante è una coperta di lana infeltrita e bucata: «Ci si avvolgeva per riposare, se la portava dietro in vacanza quando andava a Cortina, la teneva sempre a portata di mano.» Quella coperta sembra di fatto un amuleto. Il foro che la contraddistingue con la circonferenza bruciacchiata è quello un proiettile sparato nel 1945 quando il padre, ex partigiano, in marcia con la coperta sulle spalle, era stato preso di mira da un soldato tedesco.

La casualità, il destino

Come nelle altre opere Trevi lascia aperte le sue domande quanto più rimpiccioliscono le distanze tra lo sguardo e l’oggetto, convinto – come sembra essere – che la vita è condanna alla libertà (così si esprimeva Sartre) e dunque dominio del caso anche là dove si accenna al destino ipotizzando una catena di eventi. Parlando del colpo fuori bersaglio sparato dal cecchino, e pensando all’eventualità opposta, scrive: «Tutto l’intrico del futuro – compreso me stesso, che in questo momento scrivo queste parole – dissolto come una bolla di sapone. Noi siamo gli spettri di quello che non è accaduto».  Di eventi insoluti nella quotidianità della casa del mago, così come in quella più strettamente autobiografica, il libro è una fitta tessitura. La sua bellezza è richiamata proprio da questa voce, come i sassi che il padre smussava e lucidava con la carta vetrata.

Marco Conti

Emanuele Trevi, La casa del mago, pp. 249, Ponte alle Grazie, 2023; euro 18,00

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