Proust e Céleste, a un secolo dalla morte

«Vedrai, il signor Proust è un uomo gentilissimo. Bisogna star molto attenti, questo sì, a non dispiacergli, perché osserva tutto: ma una persona così squisita non l’incontrerai mai».  Così Odilon alla giovane moglie Céleste Albaret, destinata a condividere per nove anni la vita di Marcel Proust, vale a dire gli ultimi dello scrittore e quelli che, dopo Du côté de chez Swann, accompagnano la redazione dell’opera intera. Domestica, amica, confidente, Céleste ha finito con l’essere l’unica testimone del lavoro come delle abitudini di Proust.   In questi giorni lo ha ricordato la Bibliothèque Nationale de France per il centenario della morte dello scrittore avvenuta il 18 novembre 1922. Lo ha fatto di pari passo con le parole precise di Céleste grazie a un video registrato nel gennaio del 1962 dalla Televisione nazionale francese (oggi riproducibile sul sito dell’INA).

Céleste Albaret era entrata nella vita dello scrittore come governante tramite il marito, chauffeur di cui Marcel era un cliente. Ma la vicinanza e la fiducia che condividono sono tali che, nel 1921, in una dedica Proust la definisce ormai «amica di sempre», «che ha sopportato la croce dei suoi umori», e così prossima non solo da battere a macchina il testo di Albertine scomparsa ma anche per ascoltare le osservazioni destinate alla scrittura e infine da inventare, proprio lei, il nome di paperoles (nella f.to qui sotto) per le aggiunte di fogli e foglietti incollati sui quaderni l’uno sotto l’altro.

Il piacere e i giorni

Le parole di Céleste sono del resto anche le sole di carattere biografico che abbiano la freschezza della vita vissuta e l’esattezza del documento. Le raccolse Georges Belmont dopo  cinque mesi di conversazioni in un libro firmato dalla stessa Albaret, Monsieur Proust, uscito in originale nel 1973  in coedizione Laffont-Opera Mundi (da Rizzoli nel ’76 con la traduzione di Augusto Donaudy). Stanca di sentire spacciare per verità le illazioni e i pettegolezzi,  Céleste a ottantadue anni decise così di uscire dal proprio riserbo. E le sorprese per chi aveva fatto della vita di Proust un percorso a tesi, furono diverse. A iniziare dall’assiduità al lavoro.

Dall’uscita del primo volume della Recherche Proust non pensa ad altro. Non vuole per esempio allontanarsi da Parigi e dalla sua casa durante la guerra. Non è vero, dice Céleste, che volesse spostarsi a Nizza, a Venezia o a Cabourg. «Qualche volta gli è capitato di avere voglia o bisogno di vacanze, di desiderare di andare a rivedere di sfuggita qualche cosa, una città, un paesaggio, un quadro, una chiesa come a Cabourg, quando mi aveva parlato dell’alta marea alla punta della Bretagna; ma il discorso era sempre lo stesso: “Quando avrò finito il mio libro ci andremo, cara Céleste, e vedrà che meraviglia…”. Finire il suo libro: solo questo contava. E da quell’autunno del 1914, più che mai la sua esistenza si organizzò unicamente intorno a quell’idea.»

E’ tanto deciso a non disperedere inutilemente le forze che non solo non si offre più una vacanza, ma rende i suoi contatti del tutto eccezionali e, alla fine di quell’anno, disdice l’abbonamento al telefono. «Agli altri forse spiegava che lo aveva fatto perché era rovinato. Una scusa. Certo è che continuò a spendere a suo talento. In realtà non voleva essere disturbato se non quando lo desiderava.» Ripensandoci, Céleste, che proviene da un ambiente popolare dove si vive all’aria aperta e con Proust si trova in un apppartamento in Boulevard Houssmann, dice: «Quel che ancora oggi mi meraviglia è la facilità con cui mi piegai e adattai a quel genere di vita, al quale non ero assolutamente preparata. Tutta la mia infanzia era trascorsa nella libertà della campagna e nell’affetto di mia madre. Andavamo a letto con le galline e ci alzavamo coi galli, diciamo così. Ed ecco che ora mi mettevo con la massima naturalezza a vivere di notte, come lui, e come se non avessi mai fatto altro.»

Come carta da musica

I giorni scorrono uguali in Boulevard Houssmann. Céleste e l’autore della Recherche non sembrano accorgersene. Cosa fa la governante in una casa in cui vive, a parte lei, una sola persona? Semplicemente tutto quello che non è da ascrivere al libro del “signor Proust” o alle divagazioni del medesimo, qualche concerto, qualche rarissima visita. «Facevo tutto, e quando non era questo era quello, il caffè, le pulizie, andare a telefonare o comprare qualcosa di speciale o a portare una lettera, metter della biancheria al caldo, preparare o cambiare le borse d’acqua calda, riordinare tutti i giornali e i fogli che lui lasciava a mucchi sulle lenzuola – e bisognava proprio riordinare, se no tutto quello un giorno, avrebbe finito con l’uscire dal letto, tanto ce n’era -, accendere e alimentare il fuoco del caminetto nella sua camera, preparare l’acqua per il pediluvio – ma tutto questo come cantando in una specie d’allegrezza, come un uccello che voli da un ramo a un altro. Certe volte ero stanca morta, ma non lo sentivo o non ci pensavo più di quanto pensassi ad andare a messa, perché non mi annoiavo mai, nemmeno per un attimo. Da una parte era una vita regolata come la carta da musica e dall’altra c’era sempre l’imprevisto, il fascino d’un gesto, d’una conversazione, il piacere che lui provava per aver lavorato bene o perché qualche cosa era stata ben fatta.» Tant’è che quando il marito, Odilon torna dalla guerra le dice: «Ma guarda, non avrei mai immaginato di ritrovarti qua…»

L’agenda quotidiana Céleste l’aveva in parte ereditata dal predecessore, Nicolas. In particolare c’era un rituale domestico che preludeva alla notte del Signor Proust: portare via il vassoio d’argento dal tavolo accanto al letto, metterne al suo posto uno di lacca con una tazza di infuso di tiglio e a fianco una bottiglia d’acqua d’Evian, la tazzina e la zuccheriera. Questo nel caso il signore avesse voglia di fare un infuso con il bollitore elettrico…Che in otto anni non accadrà mai. Viceversa lo scrittore faceva danni col bollitore sbagliandosi a premere una delle tre pere “elettriche”  che accendevano il bollitore, suonavano nella camera di Céleste o accendevano una lampada. Le chiamate in camera della governante erano sempre condite da un forse… «Forse domani le chiederò di portarmi un caffè un poco prima», «domani, forse, la pregherò di telefonare a questa persona». Un giorno, scoperto che Céleste, nei momenti vuoti si dedica a cucire merletti, sbotta: «Ma, Céleste, bisogna leggere!» E così le consiglia I tre moschettieri. Un divertimento inatteso, tant’è che ne parlano diverse volte, poi tocca a Balzac. «Ma io – dice Céleste a Georges Belmont – ragazzina com’ero, preferivo cucire.» Poche letture dunque, eppure della Recherche, l’ex ragazzina dirà: «Oggi ho capito che tutta le ricerca del signor Proust, tutto il suo grande sacrificio alla sua opera è stato quello di mettersi fuori del tempo per ritrovarlo. Quando non c’è più tempo, è il silenzio, Gli occorreva quel silenzio per usire solo le voci che voleva udire, quelle che sono nei suoi libri.»

La camera

Nelle sue memorie Céleste Albaret si diffonde anche sulla topografia dell’appartamento. Sulla camera dello scrittore in particolare che lei descrive come il «suo teatro». La camera, dunque: era molto grande e molto alta, con un soffitto di quattro metri, due doppie finestre, grandi anche quelle, ermeticamente chiuse quando c’era lui, come le persiane e le tende di raso blu foderate di mollettone. E poi grossi pannelli di sughero rivestivano le pareti e il soffitto. «Quando si entrava, quel che prima colpiva, a parte il sughero, era il blu. Il blu delle tende, precisamente. Lo si ritrovava perfino in un grande lampadario appeso al soffitto (…) sul caminetto di marmo bianco lavorato c’erano anche due lumi col globo blu, con in mezzo una pendola di bronzo dello stesso stile.» Tra le due finestre del salotto invece  c’era un armadio a specchio di palissandro, davanti all’armadio un pianoforte a coda appartenuto alla madre che raramente Proust suonava. E i libri? Proust li teneva ovunque, impilati sui tavolini nella sua camera, su un tavolo-scrivania e in due biblioteche girevoli zeppe di volumi. Sul comò invece si trovavano trentadue quaderni con la copertina di finta pelle e aprendoli si sarebbe potuta leggere la prima redazione dell’opera.

La camera di Proust (Foto BNF)

Gide il falso monaco, e il Goncourt

André Gide, come molti scrittori accecati da se stessi, non riconobbe né il talento, né la novità di  Du côté de chez Swann e rifiutò la pubbicazione per Gallimard. Proust quindi pagò di tasca sua l’edizione. Ma per Céleste Albaret Gide fu il solo responsabile di quella bocciatura. Nelle sue memorie lo definisce un personaggio falso che, comunque, non piaceva neppure a Proust. «Non aveva per Gide né affetto né stima. Non che gliene volesse per il rifiuto del manoscritto di “Swann”. Ripeto: era troppo generoso, nobile e tollerante verso gli umani. Di Gide non approvava né lo spirito dell’uomo né quello dell’opera, quantunque avesse una certa ammirazione per lo stile e il talento dello scrittore. Delle Caves du Vatican , per esempio, diceva: “Non è male”.» E una volta precisò: «Adesso vorrebbe trascinarmi nel suo clan. Ma siccome non vede che la propria idea m’intende a sproposito. Eppure non sono L’immoraliste.» Nel 1916 quando alcuni editori ormai si affacciano interessati ad ulteriori pubblicazioni, Proust decide di risolvere la questione tanto più che Gide si è ricreduto e glielo ha fatto sapere con un biglietto: «Da qualche giorno – gli scrive –  non lascio più il suo libro; me ne soprassaturo con grande piacere». Incarica quindi Céleste di portare una lettera a casa sua. Mentre la domestica aspetta la risposta, osserva lo scrittore: «Era avvolto in un saio di bigello di dove uscivano le mani. Nell’aspetto come nel volto e nello sguardo, c’era qualcosa di indefinibile che non mi piaceva: qualcosa di non vero, una falsa sincerità, o meglio una specie di sincerità obbligatoria. Gentilissimo peraltro.» Gide  scrive intanto a Proust che verrà a trovarlo il giorno stesso e infatti, Céleste è appena arrivata a casa quando si affaccia anche il visitatore. Poi Proust interroga la donna e visto che continua a dire che qualcosa non la convince, insiste. E Céleste: «Ora che l’ho visto non mi sorprende che abbia dato quella risposta per il suo manoscritto senz’averlo letto. E’ proprio da lui. Sentivo che si divertiva a mettermi in imbarazzo con lo sguardo. Mi venne tutt’a un tratto, dissi: “Il fatto è che ha l’aria di un falso monaco, signore. Sa quei monaci che ti guardano con un’aria tanto più religiosa in quanto devono nascondere la loro insincerità”. Scoppiò a ridere che la non finiva più.»

Nel 1919 il vento è cambiato. A dicembre À l’ombre des jeunes filles en fleurs ottiene il premio Goncourt, il primo dopo la guerra. Di fatto Proust è in concorso solo contro un altro concorrente, Roland Dorgèles per  Les croix de bois. «E’ stato detto – commenta ancora Céleste – che il premio l’ottenne brigando e grazie all’amicizia di Léon Daudet, il quale faceva parte della giuria. Lui, personalmente, non brigò: furono i suoi amici a pensare a lui per il premio Goncourt, e lui li lascò fare; tutto quel che fece fu di rispondere affermativamente, e dichiarandosi molto onorato, a una lettera dello scrittore J.H. Rosny Ainé che gli chiedeva se avrebbe accettato il premio qualora gliel’avessero dato». E’ certo che Daudet si sia dato da fare (come del resto avviene con le amicizie in ogni premio, di ieri e di oggi), ma lo stesso Rosny Ainé non nascose la sua preferenza. In quanto vincitore Proust riuscì ad avere una sorta di relazione delle chiacchiere della giuria. La battaglia per premiare Dorgèles a quanto pare si era accanita sull’età. Proust aveva 48 anni, Dorgèles non solo era giovane ma il testamento Goncourt  indicava che il riconoscimento doveva andare a un “giovane scrittore”. Un anticipo, verrebbe da aggiungere oggi, delle scaramucce sull’età e sulla produttività in fieri per l’industria editoriale. Leon Daudet ebbe però a quel punto la via spianata. Disse che il testamento essi non lo conoscevano perché questo parlava non di un giovane ma di un «giovane talento», sfoderando con ciò il documento seduta stante. Il romanzo di Proust prevalse con sei voti contro tre per Les croix de bois. 

Per quel che riguarda i clamori del successo, Marcel Proust fu chiaro con Céleste: «Mia cara Céleste, adesso che ho rimandato il signor Gallimard alle sue faccende mi rimane da dirle questo…Probabilmente suoneranno ancora molto alla nostra porta, perché finiranno pur col pescarmi. Non voglio ricevere nessuno. Soprattutto non i giornalisti, né i fotografi…Sono pericolosi e vogliono sempre saper troppo. Metta tutti alla porta.» Consegna rispettata.

Marco Conti

 

 


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