
Il racconto che dà il titolo alla raccolta Del meno, commenta con il linguaggio alto e prezioso dell’opera di Landolfi, certi politici presi da frenesia aggettivale come altrove (La conferenza), in poche pagine lo scrittore racconta di quel critico d’arte che per un’ora parla di qualcosa che non si capisce e di cui l’interlocutore chiede conto. In La volontà di potenza invece si parla di un letterato e professore che ogni notte scende baldanzosamente una careggiata e risalendo trova un fruttivendolo che lo saluta con grande rispetto ma non gli cede il passo, in modo tale che il letterato medita di non spostarsi affatto dal centro della strada e vincere la partita. In questi conflitti, che hanno per oggetto esplicito il linguaggio e la cultura e per tema la dialettica tra la finzione e il vero, si risolvono molte le pagine di Tommaso Landolfi. Non a caso in un racconto teatrale, Faust 67, l’autore mise in scena un personaggio di nome Nessuno che di forma in forma cerca il suo autentico destino. Letteratura e vita, linguaggio ed esistenza, stanno insomma con Landolfi su due piani diversi.
Del meno

Tornando alle pagine del racconto eponimo Del meno, si dice che quei politici che forgiano il loro linguaggio ricordano le iene perché «il loro grido notturno è in realtà grido di sgomento e di frustrazione, dovuto a ciò che le misere non trovano da mangiare se non carogne. Ma le aveste vedute le mie iene” soggiungeva da ultimo il citato articolista “che paghe, leccavano latte dalle mie ciotole”». Il narratore torna quindi all’argomento principale da cui è scaturito l’insolito paragone e sostiene «che forse un simile anelito incalza ministri e consorti. Più chiaramente ciascuno fa poesia come può: sebbene irta e blaterante, la segreta ispiratrice di tanti ufficiali discorsi confusi è pur sempre una musa. Ché invero (questo sì è singolare) non si dà ministro, per quanto abbarbicato alla sua poltrona, che non la cederebbe per chiamarsi poeta».
La similitudine che segue nel testo è quella di un moscerino (la si troverà ancora nel racconto Il moscerino, in questo stesso volume) che arranca su un muro e puntualmente scivola in basso o di una gatta che cerca il cibo sulla cima di una pertica, procedendo cautamente sui polpastrelli.
Il caso dell’ascensore
L’ultimo affondo di Landolfi, in questo raccontino, come spesso altrove, avvicina la filosofia dello scrittore. Noto per la sua passione per il gioco d’azzardo e la roulette, ecco comparire l’alea, il rischio, il tentare la fortuna non come semplice svago, ma come metafora più vasta e necessaria della vita. Si parla allora di un giocatore che «abitava al settimo piano dell’alveare, e sovente prendeva l’ascensore anche in senso opposto, vale a dire per scendere. Un giorno, partito egli appena verso le bassure, ebbe la fulminea percezione che lo scatolino cartesiano ov’era rinchiuso si fosse sganciato dal cavo; in termini volgari per qualche imprecisabile incidente l’ascensore stava precipitando senza freno né ritegno».
Lo humor landolfiano, arriva al dunque. Il personaggio chiuso nell’ascensore considera che non facendo nulla si schianterà con la scatola, ma se invece si mette «a saltellare» avrà almeno il cinquanta per cento delle possibilità di sopravvivere. Capitò allora che la cabina arrivata a terra, si schiantò ma «lui in quel preciso attimo si trovava per aria, e fu salvo (…)».
Del passato

L’ultimo paragrafo del racconto si direbbe sposti ancora altrove l’attenzione, ma in realtà si riaffaccia la questione dell’alea in altra forma, rivolgendosi cioè al passato con uno svolazzo ironico.
«Come mai gli amatori del passato e lodatori dei tempi trascorsi e insomma vagheggiatori o vaneggiatori d’un foglio quotidiano titolato “Indietro!” (con silografica impresa, nella testata, di mano reggente fiaccola capovolta e fumosa) – come mai codesti sono, in una gli odiatori del proprio personale passato? La domanda, del resto, è forse meramente privata. A buon conto mi sembra di vederlo chiaro, il come mai: odiamo il nostro passato perché è nella misura in cui non ha risposto alle nostre speranze nel passato».
L’ironia, che richiama alla memoria la testata socialista “Avanti!”, si conclude suggerendo di tornare al principio, di osservare ripartendo da zero, dal nulla, se «ci avvenisse di schivare il presente orrore.»
Uno stato d’insufficienza

La prosa di Landolfi, alta, forbita, dannunziana, dagli anni Trenta agli esiti conclusivi, è una eccentricità nel paesaggio letterario italiano, soprattutto se messa a confronto con i suoi temi novecenteschi (Guido Piovene parlando di Rien va richiamò Céline per dire che «la verità di questo mondo è la morte.») inerenti l’indecifrabilità dell’esistenza e la soggettività onnivora d’ogni codice. Da qui scaturisce l’alea di cui ho già detto, motivo centrale di molti racconti. Per esempio in Premio Letterario uno scrittore è sul punto di rinunciare a ritirare il premio per il fastidio dell’incontro implicito, poi avuto l’assegno corre a trasformarlo in gettoni della roulette perdendo l’intero importo: «Sempre esce il numero accanto». Lui stesso disse di essere perennemente in «uno stato d’insufficienza», come certi suoi personaggi. In Alienati un uomo tornando a casa sul filobus descrive il cane che sale sul mezzo si guarda intorno e poi scende alla sua stessa fermata. All’uomo pare di aver capito che il cane intuisca la sua scarsa voglia di portarlo a casa e infatti è così. Il giorno dopo il cane si presenta alla fermata del filobus:« Ma non salì (…) E questa, chi coraggiosamente ne indaghi i termini impliciti, è calzante figura della nostra vita.»
Marco Conti
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Tommaso Landolfi, Del meno, Adelphi, 2019. Euro 15,00
