Haiku, la misura di un istante

Katsushika-Hokusai, Monte-Fuji

Con qualche rara eccezione la metrica non interessa più la poesia contemporanea. Il verso libero nato e diffuso nell’ambito simbolista francese e approdato in Italia sotto altre vesti, prima con le trasgressioni carducciane e per nulla simboliste delle Odi Barbare, poi con il futurismo e quindi attraverso Campana e Ungaretti nei primi anni del Novecento, ha vitalità sufficiente, spendibile in ogni contesto. In sostanza il verso libero ha proposto un avvicinamento tra poesia e prosa, nei temi così come nel registro; ha consentito la libertà del frammentarismo e ha innervato esperienze imprescindibili.
Detto questo, la metrica ha avuto sul finire del Novecento maggiore fortuna in un ambito letterario ludico e in ogni caso privo di enfasi come di sviluppi. Penso alla fortuna dell’haiku e del limerick. Soprattutto al primo che, negli anni Ottanta (un decennio dopo il libro di Roland Barthes sulla sua esperienza giapponese e fascinazione per l’haiku), ebbe un seguito non irrilevante in termini di diffusione: premi, seminari, pubblicazioni, accompagnarono la curiosità di molti.

Impersonalità

In Giappone oggi l’haiku continua ad essere vitale, sia pure con diverse trasgressioni. Alcuni giornali gli riservano uno spazio e da sempre è costume scrivere tre versi per accompagnare doni, anniversari, date importanti.
Con Irene Iarocci  (che a questa poesia ha dedicato uno dei libri migliori apparsi in Italia, Cento haiku, Longanesi, 1982) si potrebbe cominciare col dire che la scrittura poetica haiku non ha soggettività. Un rilievo di assoluta importanza per noi ma che rischia di essere frainteso se non si aggiunge una informazione linguistica sostanziale: il giapponese non conosce la prima persona singolare. L’assenza di “io” non è del genere poetico, ma della lingua.

Il metro: 5-7-5 sillabe

Shin- bijutsukai (1901-1902)

L’apparente semplicità di questa forma ha attirato schiere di imitatori, così come l’obbligo metrico e formale.
L’haiku che ha avuto fortuna in Occidente è infatti quello tradizionale: un componimento costituito da tre versi di cinque-sette-cinque sillabe al termine del quale si esplicita il Kigo, ovvero la stagione a cui si fa riferimento tramite motivi o emblemi simbolici: gli animali, le piante, i fiori, occasioni calendariali (la rana, il passero, la peonia, il ciliegio la foglia gialla autunnale, il fagiolo, le mondine) e riferimenti indiretti alla vita della persona, a cerimonie, a miti, leggende. In definitiva il rapporto con il ciclo annuale è costituito da un parallelismo metonimico: il ciliegio per la primavera, le mondine per la stagione di trapianto, la pietra per la tomba.
A questo dato corrisponde inoltre uno spirito che assume nel testo della tradizione giapponese sia la credenza animistica per cui anche la pietra ha uno spirito (il che era vero, un tempo, per induisti, aborigeni e persino per il mondo celta) sia il pensiero buddista per il quale vi è comunione del singolo con il tutto e dunque anche “passaggio” di forme (la metempsicosi). Più precisamente l’haiku esprime un attimo, un tempo immobile in cui il poeta coglie una sorta di epifania, una manifestazione evidente dell’esistere.
Infine dal punto di vista fonico, l’haiku utilizza l’assonanza e l’allitterazione benché entrambi i richiami non siano indispensabili al ritmo o a qualificare la forma poetica.

Evoluzione dell’haiku nel Novecento

Shin- bijutsukai

L’evoluzione dell’haiku ha portato tuttavia con Masaoka Shiki (1867 – 1902) a una maggiore libertà di versificazione. Così inoltrandoci nel  XX secolo si trovano autori che hanno fatto deroga alla imposizione del metro di 5-7-5 sillabe e dell’ispirazione legata a fenomeni stagionali,
Shiki contestò infatti l’inaridirsi della tradizione lirica e suggerì un rinnovamento che considerasse oggetti diversi da quelli naturali.
In questo modo l’haiku si è avvicinato alla poesia occidentale del Novecento e per contro ha avuto, soprattutto negli Stati Uniti,  un seguito con opere scritte in inglese che, a loro volta, hanno influito su quelle nipponiche. Il secondo ‘900 è stato così contrassegnato da una divisione tra tradizione, libertà nella tradizione e interpretazione libera della tradizione.
D’altro canto lo stesso haiku nasceva da una forma poematica, lo haikai: un poeta iniziava con una terzina scritta che formava il tema al quale faceva riferimento per la recitazione restante (fino a 100 versi) che si svolgeva con l’aiuto di un secondo poeta, il quale componeva due versi di 7 e 7 sillabe per lasciare poi  alla voce del primo una nuova terzina.

Le stagioni

I risultati dell’haiku novecentesco sono individuabili sia nell’inclusione tematica e lessicale  di oggetti prosaici, quotidiani, sia in una maggiore astrattezza nelle espressioni con autori che parlano a prescindere da qualsiasi riferimento stagionale: Kaneko Tōta scrive:

Un’accesa discussione
poi scendo in strada
e in moto mi muto

Per tornare al verso classico giapponese: si chiede talvolta nei corsi di Scrittura Creativa se la traduzione (così come osservava Irene Iarocci in riferimento alle opere volte in italiano) debba rispettare la metrica originale. Ma in realtà la questione non è diversa da quella di altre traduzioni di autori che usino particolari regole prosodiche. Se la traduzione metrica è possibile senza rompere la natura ed efficacia del testo, la risposta non può essere che positiva. Ma i significati dei significanti (i campi semantici iscritti nel lessico e nella forma), non sono oggetti aleatori, tanto più in un testo di tre versi.

Interpretazione dell’ haiku

Iarocci notava in particolare (op. cit.) che risulta rilevante quel «silenzio ellittico» che rompe la composizione in due parti tra i primi due versi e l’ultimo. Un carattere, quest’ultimo, che si trova (con modalità diverse) anche in altre forme di poesia antica, come la terzina celtico-gallese, il Triban. Nel caso del Triban, tuttavia, l’ultimo verso vuole essere una sentenza scaturita dai primi due inerenti il mondo naturale o la vita comune.
Forse può essere eloquente questo haiku: “Lui – una parola/ Io – una parola/ e incalza l’autunno”. Il rapporto tra i primi due versi e l’ultimo è simile a quello tra la scena e il commento, con la differenza che il commento può essere inscritto in una immagine, solitamente in rapporto consequenziale e omogeneo con gli oggetti, cioè le figure citate nei primi due. Ma non è omogeneo ad esempio nel verso conclusivo sopra riportato: l’autunno incalzante a fronte del dialogo stremato che sembra alludere al tempo perduto e insieme alla ripetitività del tempo circolare.
Ugualmente è forte il movimento dialettico in questa poesia di Tomiyasu Fūsei (1885 -1979):
 

Minuscolo, un fazzoletto di giardino
malata vi cade
immensa una foglia
 
Il riferimento stagionale alla foglia autunnale (Kigo è per l’appunto questo referente) vive nel contrasto degli aggettivi tra il piccolo giardino e la foglia che appare immensa; un “apparire” che richiama con la stagionalità un nuovo tempo percorso e la precarietà umana riflessa nella foglia caduta.

Letture

Mori Yuzan’s (1903)

Ecco alcuni haiku a partire dal più grande e primo maestro, tradotti da Irene Iarocci con una scansione del verso interpretativa del ritmo e del significato rispetto all’originale: attenzione che prescinde quindi non solo dalla metrica ma anche dal numero di versi.
 
Matsuo Bashō:
 

Nello specchio antico
d’acque morte
s’immerge
una rana.
Risveglio d’acqua
 
La lirica è del 1686. Il kigo è la rana. La stagione è la primavera.

***
 Questo è invece un haku popolare di autore sconosciuto e antico:
 
Se manca il sake,
velata
è la bellezza dei ciliegi in fiore

***
  Di Kobayashi Issa, vissuto nel primo Ottocento:
 
 Su, allocco mio,
muta la tua espressione!
Questa è pioggia di primavera.
 
Kigo: pioggia di primavera

***
Yosa Buson è poeta del Settecento:
 
 Un giorno di pioggia –
Lungi è dalla capitale
la mia casa dei peschi ora in fiore

***
 

Nella tradizione è presente anche la voce divertita di Akutagawa Riunosuke:
 
Ranocchietto,
sei stato
riverniciato tu pure?
 
Kigo: ranocchio verde, riferimento all’estate.

***
 
In qualche caso il Novecento propone anche una scrittura sillabica in due versi, come è il caso di Ogiwara Seisensui:
 
Peonia, petalo a petalo, palpiti
Ti apri, ti ricomponi.
 
Oppure con Nakamura Kusatao:
 
Cose senza memoria,
e neve fresca e piccoli salti di scoiattolo

***
 
Nel Novecento Takama Kyōshi svolge una maggiore concettualizzazione:
 
Vento d’autunno –
allo sguardo
tutto è haiku

***
 
Più tradizionale ma moderno è il testo di Katō Shūson:
 
Un essere nato uomo
e un altro nato gatto
camminano insieme,
per la via rugiadosa

***
 
Ugualmente vicino alla sensibilità contemporanea è Ozaki Hōsai  vissuto al principio del ‘900 e privo di riferimenti stagionali:
 
Nel buio di un pozzo
ravviso il mio volto

Scrittura Creativa

Benché le terzine haiku oggi non siano più l’unico modo per scrivere testi inerenti il genere, penso che chi per vuole avvicinarsi all’haiku farebbe bene a impossessarsi sia della metrica originale, sia del riferimento alle stagioni o kigo, badando al rapporto metonimico (la parte per il tutto, il contenuto per il contenente, l’effetto per la causa) così come alla suggestione che dovrebbe possedere l’ultimo verso, per conseguenza o contrasto rispetto ai primi due.
L’esercizio vale d’altro canto a prescindere dall’interesse per questa forma di poesia. E’ sempre più frequente trovare testi poetici che, in ragione della commistione poesia-prosa, creano un verso fittizio dove la pausa è solo la sequenza di una frase con o senza inarcamento al verso successivo. La cosa di per sé ha una sua ragione d’essere ma chi affronta sia la scrittura in versi sia la lettura avrebbe, io credo, ragione di pensare in termini di efficacia rappresentativa.
L’esercitazione con l’haiku attraverso la giustapposizione di cinque – sette e cinque sillabe, può inoltre essere un avvicinamento al ritmo accentuativo della prosodia classica e quindi alle sue trasgressioni.

Come procedere per esercitarsi

1) Cerchiamo un istante descrivendolo nel modo più semplice possibile.

(Può essere un momento in cui si è rimasti soli nella natura o durante  l’ascolto di una musica o durante una lettura. In breve una esperienza in cui non so più chi sono e – semplicemente – mi avverto. Ciò che sento non è dietro le cose, ma è la cosa con un significato che prende corpo)

2)  Ora si richiami all’immaginario una scena di vita. Innumerevoli gli esempi possibili: il cortile vociante di un collegio; porte spalancate sul buio, una finestra da cui si ritaglia il cielo, un gruppo di ballerine, dei pantaloni gialli, i capelli lunghi di un soggetto, un albero secco, un’aiuola, una pietra elevata sul terreno, la sabbia più scura dopo l’onda, il motore di un’auto, la poltrona del padre o della madre, un tuono, una collana…

3) Associate gli attributi fisici e le implicazioni astratte (giovinezza, vecchiaia, sete, amori, paure)

4) Ora scrivete la vostra impressione in prosa o, meglio ancora, scrivetene parecchie.

5) Cercate di giustapporre le immagini significative in tre versi

Ultima tappa

Lasciate adesso in disparte l’aspetto più significativo, pensando alla struttura tripartita del testo. A questo punto cercate il metro dei primi due versi: cinque e sette sillabe.
Adattate infine l’ultimo verso badando non solo al significato ma anche all’aderenza all’istante iniziale immaginato e rivissuto.
Non è detto che riusciate a ottenere quanto previsto. Avete quindi davanti a voi due strade: accettare le suggestioni ottenute o riprendere nuovamente l’esercizio. Ma non crediate che l’esercizio metrico, come la rima, sia solo una questione formale e superficiale: in poesia, come in musica, come in pittura, la forma è il contenuto. La divisione tra l’una cosa e l’altra è strumentale. La ricerca di un metro, come della rima, può essere una palestra dell’immaginazione.

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