
«C’era un tempo in cui ammiravo la signorina Frizzi instancabilmente come chi abbia riconosciuto i meriti di una persona e non intenda poi pentirsene mai. E lei naturalmente essendo insegnante di lingue estere non mi voleva smentire di questo fatto. Per ore dunque curava il ripasso delle mie cognizioni grammaticali entrambi comodamente seduti in un giardino forse non più adesso esistente della mia città. Io potevo anche dirle enormi strafalcionerie senza che lei si prendesse di impazienza o gridasse per la grande comprensione del suo spirito. Né passava giorno o due che non giungessi io al luogo dove sapevo trovarla ossia giardino pubblico ma non troppo frequentato recandole tra le mai un mazzo di fiori. Vuoi primule con reseda vuoi rose con altri contorni significanti cioè rispettivamente gioventù con dolcezza e beltà con altri pregi. E lei replicava a me spesso con offerte d’edera significante amicizia quando non con mammole significanti ma per scherzo s’intende pudore e modestia. »
Gianni Celati, Le avventure di Guizzardi, 1972
Il secondo romanzo di Celati inizia in questo modo, con l’effusione della memoria che prende la strada della comicità grazie a una mimesi della magniloquenza di maniera. Presto il protagonista, Guizzardi, detto Danci, sarà in fuga dalla famiglia e verrà catapultato in un mondo tanto provinciale quanto colorato e picaresco. In breve, fin dall’esordio, le pagine di Gianni Celati vivono attraverso una nozione originale, e in controtendenza, della narrativa.
La trilogia e il suo controtempo

La morte di Gianni Celati, avvenuta lo scorso 3 gennaio a Brighton, dove viveva dal 1990, consegna così alla letteratura un’opera che non ha confronti nel Novecento italiano. Dopo la trilogia di Comiche (1971), Le avventure di Guizzardi (1972) e La banda dei sospiri (1976) – e messa in disparte la storia di Lunario del Paradiso (1978) dove è perseguito un registro diverso – Celati sorprese ancora una volta con una sequenza di racconti che sembrava invertire il carattere delle sue pagine fatte di leggerezza e comicità. Narratori delle pianure (1985) ha infatti temi e modi che porgono la vita quotidiana ma azzerano sia la precedente lingua d’invenzione, con il suo registro mimetico, sia l’atmosfera e le performance dei personaggi. Eppure, questa raccolta, inaugura una stagione che qualificherà lo scrittore fino alla fine: con Quattro novelle sulle apparenze (una sorta di ripresa del racconto morale), con la scrittura diaristica di Avventure in Africa e i racconti I costumi degli italiani. Ogni libro avrà un proprio centro gravitazionale, ma lo stile di Celati continuerà a modellarsi su di un parlato asciutto, paratattico, dove l’ellisse è quella della voce, dell’oralità che richiama le storie del Novellino.
Narratori delle pianure
«Ho sentito raccontare la storia d’un radioamatore di Gallarate, provincia di Varese, il quale s’era messo in contatto con qualcuno che abitava su un’isola in mezzo all’Atlantico. I due comunicavano in inglese, lingua che il radioamatore italiano capiva poco. Capivo però che l’altro aveva sempre voglia di descrivergli il luogo in cui abitava e di parlargli delle coste battute dalle onde, del cielo che spesso era sereno benché piovesse, della pioggia che su quell’isola scendeva orizzontalmente per via del vento, e di ciò che vedeva dalla sua finestra.»
Gianni Celati, “L’isola in mezzo all’Atlantico” da Narratori delle Pianure, 1985

L’epigrafe che campeggia sulla raccolta è eloquente: «A quelli che mi hanno raccontato storie, molte delle quali sono qui trascritte». Il riferimento al Novellino, alla tradizione orale, non è quindi un approccio intellettualistico o di atmosfere, ma un modello perseguito alla radice proprio nel momento in cui la letteratura europea si dirige, all’opposto, verso la citazione, verso la postmodernità, il rifacimento dei generi o l’interiorità, col suo gravame di temi e ambizioni. Il viaggio attraverso la pianura Padana ha invece nella sua prassi quotidiana e nello straniamento che vi si può inscrivere, la nuova stella polare di Celati.
Nella terza di copertina del volume, una nota dell’autore, tratta dalla rivista “Alfabeta”, dice: «Crediamo che tutto ciò che la gente fa dalla mattina alla sera sia uno sforzo per trovare un possibile racconto dell’esterno, che sia almeno un po’ vivibile. Pensiamo anche che questa sia una finzione, ma una finzione a cui è necessario credere. Ci sono modi di racconto in ogni punto dello spazio, apparenze che cambiano a ogni apertura d’occhi, disorientamenti infiniti che richiedono sempre nuovi racconti (…)».
L’immaginario della tradizione orale
Il racconto di Celati assume così un immaginario che ha valenza antropologica, si tuffa a perdifiato nel mondo delle vite riferite da altri. Le visioni, gli straniamenti prodotti, sono legati alla libertà della reinvenzione come nella trascrizione della leggenda. E’ l’esatto opposto della stilizzazione stratificata dalla storia letteraria. La lingua e i “saperi” adottati non mediano più, per conseguenza, le verità dell’arte, o le sue ragioni metafisiche. E’ ora la ricreazione del mondo nella quotidianità a svolgere il ruolo principale.
Celati, il dislocamento e la fuga
Nella trilogia di Celati le costanti erano la storia di una fuga, personaggi strampalati, avventure destinate a rigenerarsi in altre fughe. Successivamente nel vagabondaggio tra le foci del Po, nei viaggi in Africa e in Europa ( e persino nello stesso migrare dell’autore, tra una cattedra a Bologna, in Francia, negli Stati Uniti e in Inghilterra), si riproduce il tema di fondo dell’opera: l’avventura del caso, la storia del viaggio.
Non per nulla, una recente tesi di laurea di Emma Adami ha posto a confronto la trilogia di Celati all’avventura di Pinocchio e alle storie di abbandono e isolamento di Samuel Beckett. Da un canto il temperamento dei personaggi stralunati e marginali dell’italiano, dall’altro quelli deprivati dell’irlandese. Il punto di contatto è precisamente questo, mentre il nome di Collodi qualifica il carattere e le situazioni dei personaggi di Celati, sia pure in un ambiente dal quale il meraviglioso è assente.. Celati inventa a questo riguardo una propria misura per consentire l’incontro tra i fatti e una terra di mezzo senza nome. La sua scrittura, immersa nella vita, continua a farsi leggere con qualcosa a cui non è estraneo una sorta di pathos della lontananza. E proprio per questo resterà in consegna alla letteratura.
Marco Conti
Bibliografia: Comiche, Einaudi, 1971; Le avventure di Guizzardi, Einaudi 1973; La banda dei sospiri, Einaudi 1976 (poi Feltrinelli 1989 e ’98; Quodlibet 2015); Finzioni occidentali (saggi), Einaudi 1975; Lunario del paradiso, Einaudi 1978 (Feltrinelli 1989, poi ’96); Alice disambientata, L’erba voglio 1978; Le lettere 2007); Narratori delle pianure, Feltrinelli, 1985; Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli, 1987; Verso la foce, Feltrinelli, 1988; Avventure in Africa, Feltrinelli, 1998; Fata morgana, Feltrinelli, 2005; Costumi degli italiani 1. Un eroe moderno, Quodlibet, 2008; Costume degli italiani 2. Il benessere arriva in casa Pucci, Quodlibet, 2008; Selve d’amore, Quodlibet, 2013; Romanzi, Cronache e Racconti (a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Meridiani Mondadori, 2016