Anarchico proclamato e primo della classe al liceo (ma nondimeno bacchettato da una madre severa, maestra di professione), Luciano Bianciardi appare oggi allo sguardo della critica tra i pochi autentici outisder della letteratura italiana del Novecento. Bene ha fatto quindi Sandro Montalto, poeta e critico, a dedicargli un vivacissimo saggio (Bianciardi – Una vita in rivolta, Mimesis Edizioni) che percorre la vita e le pagine di questo intellettuale “disorganico” privilegiando il rapporto dello scrittore con il suo tempo, vale a dire gli anni in cui il Paese si affaccia al consumismo e alla rivoluzione culturale.
Le avvisaglie di questa vena ribellistica, del resto, non mancavano e sono puntualmente recensite. Ecco Bianciardi adolescente che scrive a Mussolini chiedendogli le dimissioni ed eccolo, in quegli stessi anni di liceo, pronto a sbeffeggiare l’ermetismo ungarettiano scrivendo versi così concepiti: «QUIETE Oggi/ riposo », oppure «CONTRASTO Pastasciutta/metafisica».
Ma la satira, anticipata fin da queste sortite, sarà soltanto l’aspetto più superficiale di una narrativa che nel 1962 suggerisce la rivolta sessantottina e soprattutto la distanza tra il mondo metropolitano e le aspirazioni dell’uomo liberate da retaggi e vincoli.
Le due parole chiave di quei tempi, l’alienazione dell’uomo marcusiano e la rivoluzione politica vagheggiata da una parte importante della Sinistra, non sono però la formula con cui l’autore della Vita Agra immagina il riscatto futuro. Scriverà: «Ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico- sociale divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano». Un obiettivo che, negli ultimi anni della sua vita, non gli sembrerà più perseguibile. E tantomeno a livello letterario poiché proprio nelle pagine critiche scritte su Bianciardi da Carlo Bo, Geno Pampaloni e Michele Rago, si è sempre avvertito un motivo di riduzione della qualità dello scrittore nel suo stesso farsi oggetto narrativo di ironia, oppure in un presunto trasferimento degli autori tradotti, sulle pagine della Vita Agra e di altri testi, quando non si porti in giudizio addirittura il ruolo dell’intellettuale.
Sandro Montalto propone, rispetto a quest’ultimo concetto, le osservazioni fatte da Nicolas Martino, il quale addebita a Bianciardi il ruolo tradizionale dello scrittore «arrabbiato di professione», mentre poco più avanti trascrive una nota di Gian Carlo Ferretti che così si esprime: « Si può dire fin d’ora che in articoli, lettere e racconti-saggio Bianciardi non vede o non vuol vedere la vivacità e creatività della vita intellettuale, letteraria, teatrale, cinematografica degli anni Cinquanta (e poi Sessanta) a Milano e in Italia, perché continua più o meno consapevolmente a vivere in una dimensione provinciale, arroccato».
Al tema trasgressivo per eccellenza il critico dedica una parte cospicua del saggio. Non a caso, poiché il sesso e la libertà sessuale contrassegnano il mondo dello scrittore toscano sia come traduttore che come narratore avendo egli, di pari passo, un ruolo centrale nella rivoluzione culturale, nell’acquisizione del pensiero psicanalitico e nella migrazione da una sponda all’altra dell’oceano dei motivi ribellistici della generazione beatnik.
Ecco un passaggio sintomatico dello stilema bianciardiano nella Vita Agra: «E poi ogni anno, al volgere della primavera, ciascun villaggio sceglierebbe il suo bel prato, e lì s’intratterrebbero, da stelle a stelle, due o trecento coppie di copulanti, sulla sfondo del cielo terso, durando lo strillare delle cicale, ma senza ventilazione di ninfe bianco velate, con accompagnamento dei cori che vanno eterni dalla terra al cielo, e in un angolo, gialla, ferma, inattiva, una macchina trebbiatrice della premiata ditta Cosimini di Grosseto. Lo so, finirebbe la civiltà moderna: cesserebbe ogni incentivo alla produzione dei beni di consumo (…)».
L’itinerario proposto approda così all’ultimo Bianciardi, ormai disilluso, critico verso la Sinistra imperativa e imperante nelle sedi culturali. Distante da questi diktat lo scrittore si proclama anarchico «nel senso – specifica – che auspico una società basata sul consenso e non sull’autorità». La sintesi di Montalto è articolata e tersa: «Ha ormai capito fino in fondo che gli si chiede di esercitare “la professione dell’incazzato”, e che non è più ormai un momentaneo gioco di società al quale ci si poteva anche adattare un poco: ha ormai anche timore di manifestare le sue incazzature autentiche perché potrebbero sembrare ad alcuni una posa, o l’obbedienza a una legge di mercato».
Sandro Montalto, Bianciardi – Una vita in rivolta, Mimesis, 2017