
Louise Glück (New York, 22 aprile 1943) ha vinto il premio Pulitzer per la poesia nel 1993 con la raccolta The wild iris. Ha ottenuto inoltre il Nation Book Award nel 2014. Qui sopra l’autrice in una foto degli anni Sessanta
«Guardiamo il mondo una volta, nell’infanzia.
Il resto è memoria»
Louise Glück scrive questi versi chiudendo una poesia intitolata Nostos. Il ritorno a casa, il luogo in cui le cose sono state viste per la prima volta, non è tuttavia la cornice dei testi ma il termine di paragone costante che anima la scrittura di Louis Glück. Un mito che vale la pena di reinventare prendendo le mosse dalle sorgenti della poesia occidentale: Omero, Achille, Odisseo, diventano i compagni di strada del libro che segue immediatamente il successo di “L’iris selvatico”, vale a dire Meadowalands, “Prati”, nel 1996. Si profilano così nei titoli, come voci recitanti, le figure di Telemaco, di Penelope, o Ulisse, detto e meditato dalle parole di Penelope.
Itaca
Ma di pari passo, come in un romanzo, la voce lirica può appartenere anche ad un “narratore” – per così dire – onnisciente che parla con solennità. E’ il caso di Itaca:
L’amato non ha
bisogno di vivere. L’amato
vive nella testa. Il telaio
è per i proci, ordito
come un’arpa con filo bianco di sudario.(1)
Il discorso colloquiale, allusivo, ma costruito e franto su un immaginario che appartiene ad ogni lettore, consente alla poetessa di far deflagrare immagini e versi di grande energia. Soprattutto nelle chiusure strofiche, come si legge nello stesso testo di Itaca:
non sanno che quando uno ama in questo modo
il sudario diviene un abito da sposa.
Penelope può avere persino in questo dettato le cadenze della lingua più intima, fatta di vezzeggiativi, di inviti recisi, di svelte locuzioni quotidiane: in Canto di Penelope, Louise Glück scrive:
Animuccia, piccoletta perpetuamente svestita,
ora fa’ come ti dico, monta
i rami scalati dell’abete;
aspetta in cima, attenta, come
una sentinella o vedetta. Lui sarà presto a casa (…)
Ecco quindi la fisionomia dei prati, allusi nel titolo, assumere il contrasto di un registro umile su una materia importante, così come il già citato Nostos che discorre all’incipit di un «melo» con la nostalgia che viene dal ricordo remoto e inattingibile nella sua invisibilità: «C’era un melo nel cortile -/questo sarà stato/ quarant’anni fa – dietro,/ solo campi. Macchie/di crochi nell’erba umida.»
Lo spazio del mito

Eppure questo spazio mitico, personale e universale, può diventare l’occasione per una poesia più diretta al cuore dell’esistenza capace di avviare un dialogo metafisico. Anzi, il mondo appena evocato di Meadowalands, segue anziché precedere L’iris selvaggio pubblicato nel 1992: 54 poesie che compongono una struttura singolare. Il libro si apre in primavera e procede verso i fasti dell’estate. Parlano in primo luogo le piante, le “essenze” del giardino di casa, parlano la giardiniera, il marito della medesima, il figlio. Ma la giornata si articola ugualmente in Mattutini e Vespri. E qui il dialogo diviene dialogo col trascendente, tra poeta e Dio, tra chi crea il testo e chi ha creato ogni possibile “testo”.
Christine Atkins, commentando questo libro, scrive: « In assenza di un dio amoroso, compito del poeta è celebrare lo splendore del mondo naturale, con il linguaggio, e identificare la porta alla fine della sofferenza dove “dal centro delle mia vita venne/ una grande fontana, ombre blu/profondo su acqua di mare azzurra».
Ecco il testo che dà il titolo alla sua raccolta più famosa:
Alla fine del mio soffrire
c’era una porta.
Sentimi bene: ciò che chiami morte
lo ricordo.
Sopra, rumori, rami di pino smossi.
Poi niente. Il sole debole
tremolava sulla superficie secca.
E’ terribile sopravvivere
come coscienza
sepolta nella terra scura.
Poi finì: ciò che temi, essere
un’anima e non poter
parlare, a un tratto finì, la terra rigida
si curvava un poco. E quelli che mi parvero
uccelli sfreccianti in cespugli bassi.
Tu che non ricordi
passaggio dall’altro mondo
ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò
che ritorna dall’oblio ritorna
per trovare una voce.
dal centro della mia vita venne
una grande fontana, ombre blu
profondo su acqua di mare azzurra.
In questa poesia (come nelle liriche che prendono il nome di una pianta) sono le essenze arboree che parlano agli umani con il timbro asciutto e immaginoso della Glück ma non discorrono di occasioni quotidiane, bensì del loro ciclo vitale, nascita, fioritura, morte, desiderio, gioia, paura.
Anche qui la lirica aggira la mondanità autobiografica appena enunciata di prativi o di giardini casalinghi; la scrittura usa i modi spicci del colloquio solo per far deflagrare meglio il trasparente dettato esistenziale.
Vita Nova

In Vita Nova (1999) si fa strada un’accezione particolare della riflessione: è il vissuto della poetessa il nucleo centrale della raccolta dove persiste una interrogazione sul valore da attribuire alle cose spesso combattute tra realtà e desiderio, tra dato fattuale e sogno. Anche in questo caso il continuo frammentarsi di immagini richiama i motivi centrali della sua poetica, anche qui i riferimenti al mito greco (Didone) sono speculari all’interrogazione del reale.
Fiori d’arancio soffiano sulla Castiglia
bambini che elemosinano spiccioli
incontrai il mio amore sotto un arancio
o era un’acacia
o lui non era il mio amore?
(da Castiglia)
Com’è crudele la terra, i salici scintillanti,
le betulle che si piegano e sospirano.
Com’è crudele, com’è profondamente tenera.
Il mio amore sta morendo; il mio amore
non solo una persona, ma un’idea, una vita.
Per cosa vivrò? (da Lamento)

Louise Glück riesce a far coincidere gli opposti: la contingenza, la pozzanghera del caso con il valore irrinunciabile, l’inflessione di una parola sulla porta di casa con l’esemplarità del mito. E’ in questa commistione che vive la voce recisa dei suoi altissimi versi.
Marco Conti
(1) Tutte le traduzioni riportate sono di Massimo Bacigalupo