
I frammenti della vita, il paesaggio visto una volta da un balcone, una domanda che sopravviene improvvisa e subito si mescola con il vissuto, con l’incedere quieto di una passeggiata: un sasso, un uccello sulla via, una soglia: tutto nella poesia di Alberto Toni diviene misura della finitudine, tema di riflessione e allegoria. Lo conferma quest’ultimo libro, Tempo d’opera, accompagnato da una bella introduzione dove Roberto Deidier ricorda le occasioni e gli anni di un lungo sodalizio.
Alberto Toni (1954-2019) «al momento della sua scomparsa – avverte la terza di copertina – stava lavorando a un nuovo libro di versi, del quale aveva già potuto abbozzare la struttura e decidere il titolo». La compattezza della voce e dell’itinerario risultano evidenti: si ritrovano non solo i modi ma i temi che hanno contrassegnato i libri precedenti dando riscontro a quanto scrive Deidier: «Tempo d’opera è, insieme, viatico e testamento». L’esordio era avvenuto con La chiara immagine nel 1987; una promessa subito confermata dalle poesie di Partenza l’anno successivo. Ma le tappe forse più importanti furono quelle della raccolta Dogali (1997), Alla lontana alla prima luce del mondo (2009) e di Vivo Così nel 2015, dove si legge una scrittura di sapienza lirica lieve come un semplice appunto:
Decidemmo la strada. Il grosso sarebbe giunto di lì a poco, l’atteso, il non nominato giudizio. Avevo scelto con te tra le pieghe dell’abito, il più portabile, l’unico forse che non casca male, un blu solito tra i tanti. E l’entusiasmo per dirlo.
I versi e lo specchio dell’arte
Commentando una selezione della poesia di Toni sull’Almanacco dello specchio del 2009, Alberto Bertoni ha scritto che il verso dell’autore affonda in una radice comune « configurandosi come esperienza di religiosità laica dentro gli avvenimenti della storia e di un vissuto privato». Sotto molti aspetti Tempo d’opera sembra confermare questo percorso ma con valenze del tutto originali. Fin dal primo testo si affaccia un verso che riflette sull’atto della scrittura, «il segno che decifra»…Tanto che altrove annota: «Ogni poeta ha una sua forma grafica./ E’ un tratto distintivo, una forma del cuore,/ il visto o solo immaginato che torna,/ si stende in forma come l’ombra del ramo/ qui sotto visto/ o solo immaginato.» Ma ancora più cospicua è la sequenza referenziale di opere d’arte e pittori che, in questo contesto, porgono la loro creatività come speculare alla riflessione di Toni e diventano occasione di dialogo intimo. La galleria convocata cita il «verde Bonalumi», la paurosa magrezza e instabilità delle figure di Giacometti, la vita appesa ad un filo nell’imagerie surreale di Calder, oppure ancora reinterpreta per traslato il «taglio netto di Fontana» in una lirica che si tende dalla storia alla metafisica, dal luogo circoscritto all’interrogazione esistenziale; Osvaldo Licini è un’altra presenza, per niente occasionale:
Un’anima pura. E dove vai tu, perso dietro un Licini appena mosso nello spazio,
l’Angelo che sospeso ti guarda e giudica?
Uno specolo pittorico che con analoga valenza verso la trascendenza è ripreso da un altro testo di questa raccolta, “Quella mela in giardino poi non l’ho più vista”, dove la lirica così conclude:
(…) tornava a casa, sfogliava i libri, tutto in poche
parole essenziali, pensava che il desiderio si aprisse in alto,
alla Chagall.
La lingua, le forme

Rispondendo a una intervista, Alberto Toni precisò il suo approccio creativo: «La mia poesia parte sempre da un dato reale, che poi diventa percorso mentale, astratto, senza però perdere le coordinate. Da una cosa ne nasce un’altra, magari lontanissima».Più che altrove Tempo d’opera rende visibilissimo questo processo creativo. Per esempio nella lirica appena qui sopra appena citata dove il referente fisico si accompagna a un registro basso, a locuzioni tolte dal quotidiano ma si conclude, con la stessa voce, attraverso la riflessione sui motivi pittorici di Chagall.
Di questo carattere è segnale ricorrente il primo verso pronunciato in medias res. Il che accade per esempio con “Quel vaso di felci, non lo guardo mai”:
Quel vaso di felci, non lo guardo mai,
ed è come se stesse lì da un’eternità (…) Oppure e di pari passo con:
«La vita poi ce la riprendiamo sempre» e l’incipit pascoliano di pagina 67: «Il cipressetto infantile sta sul mio confine, proprio/ in angolo, cresciuto sbanda, vuole parlare,/ dice che è l’ultimo sole della mattina».
Il discorso lirico procede quindi con un verso ora monologante, ora teso sull’ immagine, fino a porgere una riflessione formalmente compiuta per il testo e “aperta” per il lettore.
Le cinque: si apre il mattino e il primo merlo, poi il tordo sassello prima luce e la cincia. Saresti così gentile, chiedo, saresti così gentile da ricordarmi la vita, tutto il tempo che ho trascorso, diciamo, il più lontano e di scarsa memoria. (...)
L’homme di Giacometti
Confrontando gli esiti più luminosi di quest’ultimo libro con quelli che li precedono, l’impressione più viva rimane impregnata di una incessante interrogazione etica, di una tensione leopardiana proferita nel tempo della storia e nel secolo dove la contingenza è fatta misura: «Il corpo è qui, l’anima sta sopra, l’altezza/ non vista, eppure basta un niente per aprire/ il cancello», scrive in Alla lontana, alla prima luce del mondo. Con poche eccezioni questa voce ha continuato a circoscrivere questa fisionomia di precarietà nel mondo, da Vivo così (“Vivo così, d’attesa”), a Tempo d’opera, di cui potrebbe essere esemplare l’evocazione figurale dell’uomo di Giacometti: «Si ritirava a questo punto, nel vuoto l’indice/ della mano destra come l’homme di Giacometti del ’47, magro da far paura nella sua magrezza,/ o in cammino al tempo sempre vuoto e senza direzione»…
Marco Conti
Alberto Toni, Tempo d’opera (a cura di Roberto Deidier) Pp. 108, Il ramo e la foglia edizioni, 2022; euro 13,00